La colonizzazione produsse un periodo di grande espansione economica: infatti tra madrepatria (metropolis) e colonie, che dalla prima si resero subito indipendenti, si sviluppò un fitto scambio di merci, indirizzato nello stesso tempo anche verso le popolazioni confinanti. Così, in questo periodo, si sviluppò una classe economica che potremmo definire 'media': artigiani che producevano manufatti di uso comune e di lusso (soprattutto vasi decorati, di raffinata bellezza), marinai, armatori e mercanti.
Questi ceti emergenti, che acquisivano un ruolo di primo piano, incominciarono a pretendere di aver maggiore peso in fatto di decisioni politiche. La ripresa economica delle città greche, era dovuta principalmente al loro lavoro: essi erano ben coscienti della loro importanza e mal tolleravano di essere sottomessi agli aristocratici.
Nel frattempo però un'altra trasformazione rendeva sempre più precario il predominio dei nobili: l'innovazione dell'esercito. Tra l'VIII e il VII secolo a.C. l'esercito della polis era profondamente mutato: in precedenza il nucleo più importante era stato la cavalleria, formata dai nobili che soli potevano comperare oltre all'armatura anche il cavallo. In seguito l'importanza della cavalleria nei combattimenti decadde, mentre acquistò maggior rilievo la fanteria, formata appunto da mercanti, artigiani e piccoli proprietari che avevano sufficienti ricchezze per acquistare la corazza di bronzo, la spada di ferro, l'elmo e lo scudo rotondo di legno e di cuoio (hoplon, da cui il nome di opliti che veniva dato a fanti così armati). In battaglia gli opliti si disponevano l'uno a fianco dell'altro, secondo uno schieramento rettangolare che era protetto sui quattro lati da una barriera di scudi, portati dai fanti delle file esterne. Questa formazione compatta, detta falange, divenne il nucleo di tutti gli eserciti greci e si rivelò un'arma formidabile sia per attaccare sia per respingere gli attacchi nemici. La difesa della città dunque non veniva più garantita solo dai nobili, ma anche dal popolo e soprattutto dalle classi medie che avevano denaro per procurarsi l'equipaggiamento militare. Ben presto queste chiesero che la loro forza militare si trasformasse in forza politica e che gli aristocratici cedessero parte del loro potere.
Il conflitto sociale era inevitabile: da una parte l'aristocrazia e dall'altra le nuove classi emergenti (mercanti, artigiani, piccoli proprietari). Alle rivendicazioni di queste ultime si unirono anche coloro - e non erano pochi - che non avevano tratto alcun vantaggio dalla ripresa economica e che vivevano ai margini della società, senza fonti sicure di reddito e spesso carichi di debiti. La coalizione antiaristocratica ebbe successo nella maggior parte delle poleis e il potere passò quasi dovunque nelle mani dei tiranni. I tiranni (così chiamati da una parola greca che in origine significava semplicemente 'signore', ma che fu poi usata per indicare chi si impadroniva del potere al di fuori delle leggi dello stato) solitamente erano degli aristocratici, passati però dalla parte del popolo, di cui avevano saputo conquistarsi l'appoggio. In genere i tiranni furono politici abili e saggi che attuarono una politica favorevole al demos: finanziando e spesso capeggiando la rivolta contro i nobili, essi acquisirono quei meriti che li portarono al governo. Distribuirono ai contadini le terre confiscate agli aristocratici, incoraggiarono i commerci e le colonizzazioni. Si diedero anche molto da fare per accrescere la bellezza e il prestigio delle poleis e per rendere migliore e più comoda la vita dei concittadini. Furono per lo più governanti pacifici e non si imbarcarono in imprese militari, che certamente avrebbero loro sottratto il favore del popolo. Malgrado la loro politica però i tiranni non resistettero per molto tempo al potere; il popolo non tollerò a lungo che le funzioni di governo fossero nelle mani di un unico individuo: esso infatti intendeva esercitare direttamente il potere strappato ai nobili. Quando i tiranni tentarono di prolungare troppo la loro carica, o addirittura di trasformarla in una vera e propria monarchia, furono inesorabilmente rovesciati, a uno a uno, da ribellioni popolari. Alla caduta dei tiranni in parecchie poleis seguì l'instaurazione di un governo democratico; in altre, invece, gli aristocratici ripresero nuovamente il potere e ripristinarono gli antichi regimi.
Un tempo si era soliti distinguere nettamente, nel periodo arcaico, tre scuole di scultura: la dorica (detta anche cretese-peloponnesiaca per gli evidenti collegamenti iconografici con Creta), la ionica e la attica. Oggi si è veduto che le influenze reciproche e gli scambi di artisti furono intensi sin dai tempi più antichi, per i quali l'artigiano-artista che si disloca da una città all'altra è documentatamente tipico. Ciò non toglie che i centri più importanti abbiano dato vita nel VI secolo a grandi scuole di scultura, di cui restano innumerevoli nomi di maestri, orgogliosamente incisi sulle basi delle statue; e si delineano aree stilisticamente omogenee che, pur nell'unità tematica quasi ossessiva della raffigurazione della giovinezza, mostrano caratteristiche ben riconoscibili. Argo e Sicione, e poi Corinto nel Peloponneso; Efeso, Mileto e poi le isole, innanzi a tutte Rodi e Samo, Nasso e Chio citate anche dalle fonti letterarie come centri artistici assai precoci, hanno dato vita ad opere che possono distinguersi per caratteri peculiari.
Nelle scuole peloponnesiache si sviluppa, nella statua, la concezione di una struttura a blocchi nettamente definiti e sovrapposti che provocano cesure e passaggi di piano molto scanditi con un forte contrasto di luci e ombre. Si creano così opere massicce come i gemelli Kleobis e Biton, dai tozzi corpi possenti in cui sono nettamente definiti i volumi ed esaltati i muscoli.
Nelle scuole ioniche prevale invece una linea di contorno elegante e sinuosa che evita i bruschi passaggi di piano e le cesure provocando un chiaroscuro più sfumato, morbido e raffinato. Sempre nelle scuole ioniche si preferiscono proporzioni più allungate e, per quanto riguarda le korai si dà grande importanza al panneggio che grandi possibilità offre all'eleganza ionica.
Queste due correnti si incontrano, si armonizzano e si fondono, dando luogo ad uno stile nuovo ed originale, in quel cruogiolo di cultura che è l'Atene di Pisastrato e dei suoi figli. Lo stile attico delle sculture può quindi essere considerato il risultato di un accostamento e di una fusione tra stile ionico e stile dorico.
Durante l'VIII secolo a.C., forse nei primi anni, Corinto nacque attraverso la fusione di otto villaggi contigui, cui ben presto si aggiunsero altri centri - da entrambe le parti dell'istmo - i cui abitanti accolsero con favorela protezione dalle continue scorribande dei pirati. Intorno all'800 a.C. i Corinzi fondarono uno stanziamento a Itaca, nell'arcipelago delle Ionie e verso il 730 a.C. due colonie a Corcira (Corfù) e a Siracusa, nella Sicilia orientale. Queste fondazioni, intraprese con l'approvazione di Delfi, costituirono il nucleo della vasta struttura coloniale di Corinto, con cui mantennero legami insolitamente stretti. Attorno alla metà del VII secolo a.C., anche Corinto, come gran parte delle città greche, conobbe la tirannide con Cipselo. Ma fu sotto il figlio di questi, Periandro, che la città raggiunse intorno al 600 a.C. il culmine dal punto di vista commerciale, inondando il mondo occidentale dei suoi prodotti (in particolare ceramiche) in cambio di grano dalla Sicilia e di metalli etruschi.
Nonostante i resti archeologici siano molto scarsi, le fonti insistono spesso sulla fioritura artistica di questa città in epoca arcaica. Attorno al 720 a.C., come abbiamo visto, compare a Corinto la prima ceramica 'orientalizzante' (detta protocorinzia) e stando alle fonti a Corinto sarebbe nata anche la decorazione dei frontoni dei templi.
E' infatti proprio in questa città e nei territori in cui si diffuse la sua influenza che appaiono i primi templi eretti con dimensioni relativamente importanti; essi appartengono a quello che in seguito venne chiamato ordine dorico che si forma e diventa canonico a partire dal 600 a.C. circa.
La colonna, priva di una propria base, si appoggia direttamente sullo stilòbate, la piattaforma comune a tutto l'edificio; è rastremata verso l'alto e percorsa verticalmente da una serie di scanalature (circa 20), abbastanza larghe; ornata in alto dal collarino, è coronata dal capitello, formato da due elementi: una specie di cuscino a pianta circolare, detto echìno, e una lastra quadrangolare, detta àbaco. La trabeazione sovrastante è costituita dall'architrave, completamente liscio, e dal fregio decorato che alterna lastre aggettanti con tre scanalature (triglifi) e lastre quadrangolari rientranti lisce o, per lo più, scolpite con poche figure (mètope). Il tempio si conclude in alto con la copertura a due spioventi che forma, sulle testate, due zone triangolari (frontoni o timpani) ove spesso sono collocate scene scolpite con temi mitici. Alle due estremità del frontone potevano essere collocate delle statuette (acroteri).
Come abbiamo detto il tempio aveva in origine molti elementi in legno che nella struttura del tempio dorico sembrano essere ricordati: la colonna trae la sua forma dai tronchi d'albero posti a sostegno dell'edificio, i triglifi dalle testate delle travi e così via. L'Heràion di Olimpia, che costituisce il più antico esempio di tempio dorico, doveva avere colonne di legno, che venivano sostituite con altre in pietra via via che si deterioravano, come ci è testimoniato, nel II secolo d.C., dallo storico Pausania che menziona la presenza di una colonna in legno di quercia, ancora esistente alla sua epoca nella parte posteriore del tempio.
Uno dei più antichi ed importanti esempi di architettura dorica è il tempio di Artemide di Corfù che risale al 590 a.C. Corfù rientra nella sfera d'influenza corinzia già a partire dall'VIII secolo a.C., quando un gruppo di coloni provenienti da Corinto fondò l'antica Corcira. Il tempio presentava 8 colonne sui fronti e 17 sui lati, quindi aveva una forma abbastanza allungata, tipica dei templi arcaici. Tuttavia l'edificio non è noto tanto per la sua architettura, quanto per la decorazione del frontone, dove spicca una grande immagine di Gorgone.
218. Frontone di Corfù; 590 a.C.; Corfù, Museo. Al centro del frontone spicca la colossale figura della Gorgone Medusa, raffigurata in gloria tra i suoi due figli, Chrysaor (di cui si conserva il busto alla sua sinistra) e Pegaso (perduto, alla sua destra). Secondo il mito quando Perseo, per volere di Polidette, re delle Cicladi, uccise Medusa decapitandola, dal corpo di questa nacquero due creature prodigiose: Chrysaor ('l'uomo dalla spada d'oro') e Pegaso, un meraviglioso cavallo alato. Perseo salì in groppa al destriero, mise la testa della Gorgone, per sottrarla al suo sguardo, nella bisacca magica, e fuggì. Ai lati dei figli di Medusa vi sono due pantere accosciate, il cui pelame è reso con incisioni a cerchietti e che in origine doveva essere evidenziato col colore. Negli angoli estremi abbiamo figure più piccole: a destra è Zeus che solleva il braccio destro con un fascio di fulmini (rappresentati con un doppio fascio di fiori di loto) che scaglia contro un Titano vinto (F 1); a sinistra è invece un uomo seduto (forse Priamo) che viene trafitto con una spada. Il movimento è reso ingenuamente secondo il cosiddetto schema della 'corsa in ginocchio'. Per rendere una figura in movimento rapido, sia in corsa che in volo, i greci svilupparono la rappresentazione convenzionale di figure a metà inginocchiate, con un ginocchio sopra o vicino al suolo, l'altro lievemente flesso e le braccia tese in alto, in basso e lateralmente. In queste figure la parte superiore del corpo è posta pienamente di fronte mentre le gambe sono di profilo, determinando una forte torsione del bacino.
Corinto, come abbiamo visto, dalle fonti antiche è considerato un centro artistico di prim'ordine. Tuttavia gli scavi della città non hanno restituito opere plastiche importanti. Quindi per studiare la scultura corinzia bisogna riferirsi a città dell'occidente greco che erano legate politicamente ed economicamente a Corinto. In queste sono state ritrovate per lo più terrecotte architettoniche (n. 222, 223), ma anche esempi di grande statuaria in marmo (n. 220, 221).
222. Testa di Sfinge da Tebe; 560 a.C.; terracotta; m. 0,18; Parigi, Louvre. Si ritiene che si tratti di una testa di sfinge dal fatto che la sua posizione sembra presumere un corpo di profilo. Accanto al volto remoto e quasi agghiacciante della sfinge del Ceramico, questa testa del Louvre appare incredibilmente umanizzata e gentile, con tutta la candida freschezza e la vitalità di un'opera corinzia dell'arcaismo maturo.
223. Volto di Satiro; 550 a.C.; m. 0,25; Thermòs, Museo. Tra le decorazioni più recenti del tempio di Thermòs, le più sorprendenti sono le antefisse a testa di Satiro. é singolare l'aggressiva vitalità di questi volti. Infatti gli antecedenti noti non ci hanno preparato a queste esplosioni di demoniaca letizia di queste elementari, estroverse creature. E per molti aspetti l'urlo irreprensibile che prorompe dalle bocche aperte rimane senza confronti adeguati.
220. Kouros di Tenea; 550 a.C.; m. 1,53; marmo delle isole; Monaco. La statua ci è giunta in uno stato di conservazione praticamente perfetto. Essa ci offre un'immagine estremamente piacevole ed elegante per i contorni fluidi e scorrevoli, i fianchi stretti, e per la modellatura precisa e senza accenti forti. Le curve leggere del torso e delle anche, le gambe slanciate dalle giunture tenui (meno massicce di quelle attiche) sembrano una preparazione per il volto limpido e gioioso. I capelli che formano una grande massa che cade sulla schiena non hanno partizioni interne rese plasticamente, forse perché in origine dovevano essere rese con la pittura.
221. Torso di kouros da Megara; 550 a.C.; m. 2,03; Atene, Museo Nazionale. Rispetto al kouros precedente ha una struttura più robusta e massiccia. Risalta l'arcata epigastrica.
Nel Corinzio Antico (615-600 a.C.) le forme vascolari più diffuse sono l'aryballos a forma globulare (101, 103) l'olpe e parecchie forme nuove tra cui il cratere a colonnette.
101. Aryballos globulare con Boreade; 600 a.C.; Londra, British Museum. La raffigurazione principale non contornata dai soliti riempitivi tipici della facies orientalizzante, è costituita da uno di quei geni alati che vengono chiamati Boreadi. Le grandi ali predominano e segnano i confini della visione frontale del vaso.
103. Aryballos globulare con caccia al cinghiale; inizi del VI sec. a.C.; m 0,07; Parigi, Louvre. Questa piccola, quasi miniaturistica, opera è notevole per la concitata e aggressiva rappresentazione della caccia al cinghiale, evidentemente Calidonio, che calpesta l'eroe caduto vittima dell'animale, l'arcade Ankaios. Si noti il particolare delle lance ondulate che dovrebbero esprimere le vibrazioni delle armi in volo, o appena raggiunto il bersaglio.
Nel Corinzio Antico, quale maturazione del precedente "stile transizionale", i soggetti animalistici predominano nettamente sulle raffigurazioni mitologiche: la decorazione si distribuisce ora in numerosi fregi che ricoprono quasi tutta la superficie dei vasi, che sono ora più grandi; i motivi che ricorrono più di frequente sono teorie di animali e mostri con fitti riempitivi di rosette, puntini ed altri ornamenti sparsi su tutto lo sfondo forse ad imitazione dei tessuti orientali. Gli animali si ingrandiscono e si allungano e le posture si fanno più rigide. Vengono introdotte nuove specie, come la pantera che tende a sostituire il leone e i gruppi di animali (ad esempio il toro tra il leone e la pantera) divengono stereotipati. L'ornamento di riempimento diviene, per la sua densità, importante quanto le figure.
104. Oinochoe a fondo piatto; fine del VII sec. a.C.; Taranto, Museo Nazionale. Questa opera appartiene alla piena fase corinzia. La nitidezza del disegno e l'integrità formale dei singoli animali così chiaramente isolati nella oinochoe del pittore del Vaticano 73 sembrano scomparse. Le forme degli animali sono stereotipate da una rappresentazione meccanica e ripetitiva. Si ha l'impressione che anche gli animali tendano a fondersi con i fittissimi riempitivi quasi a costituire una trama tessile senza interruzioni.
In questa fase compare un soggetto destinato a grande popolarità non soltanto nella ceramica corinzia (continuerà nel Corinzio Medio e Tardo), ma anche in quella attica: i danzatori panciuti o comasti. Verso la fine del periodo, sono rappresentate narrazioni molto complesse con un gran numero di personaggi, che si stendono sulle ampie superfici dei grandi crateri a colonnette (rari), spesso alternate a fregi animalistici e teorie di cavalieri meno importanti.
106. Cratere con scena di battaglia; 600 a.C.; m. 0,36; New York, Metropolitan Museum. Come abbiamo detto, a Corinto, in questo periodo venivano prodotti non solo vasi con fregi animalistici che comunque costituivano la maggiore produzione ceramica, ma anche vasi con scene narrative complesse. Il cratere, assai frammentario, di New York ne è un esempio. La scena narrativa principale si trova nella fascia più alta e rappresenta una battaglia, in cui i guerrieri, alcuni dei quali caduti, utilizzano sia scudi rotondi sia scudi a 'otto' (o bilobati o beotici). Mentre i primi sono tipici del periodo, i secondi sono un relitto del passato per cui si può pensare che l'artista abbia voluto evocare una battaglia del passato. Sotto questa scena abbiamo una sfilata di cavalieri e quindi teorie di animali.
107. Cratere Astarita; 600 a.C.; m. 0,43; Musei Vaticani. é uno dei più attraenti e discussi tra i monumenti di ceramografia corinzia. La scena principale, raffigurata sulla spalla del cratere, è arricchita da nomi famosi del ciclo troiano e sembra riferirsi a un poema di Stesicoro sulle trattative che precedettero la guerra di Troia. Le figure ci mostrano i membri dell'ambasceria degli Achei, Menelao, Odisseo e Thaltybios seduti presso le mura e accolti da Theanò, un alta figura con la rocca e il fuso (simboli di femminilità), accompagnata dalle sue donne e da una solenne cavalcata di giovani armati che i nomi iscritti indicano come i figli di Antenore. é la storia dei messaggeri greci avviliti e non ricevuti da Priamo e dal partito favorevole a Paride, ma accolti dalla famiglia degli Antenoridi, la seconda grande dinastia principesca di Troia. Il loro comportamento fa presagire il lontano destino di coloro che, come la famiglia di Enea, sfuggiranno alla distruzione della città.
108. Cratere Corinzio; 600 a.C.; m. 0,42; Museo del Vaticano. Il cratere per la sua integrità e bellezza offre un buon esempio di pittura corinzia. Con questo genere di vasi, con grandi figure, prevalentemente umane, la ceramografia corinzia sembra distaccarsi decisamente dalla produzione consueta, con minuti fregi animaleschi e convenzionali schemi decorativi, per assumere un aspetto assai simile alle pinakes di Pendeskoufi. Scomparso è quell'aspetto tessile dovuto ai riempitivi minuti e fitti. Il grande corteggio con una coppia sul carro e gruppi di giovani lievemente armati e di fanciulle disposte a tre a tre, presenta notevoli affinità con le figurazioni di Poseidon in carro con Anfitrite nei già ricordati pinakes di Pendeskoufi. Non essendoci nomi iscritti, non possiamo identificare i personaggi. Il fregio in basso raffigura la consueta teoria di animali.
Tra la fine del Corinzio Antico e l'inizio del Corinzio Medio ricevono grande fortuna, tanto da essere esportati sia sulle coste dell'Asia Minore che su quelle tirreniche, i vasi plastici. Il numero e la varietà di forme di essi sono estremamente notevoli.
97. Vaso plastico, civetta; 600 a.C.; m. 0,052; Parigi, Louvre. Ci sono pervenute un certo numero di piccole civette corinzie: ma è questa che sembra esprimere in maniera più immediata la qualità degli artisti corinzi. La capacità di riassumere in poche linee la forma dell'animale e nello stesso tempo di darle vita con tutta la simpatia e la tenerezza che spesso gli animali provocano in noi. La civetta era sacra ad Athena, ma qui siamo a Corinto e quindi si può pensare semplicemente ad un animale familiare.
98. Vaso plastico, lepre; 600-590 a.C.; m. 0,08; Basel, collezione privata. Questo aryballos ci dà immagine particolarmente vivace del piccolo animale che indubbiamente doveva essere estremamente familiare e che gli artisti hanno tante volte riprodotto. Una piccola lepre troviamo in braccio alla dea di Samo che forse rappresenta Afrodite; ed è costante il dono di una lepre come pegno d'amore. La resa è veloce ed essenziale.
99. Vaso plastico, leone adagiato; 600-590 a.C.; m. 0,12; Siracusa, Museo. Il piccolo leone di Siracusa sembra sorridere anche se professionalmente dovrebbe incutere timore. A contrasto dei leoni incontrati sinora, in particolare a quello dell'aryballos MacMillan, appartiene già al tipo assiro dalla gran chioma in parte eretta come una gran corona plastica intorno al volto, in parte tracciata con il pennello come fiammelle sino a metà del dorso. Il resto del pelame è reso semplicemente a puntini.
225. Vaso plastico; 600-590 a.C.; m. 0,09; Palermo, Museo Nazionale. Il vaso rappresenta un uomo dal corpo panciuto e informe, con gambe e braccia molto piccole, ma con il volto interamente intagliato.
Nel Corinzio Medio (600-575 a.C.) e Tardo (575-550 a.C.) si affermano sempre di più (pur rimando in quantità limitata) i grandi vasi con scene narrative assai spesso di qualità superiore a prodotti di soggetto animalistico, dove sono ritratti non solo episodi di caccia e di battaglia, ma anche temi mitici. Uno degli esemplari più importanti è costituito dal cratere di Amphiaraos (226).
226. Cratere di Amphiaraos; 580 a.C.; m. 0,46; un tempo Berlino, Musei di Stato. Il cratere, oggi scomparso, ha caratteristiche decorative analoghe ai crateri visti in precedenza e come questi reca, nella fascia più larga un racconto mitico: quello di Amphiaraos. Poeta ed indovino, partecipò alla caccia calidonia ed alla spedizione degli Argonauti. Scoppiata la guerra contro Tebe, cercò di non prendervi parte, sapendo che in essa sarebbe morto, e si nascose. Ma sua moglie Eriphile, sedotta dal dono di una collana, rivelò a Policine, promotore della spedizione, il luogo dove suo marito stava nascosto. Allora Amphiaraos fu costretto a partire per la guerra. Prima di partire, però, ordinò al figlio Alcmeone di uccidere Eriphile per punizione della sua perfidia. La scena è dominata dalla figura di Amphiaraos con bianca armatura ed elmo corinzio che si volta indietro per salutare un gruppo di donne, tra cui sua moglie, e un ragazzino, probabilmente suo figlio. Sulla destra è invece la figura del vecchio Halimedes che, consapevole della sorte che toccherà ad Amphiaraos, siede a terra sconsolato dinanzi ai cavalli. Sotto la scena narrativa è un fregio di cavalieri che, insolitamente, non sfilano ma galoppano.
231. Coppa corinzia; 580 a.C.; alt. m. 0,07 dm 0,16; Bruxelles, Bibliotheque Royale. La coppa è un buon esempio della produzione medio corinzia che porta tra le due anse raffigurata una assai popolare battaglia: quella tra Enea ed Aiace. I due, con elmo corinzio, incrociano le lance assistiti alle spalle dagli scudieri a cavallo. Mentre Enea mostra l'esterno dello scudo con la rappresentazione di un serpente, Aiace mostra l'interno chiarendoci il modo in cui venivano indossati gli scudi: il braccio passava all'interno di lacci e la mano afferrava una manopola. La forma della coppa dal piccolo labbro e dal bacino profondo su basso piede a campana è affine a quella che vedremo adottata in Attica dal gruppo dei Comasti.
La pittura del Medio e Tardo Corinzio può essere studiata, fortunatamente, grazie anche ad alcune tavolette fittili o in legno ritrovate in alcuni santuari vicino a Corinto, tra cui Pendeskoufi e Pitsa.
232. Pinax di Pendeskoufi; 570-550 a.C.; m. 0,09; Berlino Musei di Stato. Nella ricchissima serie di tavolette fittili dipinte rinvenute in un santuario presso Corinto, a Pendeskoufi, i motivi dominanti sono quelli delle onoranze a Poseidon, il grande dio dell'Istmo a cui l'egemonia politica ed economica della città era raccomandata. Qui abbiamo Poseidon insieme alla moglie Anfitrite su carro.
233. Pinax di Pendeskoufi; 570-550 a.C.; m. 0,09; Berlino Musei di Stato. Il piccolo cavaliere con corta tunica e con un gran tridente impugnato come una lancia è un altro aspetto di Poseidon, Poseidon Hippios. Interessante è l'opposizione del cavallo bianco in primo piano contro quello scuro nel fondo che ne costituisce un po' l'ombra. Sulla destra è l'iscrizione: 'Eurimede mi ha dedicato'
233. Pinax di Pendeskoufi; 570-550 a.C.; m. 0,065; Berlino Musei di Stato . Oltre a Poseidon, si è pensato che il cavaliere in groppa ad un mostro marino e con in mano il tridente, raffigurato su questo pinax rappresenti Palaimon, il giovane salvato miracolosamente da un delfino che diviene una divinità minore nel santuario dell'Istmo e compare spesso a fianco di Poseidon.
234. Pinax di Pendeskoufi Aristeia di Diomede; 550 a.C.; m. 0,08; Berlino Charlottenburg. Il tema rappresentato non ha nulla in comune con Poseidon e il suo mondo: si tratta della gloria di Diomede dopo aver dimostrato grande coraggio nella spedizione contro Tebe e nella guerra di Troia. Qui è assistito da Athena, che gli sta a fianco trattenendo il cavallo, e i suoi compagni più devoti di cui però rimangono solo i nomi. Lo stile meno rigido data il pinax ad un periodo più recente.
236. Pinax da Pitsa; 550-530 a.C.; Atene, Museo Nazionale. In una caverna sacra alle ninfe nella regione di Corinto sono state rinvenute quattro tavolette di legno stuccate e dipinte che costituiscono per noi gli unici documenti della pittura vera e propria di Corinto del periodo. Quello che viene presentato è il meglio conservato dei pinakes rinvenuti nella grotta di Pitsa, notevole anche per un'iscrizione che riportava il nome del pittore, ora perduto, di cui rimane l'etnico Korinthios. I colori usati sono semplici e vivaci. La scena si sviluppa su un unico piano e raffigura una fila di devoti (di cui si conservano i nomi in alto) che portano un animale sacrificale e oggetti rituali (tra cui la lira in quanto la musica faceva parte del rito), verso l'altare all'estrema destra, in una rigida linea discendente. Questa tavola era un'offerta alle ninfe.
Le fonti relative alle officine di bronzisti a Corinto sono numerose. Nella città è attestata anche la produzione di tipi particolari di crateri: a colonnette e a volute. Essi, per la loro stessa forma si prestano a ricevere una decorazione figurata di grande impegno formale: sul collo, sulle anse, sul piede.
Le notizie delle fonti letterarie sono confermate da quelle archeologiche. I grandi crateri corinziin bronzo non sono stati ritrovati in Grecia, ma dovevano essere esportati, quasi come campionario grandioso delle botteghe, in territori barbarici sempre più remoti e disponibili per le attività commerciali: sulle coste meridionali del Mar Nero, in Illiria, in Italia, in Gallia.
I rinvenimenti più imponenti di crateri sono: quello di Vix, nella valle della Senna e di Trebenitsche, nei pressi del lago di Ocrida. Ambedue da necropoli.
Nel grande cratere di Vix (239), databile al 550-540 a.C., un unico fregio si sviluppa sul collo, fra le anse. Le figure, saldate sul fondo e tutte diverse fra loro, rappresentano: 7 opliti, 8 aurighi, 8 quadrighe. Qualcuno ha pensato che la presenza di 7 opliti voglia significare la rappresentazione dei Sette contro Tebe, riportando così il cratere a fabbrica argiva: ma probabilmente la scena non ha alcun significato mitologico, solo valore decorativo. Le anse hanno gorgoni che terminano in serpenti.
Il cratere di Trebenitsche (238) ha anse in forma di gorgone anguipede, due figure di cavalieri in fuga su ognuno dei fregi del collo, un sostegno che termina con zampe ferine, figure di cani araldici ai lati di palmette, gorgoni alate e anguipedi.
Rispetto alla maggior parte delle città greche, Atene conosce la tirannide con un po' di ritardo. Nel 546 a.C., dopo un primo tentativo fallito, Pisistrato riuscì ad instaurare ad Atene la tirannide col minimo ricorso alla violenza, e consolidò il suo regime personale piuttosto col successo della propria politica che con l'intimidazione e col terrore. Egli infatti promosse un'intensa attività di lavori pubblici, tra cui la costruzione di un complesso sistema di fontane e di alcuni edifici nell'agorà, che facilitò l'impiego di abbondante mano d'opera e permise anche alle classi più povere di procurarsi i mezzi di sostentamento.
Dopo la morte di Pisistrato, avvenuta nel 528 a.C., il potere passò nelle mani dei suoi figli Ippia e Ipparco. Costoro, assai meno abili del padre, finirono per suscitare il malcontento della popolazione; vi furono varie congiure contro di loro e Ipparco fu ucciso nel 514 a.C. in un attentato capeggiato da due aristocratici, Armodio e Aristogitone, le cui figure da quel momento divennero simbolo di libertà. Ippia si circondò di truppe mercenarie e sciolse l'esercito cittadino oplitico, nel timore che esso potesse farsi strumento di un moto armato contro il governo. Tuttavia, di lì a poco, un gruppo di fuoriusciti, guidato dalla nobile famiglia degli Alcmeonidi, costretta fino ad allora all'esilio, riuscì coll'aiuto di Sparta a rovesciare la tirannide e costrinse Ippia ad abbandonare la città (510 a.C.)
Durante il VII secolo non esiste in Atene e in Attica la grande scultura: il periodo compreso tra il 730 circa e il 600 a.C. rappresenta il momento più drammatico della vita di Atene. Solo tra la fine del VII secolo e l'inizio del VI si trovano in Atene e in Attica i primi documenti di grande scultura di uso funerario e votivo: abbiamo già visto la testa del Dypilon e uno dei kouroi del Sunio che rappresentano il passaggio dallo stile dedalico a quello arcaico. A partire dal 566 a.C. anno di inizio della riorganizzazione delle panatenee e, secondo le fonti, anno di inizio anche della rinascita di Atene, si moltiplicano le dediche di statue votive. Atene è in grado, sin dall'inizio, di fondere le tendenze delle scuole che già si erano cimentate nella creazione della grande scultura. Questa fusione è già compiuta nelle opere prime di ambiente attico, molte delle quali sono giunte sino a noi grazie a una delle grandi tragedie della storia. Nel settembre del 480 a.C. i Persiani entrarono in Atene e distrussero gran parte dei monumenti contenuti nell'Acropoli. Dopo la vittoria di Salamina la nuova generazione si accinse alla ricostruzione dell'Acropoli profanata dall'esercito nemico e si procedette ad abbattere quanto era rimasto in piedi e a distruggere le statue che erano venute a contatto col nemico. Ma la religione dei Greci non consentiva che si gettassero via come rifiuti le statue di culto e i doni votivi nŽ permetteva che questi oggetti sacri uscissero dall'area del santuario dov'erano stati dedicati. Essi perciò furono deposti sotto un gran cumulo di terra e detriti nello spazio intermedio tra un muro, costruito nel corso della ristrutturazione per allargare l'area utilizzabile alla sommità dell'Acropoli, e la roccia. Questo riempimento, date le sue origini, è noto col nome di 'colmata persiana' e i pezzi in esso rinvenuti sono databili al periodo precedente al 480 a.C. La conoscenza di questo limite cronologico esatto ha permesso agli studiosi di delineare con buona precisione il processo di sviluppo dell'arte greca nei decenni compresi fra la seconda metà del VI e la prima metà del V secolo a.C. La 'colmata persiana' racchiude in sé alcune delle espressioni più caratteristiche della statuaria di età arcaica (VI secolo), ma anche le prime testimonianze di una sensibilità artistica nuova che stava maturando proprio negli anni in cui divamparono le guerre persiane che va sotto il nome di 'stile severo'.
Fra le prime statue dedicate sull'Acropoli è il gruppo cosiddetto del 'portatore di vitello' (Moscophoros) dedicato da Rhombos.
281. Statua del Moschophoros; 560 a.C.; parte cons. 1,85 m; marmo attico; Atene, Museo dell'Acropoli. Sulla base si conserva un nome, probabilmente quello del dedicante: Rhombos. Lo schema sembra quello tradizionale di Hermes, dio dei pastori: tuttavia qui non abbiamo né un pastore né un ariete. Si tratta piuttosto dell'immagine di un devoto costruita secondo la tipologia astratta del koùros. Un giovane già barbato, a capo scoperto, il corpo rivestito solo da un mantello, avanza con un vitello sulle spalle il cui peso tende solo a giustificare l'esaltazione dei muscoli di Rhombos. Probabilmente Rhombos ha dedicato la statua dopo una vittoria in una gara che aveva come premio un vitello: forse proprio durante le panatenee del 566 a.C. Rispetto alle sculture di stile dedalico, qui i contorni sono più morbidi e il modellato è più differenziato: le braccia non scendono lungo i fianchi ma sono incrociate all'altezza del petto per afferrare la vittima sacrificale, il vitello. Importante è l'espressione della bocca che indica il cosiddetto 'sorriso arcaico' ovvero un sentimento di serenità e di equilibrio di un uomo ideale, distante, fuori da ogni turbamento. Singolare è la veste, che aderisce strettamente al corpo e la cui presenza si nota solo dalla membrana sotto gli avambracci e dai due lembi appuntiti che ricadono sui fianchi. Gli occhi, mancanti, dovevano essere lavorati a parte in avorio o pasta vitrea. La policromia doveva ravvivare il candore del marmo dell'Hymettos.
Di poco posteriore (550 a.C.) è il 'cavaliere Rampin', forse opera dello stesso scultore del Moscophoros, i cui resti sono scissi tra il Louvre (testa) e il Museo dell'Acropoli (torso).
284. Cavaliere Rampin; 550 a.C. ca.; parte cons. 1,81 m; marmo delle isole; Atene, Museo dell'acropoli, Parigi, Louvre. Questa statua ha una storia archeologica curiosa: essa fu infatti ricostruita da H. Payne attraverso l'accostamento di una testa appartenente a Monseur Rampin, ora al Louvre, e un torso conservato ad Atene. L'opera, forse da attribuirsi allo stesso maestro del Moscophoros nella sua fase più tarda, costituisce la prima testimonianza di un tipo, la statua equestre, che godette nel mondo antico di grande fortuna. Dallo studio di altri frammenti provenienti dall'Acropoli sembra si sia potuto accertare che i cavalieri erano due: si tratta forse dei due figli di Pisistrato, Ippia e Ipparco, ritratti quali vincitori di giochi, come indica la corona di quercia. Minuzia decorativa nel trattamento della barba e dei capelli e sobria plasticità del capo e del torso, si fondono armoniosamente.
Il cinquantennio 550-500 si può seguire con una certa chiarezza: la ricchezza delle statue rinvenute è tale da rendere possibile uno sviluppo sicuro di esse. A questo periodo appartengono soprattutto statue di korai fondamentali. Fra le prime in ordine di realizzazione è la cosiddetta kore di Lione, databile al 550 a.C.
299. Kore di Lione; 550-540 a.C.; m. 1,13; marmo; Atene, Acropoli, Parigi, Louvre. La statua è stata ricomposta per la geniale intuizione di H. Payne da un busto esistente nel Louvre e dalle anche esistenti nel Museo dell'Acropoli. La struttura solida e robusta della figura - si veda il volto squadrato, il collo breve e pieno che quasi non costituisce una cesura - offre un esempio eloquente di quella corposità che gli attici hanno ricercato per diverso tempo, a spese di qualsiasi altra qualità. Tuttavia quest'opera dimostra la capacità della scuola attica di assorbire e di modificare secondo le proprie inclinazioni, elementi di stili diversi. La scultura offre infatti il più antico esempio in Attica dell'impiego del peplo ionico che però l'artista reinterpreta creando giochi di pieghe piatte, di effetto assai peculiare. Interessante è il gesto della mano destra che tiene una colomba. Per la presenza del polos è stata identificata con una divinità, forse si tratta di Afrodite.
Di poco posteriore è la cosiddetta kore con peplo alta appena 1,18 m. 300. Kore con peplo; 530 a.C.; m. 1,20; Atene, Museo dell'Acropoli. Quello che immediatamente colpisce l'osservatore è l'economia decorativa, che caratterizza anche il cosiddetto kouros di Monaco e che si oppone all'esasperato, ma elegante, decorativismo ionico. La figura indossa una veste semplice, il peplo (prima attestazione), che prevede una ricaduta dal petto alla vita dove è strinta da una cintura. Sotto questa veste ce n'è un altra più sottile. L'avambraccio sinistro doveva essere lavorato a parte e inserito nel braccio, per cui non si è spezzato ma semplicemente staccato, ed è andato perduto. Il volto, ravvivato da tracce di colore nelle pupille e nella chioma, esprime una grande vitalità ed una interessante volontà di comunicazione. I seni sono lavorati con buona raffinatezza. H. Payne attribuisce quest'opera alla maturità dello stesso autore del Cavaliere Rampin.
Vicina, secondo H. Payne, dello stesso autore è la kore n. 678 (301), databile al 540-530 a.C., attenuata dai fianchi esili e messa in valore dalla veste lievissima e aderente, senza pieghe di grande rilievo. In questo periodo l'arte attica raggiunge livelli elevati e l'Acropoli si arricchisce di centinaia di sculture in cui ancora prevale il tipo iconografico del kouros e della kore.
304. Kore n. 674; 520 a.C.; m. 0,92; Atene, Museo dell'Acropoli. La figura indossa un chitone di stoffe sottili con minute pieghe, sopra al quale è un mantello che dalla spalla destra passa sotto l'ascella sinistra e che in basso scende in lembi con un complesso sistema di ricadute di pieghe che l'artista porta fino alla leziosità. Gli occhi e la bocca sono intagliati così bene da poter ottenere le gote in rilievo. I capelli sono costituiti da lunghi riccioli e si dispongono in una massa compatta.
Nell'ultimo trentennio del VI secolo, in particolare tra il 520 e il 510, le dediche delle korai si fanno estremamente frequenti, divengono una vera e propria moda. Non tutte sono opera di artisti attici: con ogni probabilità, sia per le esigenze dei committenti, sia per il maggior influsso ionico sulla cultura ateniese, per realizzare queste opere furono chiamati anche dalla Ionia (minacciata dai Persiani) alcuni scultori. Del pari molti scultori ateniesi si esprimono nel trionfale linguaggio ionico internazionale. Tra le opere ionizzanti è una piccola kore (306) che conserva un'intensa policromia e attribuibile forse alla scuola degli scultori chioti allievi di Archermos.
306. Kore n. 675; 520 a.C.; m. 0,55; Atene, Museo dell'Acropoli. Alcuni credono che a questa kore sia pertinente una base con un'iscrizione che indica il nome di uno scultore di Chio, Archèmos. Il viso appuntito, gli occhi obliqui, il trattamento raffinato del panneggio sono caratteristiche che mostrano una chiara influenza ionica. Fortunatamente la statua conserva ancora oggi tracce di colore: il chitone è verde scuro, anche se in origine doveva essere azzurro, i capelli sono dorati, il mantello conserva tracce di rosso e di blu. Questa kore e quella della scheda precedente presentano molte caratteristiche simili, tant'è che gli archeologi tedeschi che le scoprirono, le chiamarono scherzosamente le 'zie': le pieghe e le ricadute della veste sono molto numerose, i capelli presentano la stessa pettinatura cioè lunghe trecce che scendono sul petto e ciocca uniforme che cade sul dorso.
Nello stesso periodo (ultimo trentennio del secolo VI), quindi poco prima del crollo della tirannide, sono attestate ad Atene alcune grandi personalità di scultori, quali Antenor e Endoios. Il primo, di formazione attica, è autore di una monumentale kore (2,15 m), la più grande a noi giunta, dedicata dal vasaio Nearchos.
307. Kore di Antenore; 520 a.C.; m. 2,15; Atene, Museo dell'Acropoli. La figura indossa un chitone e sopra di esso un himation di lana che lascia scoperto il seno sinistro. La mano sinistra, con al polso un braccialetto, sostiene parte delle vesti; il braccio destro era portato in avanti, con l'offerta. I capelli scendono sulla schiena e sulle spalle, trattenuti da un diadema. Gli orecchi erano arricchiti di ornamenti, forse di bronzo dorato. Gli occhi erano lavorati a parte, in cristallo di rocca, le ciglia di bronzo. Sul capo e sulla corona erano spiedi di ferro affinché gli uccelli non si posassero sulla scultura, esposta all'esterno. La tecnica è semplice: le pieghe dell'himation sono ottenute con un rilievo schiacciato, le trecce e i riccioli sulla fronte con un rilievo plastico e angoloso. Come il kouros di Monaco e Kroisos la figura si caratterizza per le spalle larghe e i fianchi stretti. Il volto non ha la grazia delle korai greco-orientali e della n. 306 e anche il panneggio è meno ricco.
Ad Antenor sono da attribuire anche il frontone orientale del tempio di Delfi (520-510 a.C.) e il famoso gruppo dei tirannicidi, andato perduto, che Serse rapinò durante il saccheggio.
Altrettanto importante di quella di Antenor è la personalità di Endoios, maggiormente legato al mondo ionico nell'esaltazione minuziosa del particolare decorativo, come nella sua Athena seduta (302) dal chitone finemente pieghettato.
302. Statua di Athena seduta di Endoios; 530-520 a.C.; m. 1,47; Atene, Museo dell'Acropoli. La grande immagine (1,47 m per una statua seduta sono molti) di Athena seduta è stata identificata con la statua dello scultore Endoios, vista da Pausania nei pressi dell'Eretteo. Il notevole stato di corrosione della superficie della statua indica una lunga vita in luogo aperto, e non la sepoltura prematura nella 'colmata persiana' le cui sculture sono giunte in condizioni di eccezionale freschezza. La dea è seduta in trono, l'egida era completata da serpenti, forse di bronzo, un gorgoneion era inquadrato, sui lati, dalle trecce che scendevano sui seni.
Se le opere rinvenute sull'Acropoli di Atene documentano che le dediche nei santuari della cittadella dovettero divenire una consuetudine a partire dal 566 a.C. circa, le statue funerarie (ed alcune votive) di Atene fuori dell'Acropoli e del suo territorio testimoniano che i canoni della grande scultura sono assimilati già a partire dal 600 a.C. circa. Queste indicavano certamente una tomba e ne rappresentavano il segnacolo esterno (la consuetudine di segnalare in superficie le tombe più notevoli con vasi funerari di grandi dimensioni si interrompe per sempre, per essere sostituita da quella di sovrapporre alle sepolture sculture monumentali, attorno al 600 a.C.). Tra i primi esemplari abbiamo le opere del maestro del Dypilon a cui è attribuito il kouros del Dypilon (da cui prende il nome l'autore) e una serie di figure di kouroi proveniente dal santuario di Poseidon al Sunio, che abbiamo considerato precedentemente come testimonianze del passaggio dallo stile dedalico a quello arcaico. Non è un caso che le statue funerarie non si trovino nelle città, poiché una legge vietava qualsiasi sepoltura al loro interno.
Al gruppo rappresentato dal kouros del Dypilon e da quelli del Sunio, si contrappone un secondo gruppo, documentato a partire dal 570 a.C. circa.
La prima opera è una statua femminile, alta m 1,93, intatta; forse sepolta intenzionalmente in seguito alle invasioni persiane, nei pressi di Keratea, nell'Attica meridionale.
f 5. Dea di Berlino; 570-560 a.C.; 1,93 m; marmo dell'Imetto; Berlino, Museo di Pergamo. La statua deve il suo ottimo stato di conservazione e le tracce di pittura ancora visibili sul marmo ad un'antica misura protettiva: già in origine venne chiusa in un involucro di piombo e interrata, e in queste condizioni è stata rinvenuta a Keratea (Attica meridionale). La figura rigida porta un copricapo cilindrico (polos), uno scialle o lungo mantello (ancora non è in vigore la distinzione classica tra peplo e chitone), un paio di orecchini, una collana con una serie di pendenti a forma di melograno, un braccialetto al polso sinistro. Questi ultimi elementi di oreficeria sembrano indicare una circostanza particolare, ovvero una cerimonia: le nozze, non però nozze normali, ma nozze con il dio degli Inferi, Ade. Secondo la mitologia greca Ade rapì, con il consenso di Zeus, Persefone per farne la sua sposa, suscitando la disperazione della madre Demetra, che ottenne dopo lunghe tribolazioni di poter godere della presenza della figlia nel mondo della luce per metà dell'anno. La statua è piuttosto antica (570-560 a.C.) e presenta quindi un taglio duro e rigido sia nella resa del panneggio che in quella del volto, tipico dello stile dedalico. La scoperta di una seconda statua in Attica avvicinabile ad essa e la relativa iscrizione ha fatto comprendere che non si tratta di una dea, ma di una donna e dunque di una statua funeraria.
f 6. Phrasikleia da Mirrinunte; 550 a.C; m. 1,76; marmo pario. La firma di un Aristion di Paro compare su un lato di una base che doveva sostenere una kore: base incastrata da tempo immemorabile nella chiesa della Vergine nei pressi della necropoli di Mirrinunte, in Attica. Scavi eseguiti di recente hanno rinvenuto nella necropoli una figura di kore, a grandezza naturale, di marmo di Paro, intatta, che si incastra perfettamente nella base della chiesa della Vergine (che dista dal luogo di ritrovamento della kore duecento metri) e che reca nella faccia principale l'iscrizione con il nome della defunta: Phrasikleia. La statua era stata sepolta, forse dopo l'invasione persiana, insieme a quella di un kouros (un fratello di Phrasikleia?: attribuito al maestro della kore di Lione). Le due sculture potrebbero, secondo lo scopritore, essere datate attorno al 550. Phrasikleia indossa un lungo chitone manicato, ricamato a fiori e a motivi geometrici. La bordura sul collo, sulle spalle, l'orlo delle maniche, la benda mediana della veste sono decorati con un meandro inciso. La cintura è anch'essa riccamente decorata. I piedi, che calzano sandali, escono dal chitone. La fanciulla porta braccialetti, una collana, orecchini, una corona formata da perle dalle quali si innalzano fiori di loto, aperti e chiusi. I capelli scendono sulla schiena, ricadono sul davanti con tre treccioline su ogni spalla. presenza della corona, la misura leggermente maggiore del vero (alt. m 1,76) indicano che Phrasikleia è ormai eroizzata.
Attorno al 530 a.C. prevalgono le sculture funerarie maschili: la kore con peplo è sorella, stilisticamente, di un kouros (296) funerario dell'Attica, ora a Monaco, alto m 2,08 e databile al 530 a.C. La figura è caratterizzata da fianchi stretti e spalle larghe, tipiche caratteristiche di molte sculture attiche, e da una economia di decorazione, come si vede nelle ciocche appena incise, che ritroviamo nella suddetta kore con peplo. Dello stesso periodo è un kouros proveniente da Anavysos in Attica che reca il nome del defunto: Kroisos.
298. Kroisos; 530 a.C.; m. 1,94; Atene, Museo Nazionale. La splendida statua rinvenuta ad Anavysos, esportata clandestinamente e in seguito restituita ad Atene, è da congiungersi con un base che conserva il suo nome, Kroisos. Si tratta non dell'immagine votiva di un dio o di una offerta in un santuario, ma di una statua funeraria, anche se di incomparabile maestà e splendore. é stata ritrovata non in posizione di caduta: sembra che sia stata allontanata volontariamente dalla sua posizione iniziale, forse per preservarla da qualche attacco nemico (forse persiano). Il modellato indica importanti passi avanti rispetto al periodo precedente, soprattutto nella resa dei pettorali e dei muscoli dell'addome.
Opera molto notevole è la statua di un kouros proveniente dalla necropoli della porta del Pireo: del quale rimangono, purtroppo, solo parte delle gambe e dell'addome. La figura terminava con una testa che potrebbe, forse, essere identificata in una già da tempo a Copenaghen del 520 a.C.
297. Testa di Kouros; 520 a.C.; m. 0,31; Copenhagen. Secondo alcuni questa testa proverrebbe da un ritrovamento effettuato subito fuori dalle mura di Atene, vicino alla porta del Pireo. Insieme ad essa sarebbero stati trovati alcuni frammenti fra i quali la base della statua a cui apparteneva che recava la firma di un artista attivo nella tarda età arcaica di nome Endoios. La capigliatura è resa a riccioli brevi e compatti che sembrano delle virgole o delle fiammelle che sbocciano in una sorta di rotolo sulla fronte. Il particolare più interessante è costituito dagli orecchi. Questi appaiono rigonfi ('a cavolfiore') e sono segno di pratiche agonistiche dure come il pugilato: i colpi ripetuti portavano spesso a malformazioni dell'orecchio. Con questo particolare si è voluto sottolineare il rango aristocratico del defunto in quanto solo gli aristocratici potevano permettersi di frequentare le palestre dei ginnasi.
Nelle necropoli, insieme alle statue, vi erano anche le stele funerarie la cui produzione in Attica copre tutto il VI sec. a.C. Queste stele in età arcaica sono composte da un lungo corpo rettangolare, recante spesso altorilievi ed iscrizioni, che poggia su di una base rettangolare ed è coronato da un capitello a sua volta sormontato da una sfinge.
303. Sfinge dal Ceramico; 560 a.C.; m. 0,63; Atene, Museo del Ceramico. Questa sfinge è stata ritrovata nella necropoli del Ceramico e costituiva l'acroterio di una stele. Mentre la testa è di profilo, il corpo è di prospetto e fa risaltare le ali. La bocca serrata e il volto distante incutono timore a chiunque la osservi.
282. Stele di Discophoros; 560-550 a.C.; m. 0,34; marmo delle isole; Atene, Museo Nazionale. Si tratta di un frammento del corpo di una stele, che raffigura ill volto di un giovane discobolo che tiene il disco con la mano sinistra (questa si intravede alla nostra destra). Abbiamo ancora un riferimento ad attività sportive.
283. Stele di pugilatore; 560-550 a.C.; m. 0,23; marmo delle isole; Atene, Museo del Ceramico. La stele è assai vicina a quella del Discophoros, e metterle a confronto vale più di qualsiasi commento. Il pugile che solleva il braccio fasciato da linguette di cuoio, che tenevano fermi i 'guantoni', come per saluto è barbato, ha i capelli corti a calotta sul cranio. Le ciocche non sono rese plasticamente, forse perché in origine erano segnate con pittura. Il profilo e la solidità del braccio levato suggeriscono una di quelle figure ampie e panciute come la ceramica ce ne presenta tra i devoti di questo sport. Tra il gentilissimo adolescente con il disco e l'adulto e massiccio pugile c'è quell'antinomia che notiamo in generale tra Teseo e Herakles.
308 (f 4). Stele degli Alcmeonidi; 540 a.C.; m. 1,75; Berlino, Musei di Stato, New York, Metropolitan Museum. La stele, per grandi parti mancante, è ora divisa tra i due grandi musei che ne hanno acquistato dei frammenti. All'altissima qualità del lavoro, in questo caso si aggiunge l'interesse storico per l'iscrizione incompleta che potrebbe menzionare l'Alcmeonide Megakles. Nel monumento sono affiancati un adolescente e una bambina: il giovane ha nella mano sinistra un melograno, simbolo di immortalità e al polso un vasetto di oli profumati (aryballos): gli atleti, dopo la lotta, si lavavano con lo strigile e poi si ungevano. Il curioso spostamento obliquo dei legamenti dell'aryballos sembra dovuto non già a suggerire il movimento della mano, ma solo a ricondurre l'accento sulla sommità del capo della bambina. La stele fu probabilmente distrutta nel 514 a.C. quando una congiura aristocratica portò alla morte di Ipparco. Al completo, essa doveva misurare circa 4,20 m.
Con la fine del VII-inizi del VI secolo a.C. inizia lo stile attico a figure nere che, nella prima fase, registra un massiccio assorbimento di soggetti e schemi decorativi corinzi, tra cui innanzitutto il predominante fregio animalistico: tra le personalità di maggiore spicco si annoverano il Pittore della Gorgone (600-580 a.C. ca.), che nel dinos (265) eponimo rinvenuto in Etruria dipinge il primo vero fregio figurato completo; Sophilos (580-570 a.C. ca.), il primo a firmare dei vasi come pittore e ceramista, a cui vengono attribuiti un gran numero di vasi decorati generalmente da fregi di animali; i pittori del gruppo dei Comasti che da Corinto riprendono la forma della 'Komast-cup' e il caratteristico soggetto dei danzatori con ventre e glutei sporgenti. Le coppe dei Comasti sono caratterizzate da piccolo labbro, bacino profondo e piede basso (551. Coppa dei Comasti; 575-565 a.C.).
265. Dinos del Pittore della Gorgone; 590 a.C.; alt. m. 0,44; Parigi, Louvre. Quasi tutta la decorazione appartiene al repertorio orientalizzante come i fiori di loto e gli animali sia reali (leoni) che fantastici (sfingi), e quindi fa parte della tradizione del secolo precedente che però sopravvive nella prima metà del VI secolo, sia in Attica che a Corinto. Da notare però è l'importanza data al fregio con la scena narritiva che si trova nella fascia più grande e nella parte superiore del vaso. Su di un lato abbiamo raffigurato Perseo che uccide la gorgone Medusa e sull'altro un combattimento di eroi omerici.
266. Anfora a pannelli con testa di cavallo; 580 a.C.; m. 0,50; Roma, Museo di Villa Giulia. Questo tipo di anfora detta 'a pannelli', in quanto la decorazione è limitata in un piccolo riquadro fra le anse, è abbastanza ripetuto nei primi decenni del VI secolo a.C. La singola immagine rappresentata è molto spesso una protome equina (tema caro alle aristocrazie) o più raramente un volto femminile o un elmo. Alcune di queste anfore, tra cui questa e la seguente, vengono attribuite al Pittore della Gorgone. In questo caso nel pannello è raffigurata una protome equina con una gran chioma rifluente e immensi occhi languenti, elementi di tenera femminilità e di ingenuo giocattolo infantile che idealizzano la figura del cavallo. Si nota come la vernice nera in Attica sia usata non solo per le figure ma anche per le parti non decorate.
267. Anfora a pannelli; 580 a.C.; m. 0,54; Monaco, Antiquarium. In questa anfora troviamo una testa femminile di profilo verso destra. Mentre i capelli sono resi con vernice nera, il volto è bianco e questo fa spiccare il profilo.
269. Dinos di Sophilos; 580 a.C.; Atene, Museo dell'Acropoli. Al ceramografo Sophilos sono stati assegnati un gran numero di vasi decorati generalmente da fregi di animali. Che peraltro il pittore abbia avuto coscienza della maggior importanza di ampie figurazioni narrative è indicata dal fatto che che solo nei vasi di maggior impegno e decorati con lunghe storie mitiche egli ha posto la sua firma. Il dinos dell'Acropoli ha inoltre un'importanza eccezionale come antecedente del vaso Franois. Nei fregi in realtà assai frammentari sono da riconoscere gli aggruppamenti di dei nel corteggio per le nozze di Peleo e Teti. Sophilos ha trattato lo stesso tema in un altro dinos conservato al British Museum. Da notare è lo sfondo arancio, tipico della ceramica attica, su cui le figure nere spiccavano notevolmente.
270. Sophilos, Dinos da Farsalo; 580-570 a.C.; Atene, Museo Nazionale. Anche questa, come la precedente è un'opera firmata da Sophilos nella formula 'Sophilos egrapsen (disegnò)'. Nella fascia principale rimane un tratto dei giochi funebri in onore di Patroclo. La pittura a figure nere aveva una decisa monotonia cromatica, per cui Sophilos cerca di arricchire le scene dal punto di vista del colore. Questo si nota sia dal contrasto dato dal cavallo bianco, sia dalle linguette colorate, alternativamente, in rosso e in nero. Peraltro la nota più interessante è data dagli spettatori seduti su un doppio pendio che si abbandonano con fervore scatenato ai loro entusiasmi sportivi, attraverso gesti ed urli che danno loro una decisa vitalità. In alto e in basso rispetto alla scena principale, abbiamo ancora un'eredità orientalizzante, il fregio animalistico.
Nei decenni successivi si accresce sempre più l'interesse per le scene narrative rispetto a quelle animalistiche, in uno stile miniaturistico, già introdotto dal Pittore della Gorgone e sperimentato da Sophilos, ma che conosce il suo trionfo nel cratere François (276), rinvenuto a Chiusi, firmato da Kleitias ed Ergotimos, e che si afferma anche attraverso l'opera di pittori di coppe (in particolare con le 'Little Masters Cup'). L'influenza corinzia persiste in personalità come il Pittore C ('Corintizzante'; 273), appartenente al gruppo dei pittori di coppe di Siana (secondo quarto del VI secolo a.C.) ed è rilevabile nello stesso Kleitias.
276. Kleitias, Cratere François; 570 a.C.; m. 0,66; Firenze, Museo Archeologico. Scoperto a Dolciano, vicino a Chiusi, intorno al 1844-1845, il grande cratere a volute a figure nere di produzione ateniese, noto come 'Vaso François' dal nome dell'archeologo Alessandro François, è rimasto nelle collezioni pubbliche italiane solo per la fortunata circostanza di essere stato rinvenuto in una fattoria di proprietà granducale. Vero capolavoro dell'arte ceramica, il cratere, creato intorno al 570 a.C., è unico per forma (ispirata a modelli metallici) dimensioni e impegno compositivo. E dovevano esserne ben consapevoli i due artigiani, Kleitias (il pittore) ed Ergotimos (il vasaio) che firmarono due volte la loro opera. Il ricchissimo apparato decorativo si distribuisce sulla superficie del vaso in fregi sovrapposti, dove il racconto si svolge diffusamente con ricchezza di particolari e completezza narrativa senza pari, in un'incredibile folla di personaggi, ognuno accompagnato da un'iscrizione che ne indica il nome. Senza soluzione di continuità si sviluppa sulla spalla la solenne processione delle divinità che festeggiano le nozze di Peleo e Teti. Gli dei, in sontuose vesti policrome e contraddistinti dal nome proprio e dagli attributi che li caratterizzano, procedono in coppia, su maestose quadrighe trainate da cavalli bianchi e neri o a piedi, in gruppi, come le tre Cariti, o da soli, come il sorridente Dioniso che porta sulle spalle una grande anfora. Apre il corteo il centauro Chirone, creatura delle selve, che sarà poi il saggio educatore del piccolo Achille. Sulla soglia del suo palazzo di Ftia, Peleo riceve gli ospiti con un gesto di saluto, mentre Teti, sua sposa, attende pudicamente seminascosta, all'interno della casa. Nel fregio sottostante, sul lato principale del vaso (lato A), è narrato un episodio legato alla guerra di Troia, l'agguato di Achille a Troilo, il giovane figlio di Priamo, sorpreso dall'eroe greco mentre con la sorella Polissena era ad attingere acqua alla fontana. La sorella fugge impaurita lasciando cadere la tipica brocca per l'acqua, a tre anse, di cui viene qui indicato il nome: hydria. Sul retro (lato B) è narrato l'episodio del ritorno di Efesto all'Olimpo accompagnato da Dioniso e da Sileno che porta l'otre del vino. La fascia successiva reca un fregio di tipo orientalizzante con sfingi ed altri animali mitici. La mitica caccia al cinghiale Calidonio da parte di Peleo e Meleagro, i giochi funebri in onore di Patroclo (l'eroe greco amico di Achille), il ritorno a Creta della nave di Teseo con la danza gioiosa dei giovinetti e delle fanciulle che l'eroe ha salvato dal Minotauro, la lotta tra Lapiti e Centauri decorano il labbro e il collo dei lati A e B del cratere. La battaglia tra i Pigmei e le gru conclude sul piede la sequenza delle narrazioni. Infine, sulle anse, è riconoscibile Artemide come signora degli animali e, nel riquadro sottostante, Aiace che porta il corpo di Achille.
552. Coppa del pittore di Heidelberg; 575-550 a.C.; Parigi, Museo del Louvre. Nel secondo quarto del VI secolo a.C. si afferma la coppa di tipo Siana. La coppa di tipo Siana è più snella, con piede più alto, vasca meno profonda e labbro più sviluppato rispetto alle coppe dei Comasti. Il Pittore di Heidelberg è la seconda grande figura operante accanto al Pittore C nel campo di questo tipo di coppe. Questa coppa del Louvre rappresenta una scena di pugilatori, mostrando da parte dell'autore una certa predilezione per le scene di vita quotidiana, simile a quello del Pittore di Amasis.
553. Coppa del Pittore di Heidelberg con Bellerofonte che affronta la chimera; 575-550 a.C.; Parigi, Museo del Louvre. In alcune coppe di tipo Siana vi è il tentativo, da parte dell'artista, di superare graficamente la distinzione plastica tra vasca e labbro (overlap), attraverso una decorazione dei lati esterni che si sviluppa sui due elementi senza tener conto della loro linea di separazione. É il caso di questa coppa dove la scena ivi rappresentata, quella di Bellorofonte che combatte la chimera, si sviluppa senza soluzione di continuità tra vasca e labbro.
294. Coppa di Kallis; 530 a.C.; Napoli, Museo Nazionale. La coppa di Napoli ha una forma analoga alle coppe di tipo Siana, ma ne rappresenta un'ulteriore evoluzione: a partire infatti dal 540-530 a.C. non esiste più la distinzione plastica tra vasca e labbro, per cui la coppa si sviluppa in una curva continua dall'orlo al piede (coppe a profilo continuo).
Nel secondo quarto del VI secolo a.C. si colloca Nearchos, una delle personalità più rilevanti dell'intera pittura vascolare attica a figure nere, abile disegnatore e interprete di un ethos che si è voluto ricondurre a motivi letterari di estrazione omerica per abbandonare definitivamente i motivi zoomorfi dei fregi corinzi (kantharos in frammenti dell'Acropoli con Achille e i suoi cavalli, 280).
280. Nearchos, frammento di kantharos dall'Acropoli; 560-550 a.C.; Atene, Museo Nazionale. Il frammento rappresenta uno dei più toccanti passi dell'Iliade: la partenza di Achille (come conferma l'iscrizione) per la guerra di Troia. Mentre l'eroe aggioga i cavalli carezzandoli con un grande gesto umano, ad essi gli dei concedono la parola per poter compiangere la sorte del loro condottiero. Nearchos preferisce soffermarsi su un momento di estrema concentrazione, quello di preparazione alla battaglia, come farà più tardi Exekias nell'anfora di Achille e Aiace che giocano ai dadi.
Tra il 560 e il 530 a.C. con Lydos, il Pittore di Amasis e Exekias, la produzione a figure nere vive il suo momento migliore. Probabilmente di origine lidia, Lydos preferisce temi epici, realizzati con figure monumentali che richiamano la più antica e genuina tradizione attica,. Nel Pittore di Amasis si ammira, al contrario, più la delicatezza e la vivacità delle composizioni su vasi di piccole dimensioni, spesso piacevoli squarci di vita quotidiana. La sua carriera coprì probabilmente un arco cronologico piuttosto ampio, se con lui assistiamo a mutamenti essenziali nel rendimento delle vesti, prima rigide e prive di pieghe, poi minutamente drappeggiate. Exekias, personalità notevole anche come ceramista (contribuì tra l'altro all'affermazione delle coppe a occhioni, dell'anfora panciuta tipo A e del cratere a calice) creò le sue opere migliori tra il 545 e il 530 a.C.: disegnatore finissimo fu il primo a dare risalto e coerenza quasi statuaria alle raffigurazioni vascolari, arricchendo anche le scene di vita quotidiana di spirituale concentrazione. Degli aspetti innovatori di Exekias abbiamo anche testimonianze singolari, come la celebre kilix (coppa) di Monaco a fondo rosso con la nave di Dioniso che veleggia in un'atmosfera favolosa di pesci e grappoli, rinvenuta a Vulci, o un dinos con navi dipinte lungo il bordo interno, ove il vino doveva simulare la superficie del mare. In questo stesso periodo si colloca una serie di kilikes ad alto stelo, più eleganti e slanciate delle precedenti coppe di Siana, dette 'dei Piccoli Maestri' (Little Masters Cups), a causa della netta predilezione per lo stile miniaturistico.
291. Pittore di Amasis, Lekithos di New York; 540 a.C.; m. 0,17; New York, Metropolitan Museum. Sul vaso sono due fregi: uno minore sulla spalla e uno maggiore sul corpo del vaso. Su quest'ultimo sono rappresentate delle modeste nozze paesane o per lo meno borghesi. La carretta è quella rituale di tipo assai arcaico con le curiose ruote a raggi paralleli. E se la sposa solleva il velo e ha in mano la corona come le dee e le eroine, l'atmosfera conserva la modesta freschezza di eventi quotidiani.
292. Pittore di Amasis, Anfora di Boston; 530 a.C.; Boston, Museum of Fine Arts. Gli aspetti più recenti nell'opera di Amasis sono apprezzabili in un'anfora a collo separato di Boston con figurazioni semplici e grandiose. Qui Achille si riveste delle splendide armi procurate da Teti, fra cui l'elmo con un serpente avvolto a sostegno del cimiero. Forse il gesto perduto del vecchio Phoinix, consapevole del destino dell'eroe, che presumibilmente portava la mano al mento, doveva introdurre la nota di ansiosa preoccupazione che sembra necessaria. Il pittore di Amasis che, forse per la sua origine orientale, tanta importanza riserva alle vesti, qui è tra i primissimi a introdurre il largo e tremulo piegheggiare delle foggie ioniche.
f 23, 24. Exekias, Coppa con nave di Dioniso; 540-530 a.C.; Monaco, Antikensammlungen. Si tratta di una delle prime coppe a profilo continuo con piede non molto alto, ma robusto. La coppa rientra nel genere detto 'a occhioni' per la presenza sui lati esterni di due grandi occhi che, per gli studiosi, hanno una funzione apotropaica, cioè di allontanare i malefizi. Sempre sui lati esterni abbiamo raffigurato un tema omerico, ovvero una lotta tra guerrieri sopra ad un caduto. Tuttavia più interessante è l'interno della coppa: esso è pensato come uno specchio d'acqua dove il vino doveva simulare la superficie del mare. E il fatto che ci si trovi nel mare è testimoniato dalla raffigurazione di alcuni delfini e di una barca. Questa barca però non è una barca qualunque, ma una barca straordinaria visto che al posto dell'albero maestro ha un tralcio di vite. Si tratta dunque della nave di Dioniso che troviamo sopra di essa in posizione semisdraiata, da banchettante. La vela della nave è in vernice bianca sopradipinta in parte però perduta. Il fondo non è quello arancio, tipico della ceramica attica, ma è rafforzato dal colore rosso. Sul piede non verniciato della coppa, è la firma di Exekias.
288. Exekias, Anfora con Achille e Penthesilea; 540-530 a.C.; m. 0,41; Londra, British Museum. L'anfora a collo separato in questa formulazione che forse deve essere riferita appunto ad Exekias, offre generalmente una breve scena narrata, generalmente una o due figure, inserita in vasti campi chiari riempiti di grandi girali ricorrenti. In questo caso, sul lato anteriore, abbiamo l'uccisione dell'amazzone Penthesilea da parte di Achille: secondo il mito Achille, togliendo alla regina l'elmo per vedere chi era l'eroe che con tanta fatica era riuscito a battere, scoprì con immensa sorpresa che si trattava di una donna e, profondamente colpito dalla sua bellezza, si innamorò pentendosi di averla uccisa. Nella rappresentazione gli sguardi che si incontrano lasciano intendere il dramma d'amore.Sul lato posteriore dell'anfora sono rappresentati Dioniso e un giovane della sua cerchia Oinopion, (che nel suo nome contiene quello di vino, oinon) che versa del vino in un kantharos per il dio. Vi è anche un'iscrizione che acclama la bellezza di un giovane.
f 25. Exekias, Anfora con Achille e Aiace che giocano ai dadi; 540-530 a.C.; m. 0,61; Roma, Vaticano, Museo Etrusco-Gregoriano. Il problema tecnico di fronte al quale si trovano gli autori di ceramiche a figure nere è la difficoltà di indicare, sul nero delle figure, i particolari dei corpi e delle vesti. Per superare questo ostacolo, essi ricorrono spesso all'uso di una punta metallica, che scalfisce la compattezza della lucida vernice nera: Exekias ha compiuto un lungo e raffinato lavoro, disegnando con la punta metallica gli ornamenti delle vesti e delle armi, i capelli e i peli delle barbe. Il vaso, non più diviso in fasce orizzontali, offre spazio alla figurazione (come nel caso prec.), che diventa così protagonista. Entro la superficie rossa tondeggiante, Exekias ha disposto i due giocatori, Achille e Aiace, che si curvano in avanti ripetendo, quasi specularmente, le reciproche posizioni. Le lance, tenute da ambedue sulla spalla sinistra, formando un triangolo col vertice in basso, verso il quale viene condotta la nostra attenzione, contribuiscono a rendere il senso di concentrazione dei giocatori sul piano del cubo. Fra i due l'unica differenza sensibile è nell'elmo, che Achille tiene ancora in capo, mentre Aiace lo ha deposto insieme allo scudo. Tutto è quindi costruito in modo tale da rendere nobiltà anche ad una scena di per sé banale, come questo gioco: solo un breve intervallo fra i combattimenti che si stanno svolgendo sotto le mura di Troia. In varie scritte, oltre al nome del vasaio e pittore Exekias e a quelli di Achille e Aiace, leggiamo anche i numeri che i due giocatori stanno dichiarando: 'quattro' e 'tre'.
f 26. Exekias, Anfora con il suicidio di Aiace; 530-525 a.C.. L'anfora, non firmata ma attribuita ad Exekias, è del tipo a collo separato. Sul corpo dell'anfora è rappresentato il suicidio di Aiace: dopo la morte di Achille, Aiace ed Ulisse se ne contesero le armi, che, da Teti, vennero assegnate ingiustamente ad Ulisse, mentre dovevano toccare al più valoroso degli eroi greci superstiti, cioè appunto ad Aiace. Questi, furibondo, si lanciò, nottetempo, fra le mandrie destinate all'alimentazione dei Greci e ne fece grandissima strage, immaginando che fossero l'esercito greco; poi, ritornato in sé, si vergognò della sua pazzia e si trafisse con la spada che gli aveva dato in dono Ettore. La rappresentazione di questo mito si incontra spesso, ma Aiace viene raffigurato già trafitto dalla spada e non, come fa Exekias, nel momento in cui pianta la spada nel terreno per gettarvisi contro. Ancora una volta Exekias si sofferma su di un momento di elevata concentrazione e di forte intensità emotiva.
285. Coppa di Phrynos; 550 a.C.; Londra, British Museum. La coppa di Phrynos è un esempio particolarmente lucido delle 'Little Masters Cup': si tratta di coppe ad alto stelo, con vasca poco profonda e labbro molto alto decorato con figure molto piccole (per questo si parla di 'Piccoli Maestri'). Nel nostro caso abbiamo sui due lati esterni due brevi, significative storie di Athena con figure minute e compatte: la nascita della dea dal cranio di Zeus e l'introduzione di Herakles nell'Olimpo.
Riguardo alle coppe che rappresentano una fetta molto significativa nella produzione vascolare di questo periodo, riassumendo, si distinguono 4 tipologie principali:
Coppe dei Comasti: caratterizzate da piccolo labbro, bacino profondo e basso piede;
Coppe di tipo Siana: con piede alto, vasca meno profonda e labbro più sviluppato rispetto alle coppe dei Comasti;
Coppe dei Piccoli Maestri (o "Little Master Cup"): si distinguono per il piede molto alto, vasca poco profonda e labbro molto alto dove spesso sono dipinte figure molto piccole, talora miniaturistiche;
Coppe a profilo continuo: hanno forma analoga alle coppe di tipo Siana ma senza distinzione plastica tra vasca e labbro, tant'è che si parla per questo tipo di coppa di orlo piuttosto che di labbro.
Intorno al 530 a.C. si verifica una grande svolta nella produzione vascolare attica con il graduale abbandono della tecnica a figure nere, che risultava ormai troppo piatta e rigida con le sue incisioni, e la creazione dello stile a figure rosse: invece che dipingere le figure nere sul fondo naturale della ceramica, si preferisce rivestire l'intero vaso di vernice nera lucente, risparmiando le figure a cui viene lasciato il colore rosso della ceramica. I particolari interni di queste figure non sono più incisi ma disegnati, quindi c'è la possibilità di rendere in maniera più convincente e naturale l'andamento delle vesti o la struttura anatomica dei personaggi. Inizia così il periodo della ceramica a figure rosse. Tra il 530 e il 510 a.C. diversi pittori vascolari operano in entrambe le tecniche, prima della definitiva, totale affermazione di quella a figure rosse, e sono perciò detti 'bilingui': tra essi, i più notevoli sono il Pittore di Psiax (f 30, 320), e il Pittore di Andokides (f31, f 32).
f 30. Anfora di Psiax; 520 a.C.; Brescia, Museo Civico. Ancora a figure nere è quest'anfora con la lotta tra Herakles e il leone nemeo. La scena viene concentrata su poche figure, tra cui, oltre ai protagonisti, vi è anche Atena e il nipote di Herakles, che proteggono l'eroe acheo. Eroe acheo che, prima di lottare si è tolto le vesti e le ha attaccate su un vicino albero. In quest'anfora Psiax dimostra una grande padronanza della vecchia tecnica a figure nere che egli impreziosisce con ritocchi in bianco o in paonazzo.
320. Anfora di Psiax da Madrid; 510 a.C.; Madrid, Museo Archeologico. A differenza di quanto accade per il pittore di Andokides, Psiax sa dominare in modo assoluto le due tecniche a figure nere e a figure rosse. Che anzi in un vaso come l'anfora di Madrid sembra voglia dare la misura delle sue possibilità, dal graffito sottilissimo del lato B, all'agevolezza del pennello del lato A. Si intende per lato A quello della nuova tecnica a figure rosse anche perchŽ le due coppie di divinità raffigurate, Apollo ed Artemis, Afrodite e Ares, superano in dignità e in importanza le figurazioni di Dionysos e del suo thiasos.
f 32. Anfora di Andokides; 520 a.C.; Monaco, Antiquarium. Su entrambi i lati di quest'anfora viene trattato lo stesso tema, Herakles a banchetto assistito da Atena, ma su un lato è realizzato con la nuova tecnica a figure rosse, sull'altro invece con la vecchia tecnica a figure nere. Mentre il lato a figure rosse è considerato opera di Andokides, quello a figure nere sembra essere opera del pittore di Isipiles, che però potrebbe essere lo stesso Andokides.
f 31. Anfora di Andokides; 520-510 a.C.; Berlino, Musei di Stato. Su un lato di quest'anfora, firmata al piede da Andokides, è raffigurata la lotta per il tripode delfico tra Apollo e Herakles che, afferrando con prepotenza l'oggetto della contesa, sembra avere al momento la meglio. Ad assistere alla scena è anche Atena nella sua consueta funzione di assistenza a un eroe. Interessante è mettere a confronto questa figura di Atena con quella rappresentata sul lato a figure rosse dell'Anfora di Monaco, per capire 'evoluzione nello stile di Andokides. La dea è in atteggiamento analogo, di profilo verso destra al margine di un pannello, nella sua funzione consueta di assistenza a un eroe. Se peraltro gli aspetti fondamentali, e questo sino alle minute decorazioni dell'elmo, sono assai simili, sbalorditivo è il progresso verso una definizione sempre più fluida e verso sempre nuove ricerche coloristiche. L'elmo nell'Anfora di Berlino acquista una significativa banda rossa che si incava come a chiudere in un soggolo il volto gentile. E le serpi, da meccaniche virgolette nere, si gonfiano di furore e vitalità plastica come se emergessero da un lebete bronzeo. Da una semplice decorazione a squame e quadrati dell'immagine più antica si passa a motivi decorativi più complessi che passano da un piecchiettato leggero sulle spalle a crocette nel peplo obliquo, fino a pesanti svastiche nella veste.
Tra il 510 e il 450 a.C., comunque, vasi a figure nere di qualità modesta continuano ad essere prodotti ed esportati, mentre è soprattutto nei mercati più ricchi ed importanti, come l'Etruria, che la novità delle figure rosse fu prontamente recepita, con le esportazioni di più alto livello. Il gruppo più importante di pittori vascolari a figure rosse della prima fase è quello dei cosiddetti 'pionieri', personaggi che sembrano partecipare in prima persona alla vita culturale della città, firmano i loro pezzi, identificano con personaggi reali i partecipanti alle loro scene di simposio, scrivono battute come quella, celebre, di Euthymides ('hos oudepote Euphronios', così bene mai dipinse Euphronios). Numerose sono le iscrizioni 'kalos' di ammirazione per i giovani 'belli' dell'alta società del tempo, non necessariamente raffigurati, tra cui soprattutto Leagros. Con loro si perde l'interesse per il decorativismo tipico delle figure nere; le pose si fanno più varie (si vedano Phintias ed Euthymides), spesso con figure di imponenza monumentale, le torsioni dei corpi possono essere rese con maggiore efficacia (quasi preludio delle conquiste della scultura maggiore del primo stile severo), le pieghe a zig-zag vengono rese più realisticamente con curve a S. Tra le personalità di spicco di questa cerchia dei pionieri, Euphronios (attivo nell'ultimo decennio del VI secolo a.C.) si distingue per l'eccezionale cura dei dettagli anatomici, anche minori. Nella fase più arcaica della produzione a figure rosse, le kylikes costituiscono circa l'80 per cento del totale dei vasi prodotti. In esse si esplica l'attività di alcuni notevoli pittori come Oltos ed Epiktetos: il primo è caratterizzato da un modo di narrare vivace e brillante, più adatto al rapido e minuto racconto di una coppa o di un piatto che a quello dei grandi vasi dei 'pionieri'; il secondo invece è un grande disegnatore con figure proporzionate di qualità talora statuaria.
323 (f 28). Euphronios. Cratere con Herakles e Anteo; 510-500 a.C. Notevolissimo, forse il maggiore fra i pionieri, è uno dei massimi ceramografi greci di tutti i tempi: Euphronios. I soggetti che ama rappresentare sono: i miti di Herakles (lotta con Anteo, lotta contro Gerione), i miti di Dioniso, scene di palestra e scene di komos. Le figure si possono articolare in scene, ma possono essere anche isolate e monumentali. Sulla faccia principale del cratere a calice rinvenuto a Cerveteri, è la lotta tra Herakles e il gigante biblico Anteo. Secondo il mito Anteo era figlio di Posèidon e di Gea (la Terra) e traeva la sua invincibiltà dalla forza che gli era trasmessa dalla Terra che lo aveva generato. Per vincerlo Herakles lo sollevò, stritolandolo tra le braccia. Qui è rappresentato proprio il momento in cui Herakles, simbolo dell'intelligenza dell'uomo, concepisce il piano d'azione che lo porterà alla vittoria, mentre Ghe, due altre figure del corteggio, lamentano la sorte di Anteo. Con la contrapposizione dei personaggi: uno di pieno profilo, l'altro frontale; con quella delle teste: composta e decisa quella di Herakles, irsuta e gemente quella di Anteo; con la diversità nell'uso della vernice: a rilievo quella dei capelli di Herakles, diluita quella di Anteo; con la contrapposizione delle anatomie: tesa e potente quella di Herakles, ormai debole quella di Anteo, Euphronios ha saputo creare un vero e proprio capolavoro.
f 29. Euphronios. Cratere a calice; 510-500 a.C.; New York, Metropolitan Museum. Lo stesso schema compositivo del precedente è usato da Euphronios anche in un secondo cratere, recentemente scoperto. Sulla faccia principale è il cadavere di Sarpedon, principe di Licia, ucciso da Patroclo: al cospetto di Hermes e per volere del padre, Zeus, viene riportato in patria da Thanatos e Hypnos, alla presenza di due guerrieri. Sulla faccia posteriore altri guerrieri sono rappresentati in atto di armarsi, per continuare quella lotta dalla quale Sarpedon è ormai escluso per sempre. La rappresentazione meditatissima dell'eroe morto, l'equilibrio della composizione, l'uso della vernice diluita, la nitidezza del disegno, la finezza dei motivi decorativi fanno di questo vaso un grandissimo capolavoro, forse l'opera più complessa di Euphronios.
325. Euphronios. Coppa con Geryonea; 510-500 a.C.; Monaco, Antiquarium. La splendida coppa di Monaco, firmata e miracolosamente integra, ci dà la misura delle possibilità di Euphronios in quella forma di vaso attraverso cui la sua influenza è più percepibile. Nel tondo intero un cavaliere di favolosa eleganza che l'acclamazione rivela essere Leagros che troveremo stratega venti anni dopo a Maratona. E se il passo danzante del cavallo, tutto d'un blocco con lo squisito giovinetto che lo monta, sembra introdurci in un mondo incantato, i due lati esterni uniti in un solo grande fregio (novità) ci danno un senso di drammaticità mai più sorpassata della "Geryoneia". Su di un lato l'attacco folgorante di Herakles contro il Gigante dai tre corpi armato da oplita, dall'altro gli armenti, i grandi buoi, di cui si doveva impadronire Herakles, dai volti innocenti e dai corpi distesi che offrono il contrappunto della loro intima pace ai furori della battaglia.
f 33. Euthymides. Anfora di Monaco; 510-500 a.C.; Monaco, Antiquarium. Euthymides ama decorare specialmente le ampie anfore o le anfore a collo, le hydriai e anche le kylikes. I soggetti prediletti sono quelli omerici (Ettore che si arma), mitici (ratto di Elena da parte di Teseo) gigantomachie, dionisiaci; rappresenta divinità, scene di palestra, preparativi di guerra, komoi, symposia. Forse egli non ha la complessità di Euphronios, ma la campitura perfetta delle figure (generalmente tre su ogni metopa delle anfore, rivolte verso l'interno) gli dà modo di manifestare appieno le sue possibilità compositive e grafiche. Euthymides insiste su alcuni dettagli che gli permettono di rendere efficacemente il carattere o l'atteggiamento di un personaggio. In lui, così come in Euphronios, si nota una duplice vocazione: per le figure o le scene monumentali; per le figure minori che si articolano in un movimento intenso, estremamente vivace.
Nell'anfora di Monaco Euthymides dipinge una scena di commiato: l'armamento di Ettore accanto alla figura raccolta e grave del padre. Singolare è la caratterizzazione di Priamo: è un anziano dalla barba grigia e dal capo sguarnito al di là della lunga ciocca di riporto. Eppure i segni della decadenza fisica, come il capo abbassato e rientrante nelle spalle, si accompagnano a un'estrema dignità: si tratta di un principe oltre che di un padre un po' incerto e tremulo. E il suo timido gesto di avvertimento che presagisce il futuro è pateticamente inadeguato alla virile determinazione del figlio che accetta col lucida fermezza il suo destino di eroismo e di morte.
329. Euthymides. Anfora di Monaco, ratto di Elena; 510-500 a.C.; Monaco, Antiquarium. Il capolavoro di Euthymides è l'anfora con il ratto di Elena, in cui il pittore sperimenta ancora una volta la sua abilità a creare grandi figure monumentali, largamente campite e un poco statiche, anche se impegnate in un'azione violenta. Nel gruppo del ratto di Elena il pittore crea un'immagine di grande freschezza. Il rapitore è il giovane Teseo dal volto radioso che solleva la principessa. E l'unità dal gruppo fa venire in mente l'osservazione di Erodoto che senza una certa cooperazione della "vittima" un rapimento non potrebbe aver luogo. Il garbo e l'eleganza delle figure, soprattutto di quelle femminili, i dettagli delle loro acconciature e del loro abbigliamento che si manifestano nella figura di Antiopeia (al centro) hanno una grazia irripetibile. L'anfora è però ancora in un periodo di transizione e i fregi che inqudrano la scena sono per gran parte a figure nere, come se fosse all'opera un pittore con scarsa familiarità con le nuove tecniche.
326. Phintias. Anfora da Tarquinia; 510-500 a.C.; Tarquinia, Museo. Ispirato da Euthymides, ma anche da altri come Epiktetos, Euphronios e Andokides, è Phintias, il quale dimostra una capacità rare nel recepire temi iconografici e stili diversi. Nell'anfora di Tarquinia si ispira per la monumentalità delle figure a Euphronios e a Euthymides, ma la composizione della lotta per il tripode delfico è evidentemente ripresa dall'anfora di Berlino del pittore di Andokides.
327. Coppa firmata da Phintias come vasaio; 500 a.C.; Atene, Museo Nazionale. La coppa è firmata da Phintias come vasaio, ma non sempre è ravvicinata a lui come pittore. Non è infatti agevole ricollegarla alle immagini monumentali di Phintias che è supremamente un pittore di grandi vasi. Si tratta qui di una delle prime e più soddisfacenti esperienze nella struttura del tondo. La coppa infatti non è decorata all'esterno e nell'interno ha una sola figura armoniosamente raccolta su se stessa, un guerriero che si arma e che ne occupa quasi interamente lo spazio. A volte i pittori attici hanno saputo trarre il massimo effetto da queste limitazioni, come se comprimere il una figura in uno spazio relativamente angusto potesse comunicarle una carica di energia esplosiva, come per una molla compressa. In questo caso invece la figura si adagia dolcemente nel campo senza presentare elementi di tensione. Nonostante la posizione accovacciata del guerriero venga spesso utilizzata per indicare il momento dell'agguato (v. 311, 312), la posizione obliqua dello scudo e la lancia adagiata sembrano invece esprimere un momento di riposo.
La kylix di Phintias ci permette di introdurre un nuovo argomento: i pittori di coppe. Tra il 525 e il 500 a.C., le kylikes costituiscono circa l'80 per cento del totale dei vasi prodotti. I pionieri, in particolare Euphronios, avevano anch'essi dipinto kylikes, ma solo pezzi eccezionali; mentre un largo gruppo di ceramografi si era già specializzato nella pittura delle kylikes, non dipingendo però esclusivamente quelle forme.
Giustamente, essi debbono essere trattati separatamente. Tra le personalità di maggiore spicco, dobbiamo ricordare Oltos ed Epiktetos: il primo è caratterizzato da un modo di narrare vivace e brillante, più adatto al rapido e minuto racconto di una coppa o di un piatto che a quello dei grandi vasi dei 'pionieri'; il secondo invece è un grande disegnatore con figure proporzionate di qualità talora statuaria.
330. Oltos. Coppa; 510 a.C.; Kopenhagen, Musée National. La coppa appartiene alla fase media del pittore. é oramai superata l'ambiguità della tecnica bilingue, e anche l'interno ha una grande immagine a figure rosse, mentre all'esterno i grandi occhi sono stati sostituiti da un gruppo di palmette. Nell'interno, Poseidon, una tipica creatura di Oltos, carica di quella mobilità vitale che il maestro imprime dovunque. Il dio non si preoccupa molto della sua dignità personale: procede spedito tenendo il tonno, che è suo attributo, capo all'ingiù come una borsa, e la rapidità del passo è indicata dal panneggio obliquo sul dorso e dalla breve manica che si solleva come un'ala.
331. Epiktetos. Coppa dell'Acropoli; 500 a.C.; Atene, Museo dell'Acropoli. Nella coppa dell'Acropoli il Minotauro dispone armoniosamente il suo corpo elastico entro i limiti del circolo, così come Phintias aveva disposto il suo guerriero (v. 327). Una figura ruotante che suggerisce l'attacco cieco e inefficace nella testa abbassata e cozzante.
332. Epiktetos. Piatto con guerriero e cavallo; 500 a.C.; Londra, British Museum. Una forma analoga al tondo di coppa, con spazi circolari anche più ampi è quella del piatto, di cui Epiktetos ci ha lasciato esempi insuperabili. In essa le sue figure tendono ad assumere valore monumentale. Nel piatto del British Museum il pittore sovrappone due delle immagini più popolari, quella di un guerriero e del suo cavallo. Come in altri casi consimili il cavallo è in primo piano, il vero protagonista, contro il guerriero sacrificato nel fondo. L'equilibrio costruttivo è dato dai divergenti volti dei due protagonisti, come in un'aquila a due teste.
333. Epiktetos. Piatto di Castle Ashby; 500 a.C.; Northapton, Castle Ashby. Qui il motivo del cavalcare passa nel mondo della fantasia: un giovinetto di delicata bellezza su un colossale gallo. Il motivo si associa a quello di un ratto, Europa sul toro, anche perché il giovinetto non ha né il costume né il temperamento di un cavaliere.
334. Epiktetos. Coppa di Sisyphos; 500 a.C.; Parigi, Louvre. L'interno della coppa del Louvre, purtroppo assai mutilato, ci permette di misurare un'altra dimensione dell'arte di Epiktetos. Non più l'agevole disporsi di una figura in un campo adeguato, ma la compressione della gran pietra su un corpo teso all'estremo. E a distanza enorme dai volti limpidi e imperturbabili a cui ci aveva abituati, un volto intenso, profondamente segnato e teso, che evidentemente rappresenta il massimo sforzo di questo pittore, per rendere la maschera d'un dannato.
335. Paseas (Pittore di Kerberos). Piatto di Boston; 500 a.C.; Boston, Museum of fine arts. Questo piatto ha dato il nome al pittore fino a che non fu letto il nome di Paseas su una pinax a figure nere a lui assegnato. A differenza delle opere a figure nere di carattere monumentale, nelle opere a figure rosse il pittore si dimostra più vitale. Qui Herakles, alla presenza di Hermes, trascina, quasi in un balletto vivace e festoso, un Cerbero elegantissimo.
Nel primo venticinquennio del V secolo a.C., quindi nel periodo di passaggio dallo stile tardo arcaico a quello severo, vediamo affermarsi due personalità ancora arcaiche nel disegno e nella staticità di alcune composizioni:il Pittore di Kleophrades, che introduce quella tendenza all'essenziale che sarà tipica del nuovo stile severo, e il Pittore di Berlino, notevole soprattutto per gli elaborati studi anatomici delle sue figure, spesso raffigurate isolate in momenti di altissima concentrazione (analogamente ad Exekias).
361. Pittore di Kleophrades. Anfora di Boston con Agonothetes; 500-490 a.C.; Boston, Museum of fine arts. Il pittore di Kleophrades è uno dei più insigni ceramografi della seconda generazione dei pittori a figure rosse. Egli parte dalle grandi pitture di Phintias e di Euthymides, creando immagini monumentali, ma introduce un nuovo modo di comporre la scena: scinde la narrazione in due figure isolate poste ai lati opposti del vaso. E così nell'anfora di Boston la composizione si ottiene ravvicinando idealmente le figure dei due lati, o semplicemente girando il vaso sino a farle incontrare mentalmente. Da un lato si trova un atleta molto ammirato carico di premi e regali, porta un bastone da passeggio, un aryballos e una lepre, e il suo corpo è adornato con nastri rossi, segni di ammirazione. Dall'altra parte del vaso c'è un altro giovane, forse il suo trainer che tiene in mano una ghirlanda, probabilmente da assegnare all'atleta.
362. Pittore di Kleophrades. Poseidon; 490 a.C.; Berlino, Musei di Stato. In quest'anfora ancora una volta il racconto si deduce dai due lati: in A un Herakles attaccante, in B Poseidon. Si tratterà evidentemente di un momento di quella oscura inimicizia che porta l'eroe contro le creature del mare. Così lo vediamo a volte strappare il tridente di Nereo o sopraffare con sempre maggior violenza il Tritone. In questo caso Poseidon - o Nereo - attaccato non potrebbe rappresentare con più autorità la fermezza d'animo di un grande dio in un momento di pericolo.
363. Pittore di Kleophrades. Herakles. Anfora; 490-480 a.C.; Monaco, Antiquarium. Uno dei personaggi prediletti dal pittore è Herakles. Qui è rappresentato in lotta contro un Centauro sul lato opposto ed appare in maniera assai poderosa per effetto della pelle di leone distesa. La tendenza a separare il racconto in due figure isolate sembra introdurre la nuova tendenza all'essenzialità dello stile severo.
364. Pittore di Kleophrades. Testa di Ettore; 490 a.C.; Atene, Museo del Ceramico. I frammenti di un cratere a calice del Ceramico ci conservano tratti di una scena particolarmente toccante del riscatto di Ettore. Qui è rappresentata la bella testa abbandonata dell'eroe morto in cui neppure la furia del nemico ha potuto cancellare la suprema nobiltà.
365. Pittore di Berlino. Lotta per il tripode; 500-490 a.C.; Wurzburg. é con il pittore di Berlino che la formula di scindere una narrazione in figure isolate idealmente collegate sui lati opposti del vaso, trova le sue più alte e coerenti realizzazioni. Nell'anfora di Wurzburg ne abbiamo una interessante manifestazione. La resa delle due figure isolate e senza alcun sostegno in basso, ben rende la contrapposizione che dev'esserci in una contesa come quella del tripode: da una parte Apollo, che minacciando con l'arco, avanza con passo leggero e dall'altra Herakles possente e cozzante come un torello ostinato.
366. Pittore di Berlino. Cratere con Zeus e Ganimede; 490 a.C.; Parigi, Louvre. Anche questa volta una scena che ricostruiamo dalle due facciate del vaso: in ciascuno dei lati una singola figura. Da una parte Zeus che avanza con un gesto perentorio di comando, dall'altra il fanciullo Ganimede dalla lunga chioma bionda, che avvia il cerchio e solleva come in trionfo il gallo, l'animale che è proprietà gelosa degli adolescentie che è anche spesso pegno d'amore. Nulla quindi di un inseguimento ma solo un gesto di comando che immobilizza e il gioco del fanciullo che si arresta.
367. Pittore di Berlino. Achille e Pentesilea; 490 a.C.; New York, Metropolitan Museum. L'incontro tra Achille e l'Amazzone è qui reso con grande concentrazione, ma con toni meno drammatici rispetto alla composizione di Exechias (v. 288). Pentesilea Çcrollo a terra implorante come una grande ballerina, o come una di quelle assurde figure relegate negli angoli dei frontoni, e la punta della lancia dell'eroe le penetra nell'anca da cui sbocca una fiammella di sangue purpureo. Il corpo di Achille sottile e nervoso è completamente impegnato nel gesto di attacco.
368. Pittore di Berlino. Anfora con portatore d'acqua; 490 a.C.; Londra, British Museum. Il giovane con l'anfora appuntita sulle spalle decorava il lato secondario di un'anfora. L'umile azione e il corpo giovane e semplice, senza attributi particolari, confermano che si tratta di un personaggio di nessuna importanza. Interessante è l'impostazione della figura, gambe di profilo e torso di tre quarti, che forse vuole mettere in evidenza la muscolatura dei pettorali. Il volto pieno è già una caratteristica tipica dell'età severa.
Anche nel primo quarto del V secolo a.C. le kylikes rivestono un ruolo cospicuo nella elaborazione e diffusione di stili, coprendo all'incirca la metà del totale delle richieste. Tra i pittori di quest'epoca possiamo ricordare il pittore di Antiphon, Sosias e Douris.
369. Pittore di Antiphon. Coppa di Firenze; 490-480 a.C.; Firenze, Museo Archeologico. Nel tondo della coppa di Firenze, inquadrato da una bordura a meandri, elemento distintivo tra le coppe della prima e della seconda generazione, è un giovane, che doveva prendere parte ad un banchetto, con un bastone nella destra e una lira nella sinistra. La figura solida e monumentale dà la sensazione di un'immagine statuaria.
370. Pittore di Antiphon. Discobolo; 480 a.C.; Roma, Museo di Villa Giulia. Della coppa del Museo di Villa Giulia, è da notare la figura del discobolo che, in una torsione molto simile ad un passo di danza, introduce uno schema che ricorda molto quello utilizzato da Mirone nella sua statua più famosa.
371. Coppa di Sosias; 490-480 a.C.; Berlino, Musei di Stato. La coppa di Berlino è l'unica opera firmata dal pittore e anche l'unica che possiamo attribuirgli. Grande è la frattura fra i lati esterni dipinti con grande vivacità e ricchezza di personaggi e la figurazione interna stringata e drammatica. In questa abbiamo Achille e Patroclo, quest'ultimo ferito e seduto sullo scudo, in un episodio per noi ignoto delle loro campagne. Sorprende non solo il fatto materiale di un ferimento di cui non abbiamo menzione, ma in più il loro rapporto reciproco. Patroclo non soltanto ci appare più anziano del compagno nel viso barbuto e nel corpo virile angoloso in confronto all'adolescente tenerezza dei contorni di Achille: ma, anche ci appare il personaggio principale, quello a cui più spazio è concesso nel tondo, quello che il breve dramma del ferimento rende centro di interesse.
372. Douris. Coppa di Giasone; 480 a.C.; Musei Vaticani. Nel tondo della coppa, cerchiato da una bordura di meandri e crocette, è Atena che assiste ad una particolare scena: un enorme serpente apre le fauci da cui fa emergere un uomo. Chi sia quest'uomo lo si capisce dalla pelle di ariete attaccata all'albero sullo sfondo: si tratta di Giasone impegnato nella conquista del vello d'oro custodito dal serpente. Per il momento l'eroe sembra avere la peggio, ma alla fine riuscirà nell'impresa grazie all'aiuto della dea. Per quanto riguarda lo stile, Douris sembra non amare la tendenza alla semplificazione, visto che la veste di Atena mostra numerose ed elaborate pieghe.
Un altro centro peloponnesiaco importante, accanto a Corinto, è Sparta. Questa città non ha restituito grandi opere scultoree di epoca arcaica, tuttavia ad Olimpia sono state trovate alcune statue attribuibili ad artigiani spartani.
245. Volto colossale da Olimpia; 590 a.C.; m. 0,52; calcare; Olimpia, Museo. In passato si pensava che questa testa colossale dovesse appartenere alla statua di culto della dea Hera nell'antichissimo Heraion di Olimpia. Il polos a corona di foglie indicò in seguito non solo che era una divinità, ma che proveniva da Sparta dove si erano trovate statue con un copricapo simile.
All'inizio del V secolo appartiene forse l'opera più importante: un torso di guerriero trovato sull'acropoli della città (389). Con il capo coperto da un elmo decorato con protomi di ariete, il guerriero è probabilmente rappresentato come hoplitodromos. La figura presenta caratteristiche proprie della plastica spartana: corpo asciutto ed espressione amara nel volto.
Avendo pochi esempi di scultura di grandi dimensioni, per studiare la plastica spartana ci si rivolge ai bronzetti.
252, 253. Statuette di eroi da Olimpia; 540-530 a.C.; Olimpia, Museo. Le due figure non sono rappresentate, come al solito, in nudità eroica ma indossano una corta tunica ed un giubbetto. Esse, essendo simili per la fattura e per il gesto dovevano essere collegate in un gruppo o meglio, avendo una piccola basetta (plinto) sotto i piedi, in una sequenza di piccole immagini da fissare sul bordo di un grande vaso. E. Kunze pensa ad una scena di argomento epico e riconosce nel vecchio un po' curvo appoggiato al bastone il vegliardo Nestore. Queste statuette vengono attribuite ad artigiani spartani per il modellato semplice non attento ai particolari e per il volto con bocca intagliata ad andamento orizzontale che offre un'espressione amara.
Lo stile geometrico cede, a Sparta, di fronte a forti influenze corinzie, alla fine dell'VIII secolo. La ceramica laconica non presenta molta originalità per un periodo abbastanza lungo, definito transizionale. Attorno al 650 a.C. circa, sino a circa il 620 a.C., le fabbriche laconiche vengono assumendo maggiore autonomia; è questo il momento del cosiddetto stile laconico I. Per quanto riguarda le forme si nota una certa indipendenza, specialmente nella lakaina. Le figure risentono però del preponderante influsso corinzio (testimoniato per altro dalle notevoli importazioni di ceramica da Corinto stessa). Le fabbriche producono vasi che circolano solo a Sparta e in Laconia, se si escude qualche raro esemplare (come uno da Samos).
Tra il 620 e il 580 a.C., la ceramica laconica acquista una sua più spiccata originalità: è questo il momento definito del primo stile a figure nere o stile laconico II. Le fabbriche adottano la tecnica a figure nere assimilandola da Corinto, ma i pittori ripropongono una propria tematica regionale. Viene impiegata la tecnica della incisione, i ritocchi bianchi e paonazzi divengono sempre più frequenti; prevalgono tuttavia, le figure a semplice silhouette; le figure umane permangono rare. Tra le forme più caratteristiche: la lakaina, la kylix che imita forme corinzie, il piatto, il calice, il cratere. Le raffigurazioni si fanno sempre più preziose, alcune personalità di singoli pittori possono essere isolate: come uno che dipinge tre splendide kylikes (247) rinvenute a Taranto, il pittore dei pesci. Esse presentano pareti molto sottili, un piede immediatamente aderente al vaso (quindi una forma molto simile a quella delle coppe corinzie, v. 231), e sono ricavate da un argilla rosa molto sottile. Il pittore decora, e in questo è innovatore rispetto ai maestri corinzi, sommariamente l'esterno, mentre pone l'accento centrale nel grande tondo interno. La decorazione interna è infatti quella più notevole: l'uso dell'incisione, di ritocchi in paonazzo, la creazione di intere figure in paonazzo, determinano una ricca policromia che fa risaltare i tonni e i delfini, disposti attorno ad una rosetta risparmiata, sul fondo giallo. Il pittore ha assimilato il liquido che doveva contenere la coppa, al mare.
Le esportazioni si fanno sempre più intense, specialmente per quanto concerne le kylikes, ma a Sparta continua comunque l'importazione corinzia.
Al primo stile a figure nere segue il cosiddetto secondo stile a figure nere. Esso è stato suddiviso in uno stile laconico III (580-550 a.C.) e IV (550-525 a.C.): questo segna la fine della produzione. In questo periodo la forma predominante è la kylix; per quanto concerne la decorazione, i riempitivi si fanno canonici: tra essi, estremamente caratteristici, la melagrana e il fiore di loto stilizzati. é il momento un tempo definito della ceramica cirenaica: la rappresentazione di una kylix con Arkesilas II, re di Kyrene (circa 566-560 a.C.) aveva fatto pensare che la kylix e le altre della stessa classe fossero state prodotte in quella città dell'Africa. Oggi invece si attribuiscono al pittore più notevole di tutta la tradizione spartana: il pittore di Arkesilas appunto. La sua attività deve essere iniziata, forse, attorno al 575 e deve essere continuata per circa un quindicennio almeno, fino al 560 circa. Tra le sue prime opere una kylix da Caere con i Boreadi che inseguono le Arpie (249). Il motivo dell'inseguimento sembra esaltato dalla contrapposizione tra i Boreadi, due figure brune, asciutte e composte che procedono con determinazione e le Arpie scompigliate e con gli occhi folli nel volto che starnazzano come galline di fronte a una coppia di falchi. Il movimento è fugace, quasi uno svolazzio, come se i personaggi passassero su uno schermo. Le figure sono incorniciate da una corona di melagrane (che taglia i piedi delle Arpie) e la sfinge in basso.
Ma nella sua opera maggiore, la coppa di Arkesilas appunto (248, f 22. Coppa di Arkesilas; 560-550 a.C.; Parigi, Biblioteque Nationale), il pittore sa dare un'immagine ancora più complessa. Il soggetto non è più mitologico: ma vuole esaltare un avvenimento, seppure in tono fiabesco. Sul ponte di una nave, seduto, Arkesilas, all'ombra di una vela, assiste alla pesatura del silfio. L'esergo serve a rappresentare la stiva dove si vanno stipando le balle del vegetale. La natura esotica trionfa: una pantera è sotto lo sgabello del re, un lucertolone sale verso la vela, sul pennone una scimmia e uccelli migratori. L'avvenimento è ambientato in un porto africano del quale il pittore vuole cogliere l'atmosfera con uno straordinario talento narrativo.
L'importanza delle fabbriche laconiche è testimoniata dalle numerose esportazioni che raggiungono anche l'Italia, e dall'imitazioni di motivi tipicamente laconici in ceramiche greco-orientali o addirittura corinzie o attiche. Attorno al 525 la produzione, sopraffatta da quella attica, termina.
Una trattazione a sé merita la ceramica a rilievo dell'età arcaica (di qualità inferiore alle coppe) che ha permesso di ricostruire una precisa serie stilistica dal 625 al 550 a.C. circa. Realizzati in argilla locale, questi vasi presentano una ricchissima decorazione sul collo e sulla spalla, che richiama prototipi metallici, con scene di caccia, di combattimenti e di processioni di carri (246. Cratere a rilievi da Sparta; 600-575 a.C.; Sparta, Museo).
Tra l'ultimo quarto del VII secolo e il primo quarto del VI (c. 625-575 a.C.) sulle coste ioniche dell'Asia Minore si sviluppa una eccezionale ricchezza di commerci e una altissima fioritura di cultura (filosofia e poesia), in contatto con le dinastie principesche della Lidia e della Frigia e anche con l'Egitto. Questi ultimi contatti avvenivano in particolare attraverso la città greco-egizia di Naukratis, situata nel delta del Nilo, inizialmente colonia di Mileto. In questo contesto, contraddistinto da una straordinaria ricchezza fioriscono la scultura e l'architettura con la costruzione dei grandi complessi templari ionici, caratterizzati da una forte tendenza al gigantismo.
Nasso. Come abbiamo già avuto modo di vedere, nel mondo greco-orientale, sembra che i Nassi abbiano svolto un ruolo d'avanguardia nell'evoluzione della scultura. Verso il 650 a.C., sull'isola si cominciarono a scolpire con il marmo locale statue di grandi dimensioni; e per quanto la vicina e rivale Paro rivaleggiasse con Nasso in questo come in altri campi, e in varie epoche Delo, Creta e Corinto abbiano avanzato pretese di priorità, fu probabilmente a Nasso che venne fondata la prima scuola greca di scultura in marmo.
Una delle statue più antiche è una figura femminile dedicata ad Artemide di Delo, isola che a quel tempo era soggetta a Nasso, da una donna di nome Nikandre intorno al 650 a.C.
72. Statua di Nikandre; marmo; 650-640 a.C.; m. 2; Atene, Museo Nazionale. La statua è per noi il più antico esempio di scultura monumentale che ci sia pervenuto. Sul lato sinistro della statua è incisa verticalmente un'iscrizione bustrofedica (cioè eseguita alternativamente da destra a sinistra e da sinistra a destra) nella quale si ricorda che la statua venne dedicata alla dea Artemis dalla fanciulla Nikandre, figlia di una dinastia di Nasso in occasione del suo matrimonio con Phraxos. Le dimensioni insolite fanno ritenere si tratti di una raffigurazione della dea piuttosto che della dedicante. La struttura presenta le principali caratteristiche dello stile dedalico: frontalità, bracci tesi che scendono lungo i fianchi con pugni serrati, capelli che scendono in grandi masse. Il fatto che Nikandre fosse di Nasso e che il marmo utilizzato provenga da quest'isola ha fatto attribuire l'opera ad uno scultore nasso.).
A Delo vi sono anche leoni del VII secolo scolpiti in marmo di Nasso, forse offerti da famiglie nobili rivali, e una sfinge di Delfi (198. Sfinge dei Nassii; 570 a.C.; Delfi, Museo) della prima metà del VI secolo risale alla medesima origine.
Attorno al 580 a.C. i Nassi lavorano in Attica: alla loro attività può essere attribuita una kore proveniente dall'Acropoli di Atene (154. Kore n. 677; 570-560 a.C.; Atene, Museo dell'Acropoli) scolpita in marmo dell'isola.
Alle botteghe nassie viene attribuito anche uno dei maggiori capolavori dell'arte arcaica: il kouros di Melo (201. Kouros di Melos; 550 a.C.; Atene, Museo Nazionale), databile al 550 a.C.
Delo. Benché vantasse una delle scuole più all'avanguardia nella scultura marmorea e fosse anche rinomata per le sue opere in bronzo, l'isola di Delo risentì molto dell'influenza culturale di altre isole dell'Egeo, fra cui Nasso, dalla quale era politicamente controllata, e Chio come dimostra una delle più importanti opere scultoree ritrovate nell'isola, la cosiddetta Nike di Delo (200).
Chio. In età arcaica l'isola era centro di fiorenti scuole di scalpellini, notevoli soprattutto per le figure femminili drappeggiate: alcuni attribuiscono a Chio persino l'invenzione di questo genere d'arte visto anche che sono stati ritrovati nell'isola due torsi di kòrai che sono tra le prime rappresentate con il chitone (196, 197). Gli scultori di Chio erano inoltre conosciuti come specialisti nell'esecuzione minuziosa della tunica ionica di lino (chitone) che costituisce un elemento di rilievo nelle korai orientali. Alcuni intagliatori di Chio lavorarono per gli Ateniesi, i cui governanti pisistratidi mantennero stretti rapporti con l'isola. Fra questi, artisti ricordati da un'iscrizione dell'Acropoli c'era il celebre Archermos, il cui nonno Mela, secondo Plinio il Vecchio, aveva fondato una vera e propria industria familiare di scultura, fiorente per quattro generazioni, in cui veniva utilizzato il marmo bianco di Paro. Si ritiene inoltre che Archermos sia stato il primo scultore a raffigurare una Nike alata (200) e varie statue che ripetono questo tema gli sono state di volta in volta attribuite.
Paro. Ricca di cave di marmo, l'isola di Paro, insieme alla rivale Nasso, intorno al 650 a.C. guidò il passaggio dall'uso della pietra calcarea a quello del marmo che segnò l'inizio della statuaria di grandi dimensioni e dové sviluppare ben presto una scuola di scultura. Ma essa non ebbe all'inizio pari fortuna a quella di Nasso. La sua fioritura è infatti documentata solo a partire dal 560 a.C circa. La produzione dell'isola sorprende per l'eccezionale capacità di proporre motivi iconografici e stilistici sempre nuovi. Fondendo una tematica così ricca, verso il 520-510 a.C., la cultura formale paria si manifesta con un'opera prodigiosa: una statua seduta, colossale, di una divinità (213). L'enorme ricchezza degli spunti nel trattamento della veste, che si articola con pieghe sempre diverse, fanno di questa scultura uno dei maggiori capolavori dell'intera scultura antica.
Efeso. Per quanto riguarda la plastica, Efeso in età arcaica eccelse soprattutto per la lavorazione dell'avorio. Dalla stipe dell'Artemision provengono alcuni avori, lavorati proprio ad Efeso, particolarmente notevoli: tra questi abbiamo la figuretta di un sacerdote, del 590 a.C. circa (172) e quella di una sacerdotessa che reca nelle mani una patera ed una oinochoe del 580 a.C. circa (171), che sono tra le massime realizzazioni dello stile di Efeso.
198. Sfinge dei Nassii; 560 a.C.; m. 2,32; Delfi, Museo. Questa scultura proviene dal grande santuario di Apollo a Delfi. La creatura rappresentata è una sfinge eretta sulle zampe anteriori. Essa si trovava su di una colonna a sottili scanalature, che si è calcolato doveva essere alta all'incirca 10 m. Il basamento su cui è impostata è un capitello ionico anch'esso di forma assai arcaica, basso e appiattito, con volute traboccanti lontano dall'esile fusto. é stata ritrovata anche la base della colonna: questa reca un'iscrizione più tarda (IV sec. a.C.) dove sono enunciati alcuni diritti che si erano guadagnati i cittadini di Nasso. Il più importante di questi diritti era quello di poter consultare l'oracolo senza dover attendere, diremo noi, senza fare la fila. Quindi la sfinge è ovviamente dedicata dagli abitanti di Nasso al dio Apollo.
200. Nike di Delo; 560 a.C.; m. 0,90; Atene, Museo Nazionale. La scultura, probabile opera di Archèrmos di Chio, stava eretta in cima ad una colonna. Il corpo, che nella parte inferiore è di profilo, in quella superiore è visto di prospetto, mentre la testa è leggermente di 3/4. Questa curiosa posizione è quella della cosiddetta 'corsa in ginocchio', un modo arcaico ed ingenuo per dare l'idea del movimento. Qui però non si tratta di un semplice movimento ma di un volo. Infatti sia sul dorso che sulle spalle sono stati trovati gli attacchi per quattro ali. Il modellato è semplificato. I capelli, ad onde sulla fronte, ricadono in trecce sul petto.
201. Kouros di Melos; metà del VI sec. a.C.; marmo di Nasso; m. 2,14; Atene, Museo Nazionale. Interessante è mettere a confronto questo kouros con le statue di Kleobis e Biton (216), in modo da evidenziare le differenze tra lo stile ionico e quello dorico. Simile è l'atteggiamento: posizione stante, gamba sinistra avanzata, aderenza delle braccia al tronco, frontalità. Diverso è il rapporto tra altezza e larghezza: questo kouros infatti sembra più alto, nonostante l'altezza oggettiva di entrambi sia pressoché uguale. Nel Kouros di Melos l'utilizzo di piani continui determinano una gradualità maggiore del passaggio dalla luce all'ombra: il chiaroscuro è infatti più tenue, più morbido e più raffinato. Le fratture ad una caviglia e ai piedi dimostrano che la statua è caduta durante una devastazione o un terremoto. Il Kouros proviene dall'isola di Melos da cui riceve la denominazione.
174. Statua di kouros offerente da Mileto; m. 1,66; metà del VI sec. a.C.; Berlino, Musei di Stato. La scultura ha l'enorme importanza di essere la più completa figura virile nuda proveniente da Mileto. Qui si nota come, in confronto all'appassionato interesse per problemi di panneggio, gli artisti di questa illustre città sentissero meno intensamente i problemi della struttura umana: l'integrità della figura è compromessa dal grande attributo, probabilmente un animale che l'offerente portava nelle braccia avanzate e di cui rimane traccia nel grande attacco sul petto. I passaggi di piano sono molto morbidi e il modellato è fine.
Nell'Oriente greco più che sul nudo maschile che comunque è largamente raffigurato, l'interesse prevalente è concentrato sulle korai. Qui di seguito sono riportati alcuni esempi importanti, che ci permettono di seguire l'evoluzione della resa delle vesti femminili.
196, 197. Torsi di Chio; 580 a.C.; Chio, Museo. I due torsi di statue femminili, decisamente assai simili per struttura e per dimensioni, non provengono da scavi regolari e non hanno un'origine precisa, a parte le tradizioni orali raccolte da A. Conze (1893) che ne attestano la provenienza da Atziki, l'antica capitale dell'isola. Si tratta di due statue di grandi dimensioni - l'altezza può essere calcolata ad almeno 2,25 m - e tali e quali sono da immaginare in un luogo sacro. Le due sculture sono rimaste isolate, malgrado le notevoli esplorazioni condotte nell'isola: e nessun avvicinamento illuminante è stato possibile avanzare con la plastica delle isole vicine o della costa ionica. I primi studiosi che si occuparono di queste sculture ipotizzarono una antichità remota, in realtà il disfarsi in sottili ciocche delle ampie chiome dedaliche suggerisce un arcaismo già avanzato. Ma il fatto più nuovo e più sensazionale è il rendimento del panneggio secondo modi inusitati che suggeriscono se non l'invenzione, almeno una delle prime esperienze in questa direzione. La veste sottile e aderente appare plasmata sulle forme del corpo e si rivela in singolarissime pieghe incise a gruppi di tre che procedono in larghe ondulazioni oblique. Singolare è l'atteggiamento della n. 196 che alza entrambe le braccia per toccarsi le spalle. Nella n. 197 invece un braccio scende lungo il fianco e l'altro è portato al petto per mostrare un'offerta, che, lavorata a parte ed applicate mediante tasselli, è andata perduta.
171. Statuetta di avorio da Efeso; 580 a.C.; m. 0,107; Istanbul, Museo. La figurina appare tutta chiusa in una veste che forma nella parte inferiore un cilindro analogamente alle statue di Cheramyes. Interessante è la resa delle pieghe attraverso una fascia di linee centrali che percorrono la veste dalla vita fino ai piedi. Le braccia scendono lungo i fianchi e recano due oggetti a carattere religioso: una brocca e una patera.
154. Kore Acropoli; 570-560 a.C.; m. 0,54; Atene, Museo dell'Acropoli. La figura è avvolta strettamente da una veste sottile che forma numerose pieghe oblique. La mano sinistra è portata al petto e tiene un melograno. Il volto con il suo malinconico allungamento presenta una forte analogia con quello della sfinge di Nasso. Queste affinità e il fatto che sia scolpita in marmo di Nasso ha rafforzato l'ipotesi che si tratti di un'opera di uno scultore di Nasso attivo ad Atene.
173. Statua di dea da Mileto; 550 a.C.; m. 1,43; Berlino, Musei di Stato. In confronto alle precedenti, in questa statua la resa delle vesti è molto più complessa. I sistemi di pieghe sono numerosi. Il chitone, cinto alla vita, presenta pieghe sottili nella parte alta e più larghe nella parte bassa. La mano destra afferrandolo provoca pieghe arcuate. Il mantello, che lascia liberi gli avambracci, ha, nella parte destra, dove è fermato, pieghe che partono a gruppi di quattro dai bottoni, in maniera simile alla statua precedente. Nelle ricadute ha invece pieghe più larghe e schiacciate. Il braccio destro scende lungo il corpo, il sinistro è portato al petto per mostrare un'offerta. Se confrontiamo quest'opera con la contemporanea 'Kore di Lione' o con la più tarda 'Kore con peplo', notiamo una assai più elaborata resa delle vesti. Questo dimostra l'importanza che, in ambiente greco-orientale, veniva data al panneggio.
Nella seconda metà del VI secolo a.C. il tipo di kore più diffuso è quello con mantello drappeggiato obliquamente. Esso lo ritroviamo non solo in ambito greco-orientale, ma anche ad Atene (n. 304) e nelle colonie italiane e nord-africane (n. 211).
208. Kore di Delo; 530-520 a.C.; m. 0,94; Delo, Museo. Nella figura, il mantello attraversa diagonalmente il petto, partendo dalla spalla destra e passando sotto l'ascella sinistra. Il bordo superiore è rilevato. Nella parte bassa a destra, esso ricade in due lembi ('a coda di rondine') che sembrano staccati dal corpo e che presentano pieghe arrotondate. Nella parte sinistra invece le pieghe sono più larghe ma più schiacciate.
211. Kore da Cirene; 520-510 a.C.; Cirene, Museo. Difficilmente possiamo avvicinare questa kore ad altre conosciute. Questo soprattutto per il panneggio: raramente troviamo vesti così tenere con pieghe così larghe, schiacciate e rade. Un'opera plastica che sembra ispirarsi a criteri di semplicità ed essenzialità.
Tra i tipi iconografici diffusi nella seconda metà del VI secolo a.C. in ambito greco-orientale, è quello della figura seduta. Anche questo, come quello della kore con mantello drappeggiato obliquamente, non lo troviamo solamente nel mondo greco-orientale, ma anche ad Atene (n.302).
175. Statua seduta dei Branchidi; 550 a.C.; m. 1,58; Londra, British Museum. Ai lati della 'Via Sacra' che collegava Mileto a Didima si trovavano numerose statue, tra cui quelle dei Branchidi, stirpe collegata tradizionalmente al culto di Apollo. Alcuni componenti di questa famiglia erano infatti sacerdoti del Didymaion. Tuttavia la statua che consideriamo non raffigura un sacerdote, visto che l'iscrizione recita: 'Sono Chares, signore di Teichiusa: dono votivo di Apollo'. La statua parla in prima persona, ricorda il principe che ha avuto un privilegio così straordinario, la città sulla quale egli dominava (e che non è possibile localizzare). Probabilmente Chares ha voluto lasciare il proprio ricordo personificandosi nella scultura, simbolo di maestà e bellezza, e questa, parlando in prima persona, dichiara la potenza del signore. L'uomo piuttosto che seduto, sembra affondato nel trono ed è 'fasciato' da vesti sottili (una tunica e un mantello drappeggiato in diagonale) con poche pieghe schiacciate. I piedi emergono dalla tunica in maniera molto simile a quella delle statue di Cheramyes. Come in tutte le opere orientali, i volumi sono ampi, i passaggi di piano non scanditi e quindi non ci sono né cesure né ombre.
176. Statua di leone giacente da Mileto; 550 a.C.; Berlino, Musei di Stato. Da collegarsi alla precedente statua, per la sua statica immobilità, è questa figura di leone proveniente da Mileto. Frequentemente troviamo queste cretuare a guardia delle tombe, ma in questo caso deve rappresentare il simbolo della città. Il leone, altero e malinconico, è rappresentato come una massa compatta da cui emergono appena la testa, evidenziata dalla criniera, e la zampa posteriore destra in cui le pieghe evocano una muscolatura potente.
213. Statua seduta da Paro; 520-510 a.C.; Paro. Si tratta di un'altra figura seduta che, per le sue dimensioni insolite dovrebbe rappresentare una divinità. Come nelle korai che abbiamo visto precedentemente, anche qui il mantello è drappeggiato in diagonale. Ma l'elemento nuovo è la presenza, ad ogni curva e ad ogni angolo, di nuovi e numerosi modi di piegheggiare che rivelano una eleganza e una fantasia che non avevamo mai incontrato.
Tra l'ultimo quarto del VII secolo e il primo quarto del VI (c. 625-575 a.C.) sulle coste ioniche dell'Asia Minore si sviluppa una eccezionale ricchezza di commerci e una altissima fioritura di cultura (filosofia e poesia), in contatto con le dinastie principesche della Lidia e della Frigia e anche con l'Egitto. Questi ultimi contatti avvenivano in particolare attraverso la città greco-egizia di Naukratis, situata nel delta del Nilo, inizialmente colonia di Mileto. In questo contesto, contraddistinto da una straordinaria ricchezza fioriscono la scultura e l'architettura con la costruzione dei grandi complessi templari ionici, caratterizzati da una forte tendenza al gigantismo.
Nel tempio ionico la colonna non si appoggia direttamente sullo stilòbate, ma ha una propria base costituita da sporgenze (tori) e rientranze (tròchili). La colonna è, come quella dorica, rastremata verso l'alto e scanalata, ma le scanalature, più numerose (circa 24) e di conseguenza più strette, sono intervallate da crinali divisori arrotondati invece che taglienti. Nel capitello (n. 167 b) l'echìno è ornato con decorazioni ovoidali (òvoli) e, fra esso e l'àbaco, un elemento intermedio (pulvìno) si curva lateralmente in due ampie volute sottolineate da listelli. L'architrave si divide in tre fasce ed è sormontato da un fregio continuo (zoophòros, 'che reca animali', quindi con una rappresentazione di esseri viventi). Nell'ambiente greco-orientale con influenze fenicio-cipriote si sviluppa, ma con assai minor successo di quello ionico, il tipo di capitello detto eolico con ampie volute ed echìno formato da una doppia corona di foglie, il cui più antico esempio (550 a.C. ca.) è stato rinvenuto a Neandria (n. 170).
Saranno presi in considerazione solo gli edifici più notevoli, ad iniziare da quelli monumentali, che presentano tra loro precise affinità: l'Heraion di Samo, l'Artemision di Efeso, il Didymaion di Mileto.
L'Heraion di Samo, che gli architetti Rhoikos e Theodoros furono chiamati nella prima metà del VI secolo a.C. a costruire nell'antichissimo santuario travolgendo ogni resto preesistente, fu il primo tempio in stile ionico di grandiose proporzioni (base di m 52,20 x 105). Per il grande numero delle sue colonne (104 colonne nel peristilio, su due file: perciò diptero) fu designato come labirinto. Aveva 8 colonne in fronte, 10 colonne all'interno di un profondo pronao, su due file, e 22, su due file, all'interno della cella. La grande profondità del pronao rimarrà una regola degli edifici della Ionia.
Theodoros, come tecnico esperto di terreni difficili, fu chiamato ad Efeso per realizzare il nuovo Artemision (n. 167 a) attorno al 560-540 a.C. e fu terminato intorno al 500 a.C. Esso raggiunse fama incredibile in tutta la grecità, ma fu completamente distrutto nel 356 a.C. da un incendio appiccato da Herostratos la notte in cui nacque Alessandro Magno. Questo edificio era ancora più vasto di quello samio (m 115,14 x 55,10 sullo stilobate), anch'esso con 8 colonne in fronte (e forse 9 sulla parte posteriore). Una vera e propria selva di colonne (secondo Plinio in numero di 127) altissime (m 18,90) circondava la cella a cielo aperto, che conteneva numerosi altari antichi. Alcune di queste colonne nella parte inferiore erano scolpite.
168. Colonna scolpita dell'Artemision; 550-540 a.C.; Londra, British Museum. Di questa scultura rimangono due figure umane frammentarie poste di profilo. Quella a sinistra sembra essere maschile e, poiché ha una pelle di felino che le copre le spalle, potrebbe rappresentare o Eracle, che solitamente è raffigurato con una pelle di leone, oppure Dioniso che portava una pelle di pantera. L'importanza di questa figura è data dal fatto che in essa abbiamo il primo esperimento della resa della veste in una situazione di movimento. E questo problema di adeguare il sistema delle pieghe a figure in movimento caratterizzerà tutta l'età tardo arcaica.figura a sinistra, femminile, presenta occhi a mandorla: tipico elemento della scultura greco-orientale.
185. Volto ad altorilievo da Efeso; 530-520 a.C.; m. 0,19; Londra, British Museum. Si è pensato a lungo che questo volto facesse parte della decorazione di una colonna dell'Artemision. Oggi si tende ad allontanarlo da questo tipo di sculture sia per le dimensioni, sia per lo stile che lo data ad un epoca leggermente posteriore. Come in molte opere greco-orientali, anche qui i passaggi di piano sono sfumati e quindi pochi sono i giochi di luci e di ombre. I particolari dovevano essere resi con il colore. Questo volto può essere confrontato con un altro volto proveniente da Cirene.
190. Maschera di marmo da Cirene; 520-500 a.C.; m. 0,18; Cirene, Museo. Le analogie con il volto precedente sono molte, su tutte gli occhi a mandorla e il modellato con passaggi di piano sfumati. Questa scultura era realizzata con materiali diversi, come accadeva anche in altre zone greche: gli occhi erano in pietre dure, mentre il resto in marmo.
Con il tempio di Artemide ad Efeso e quello di Hera a Samo, il tempio di Apollo a Didima (550 a.C. ca.), presso Mileto, cosiddetto Didimaion, costituisce uno degli esempi supremi dell'architettura ionica. Anch'esso come l'Artemision consisteva di una selva di colonne attorno ad una cella a cielo aperto: e anche dal Didimaion provengono frammenti di colonne scolpite, di cui fa parte la seguente figura femminile.
169. Colonna scolpita dal Didimaion; 540 a.C.; m. 0,55; Berlino, Musei di Stato. A differenza delle sculture dell'Artemision che sono di profilo e sembrano muoversi attorno alla colonna, questa figura è rappresentata frontalmente. Paribeni ritiene che si tratti di una musa, visto che Apollo, a cui è dedicato il tempio, essendo dio dell'arte e della musica, aveva una stretta relazione con le Muse. Oggi però si pensa che la scultura raffiguri una sacerdotessa sia per il suo copricapo sia perché, essendo il Didimaion un santuario oracolare, le sacerdotesse al suo interno coprivano un ruolo molto importante. Paribeni però non esclude l'ipotesi che questa figura femminile potesse sorreggere, insieme ad altre, un bacino per l'acqua santa (perirrhanterion). Per quanto riguarda il volto, esso presenta forti analogie con quelli visti in precedenza, come i grandi occhi a mandorla e il sorriso.
186. Testa femminile da Mileto; 520 a.C.; m. 0,21; Berlino, Musei di Stato. Anche questo volto, che appare quasi fasciato da un velo, può essere confrontato con quelli visti finora. Abbiamo gli stessi occhi e gli stessi delicati passaggi di piano, ma il modellato delle guance è più morbido. Questo ci consente di datarlo ad un periodo più recente (520 a.C.). Interessanti da notare sono alcune imprecisioni formali come il taglio della bocca e la decisa asimmetria degli occhi.
Per il momento abbiamo analizzato solamente i volti di opere scultoree rappresentati ovviamente di fronte. Ma se consideriamo anche i volti rappresentati di profilo, che si trovano soprattutto sulle ceramiche e quindi per la maggior parte dipinti, notiamo anche qui delle interessanti analogie.
177. Oinochoe rodia da Cokkala; 600-590 a.C.; Rodi, Museo. I volti dell'oinochoe di Rodi ci riportano una formulazione tipica del mondo orientale, quale possiamo incontrare in piccoli vasi plastici da profumo (n. 179) che vengono assegnati a Rodi stessa o a Samo. Come nei vasi plastici il viso dai capelli lisci e aderenti alle tempie e al collo, con grandi occhia a mandorla e naso allungato, sembra creato piuttosto per la veduta laterale che per quella di fronte. Nel caso presente è singolare la presenza sull'altro lato del vaso di un volto maschile sostanzialmente identico nella struttura e nei lunghi capelli, a parte la rappresentazione di piccoli baffi per che sembrano una mera aggiunta a posteriori.
179. Vaso plastico con testa femminile; 600-590 a.C.; Musei Vaticani. Di questi piccoli vasi per profumi è stata assai larga l'esportazione da un centro di origine che si è presunto possa collocarsi a Rodi o a Samo in tutti i paesi del Mediterraneo per più di una generazione. Il piccolo busto femminile ha capelli lisci e ben aderenti al capo, naso allungato e grandi occhi a mandorla con una veduta di lato più importante di quella di fronte.
195. Frammento di affresco da Gordion; 550 a.C. Documenti sempre più frequenti e sensazionali di pittura antica sono riemersi in questi ultimi anni in Asia Minore. Anche dalla capitale del re Mida, in Frigia, assai meno profondamente ellenizzata della Lidia, sono stati restituiti preziosi frammenti di affreschi. Questo presenta due volti di donne affrontati, con un'acconciatura che non è tipicamente ellenica, ma con un caratteristico profilo greco-orientale.
178. Rilievo fittile di Sardis; 550 a.C.; Manisa, Museo. Questo volto maschile con barba tagliata alla maniera greca-arcaica, senza baffi, e con orecchino, presenta caratteristiche assai simili a quelle dei volti visti precedentemente: ad esempio la sopracciglia resa con una semplice linea di colore.
Durante il VI secolo si sviluppa un tipo particolare di edificio che trova, nei santuari, manifestazioni importanti: il thesauros. Per thesauros si intende un piccolo edificio (profondo generalmente meno di 10 metri) dedicato nei santuari, nei quali le ricche città del mondo antico deponevano i propri doni votivi più preziosi. Il thesauros ha generalmente forma di un tempio in antis; le sue, dimensioni, modeste, si prestano ad esercitare opere decorative particolarmente notevoli. Edifici di particolare prestigio, essi erano spesso costruiti con il materiale più ricco o più significativo della città che li dedicava: affinché fossero quasi saggi propagandistici delle poleis e delle capacità delle loro maestranze.
é ovvio che i thesauroi abbiano particolare fortuna nei santuari panellenici: a Delfi e ad Olimpia. Quelli di Delfi si affollano lungo la via sacra, ai piedi del tempio di Apollo, inframezzati dai molteplici doni votivi esposti nel santuario. Tra i thesauroi di Delfi, dobbiamo ricordare quello splendido dei Sifni che sorgeva alla fine della prima rampa della via sacra, sulla sinistra di chi sale (f 7). Erodoto racconta che venne costruito su richiesta di Apollo, utilizzando la decima della rendita delle miniere d'oro dell'isola, grazie alle quali Sifno godeva di straordinaria ricchezza. L'elegante edificio in stile ionico, realizzato attorno al 525 a.C., era costruito in marmo di Paro e sulla fronte, al posto delle colonne, aveva due Cariatidi che sorreggevano l'architrave e il frontone, dove era rappresentata la scena della disputa tra Apollo ed Eracle per il possesso del tripode. Tutt'intorno al monumento correva un fregio continuo, alla moda ionica, con rappresentazioni di scene mitologiche, che rimane una delle più alte testimonianze dell'arte arcaica. Sono riconoscibili la lotta tra gli dei e i Giganti sul lato nord, una scena di combattimento tra Greci e Troiani e un concilio di dei a est, a sud il ratto dei Leuccipidi da parte dei Dioscuri e a ovest il giudizio di Paride. Le figure erano in origine colorate e alcune parti, soprattutto le armi, erano realizzate in bronzo; gli studiosi hanno riconosciuto la presenza di due artisti o gruppi di artisti.
207. Tesoro dei Sifni: Frontone, Fregio con Gigantomachia, Fregio del lato est; 525 a.C.
Frontone. Il frontone raffigura la lotta tra Eracle ed Apollo che si contendono un tripode. Irritato, perché la Pizia, ritenendolo sacrilego per l'uccisione di un ospite, non aveva voluto rivelargli il modo di liberarsi dagli incubi che lo tormentavano in seguito all'accaduto, Eracle asportò dal santuario di Apollo a Delfi il tripode sacro al dio. Apollo allora scese in campo per affrontare l'eroe: venuti allo scontro, il figlio divino e quello terrestre di Zeus poterono essere separati solo da un fulmine scagliato tra loro dal padre che restituì il tripode ad Apollo. E proprio Zeus sembra dominare la scena, se riteniamo che la grande figura al centro del frontone tra Eracle (alla nostra destra) e Apollo (alla nostra sinistra), sia da identificarsi con lui, con il signore dell'Olimpo. Alcuni però pensano che si tratti di Atena per la veste leggera di tipo orientale. Ai lati abbiamo figure femminili e i carri dei due contendenti. Queste sculture sono state attribuite allo scultore più anziano e meno innovatore a causa dell'aspetto massiccio delle figure. C'è però da parte la sua la volontà di rendere alcune vesti, come la corta tunica di Apollo, in movimento, attraverso delle pieghe oblique. Si tratta però, di un esperimento che non va oltre quello attuato dallo scultore della colonna scolpita del Didimaion (n. 169).
Fregio con Gigantomachia. Per stabilire il proprio dominio sul cosmo, dopo i Titani, gli dei furono costretti a combattere contro i Giganti, figli di Gea, la Terra. Nel particolare presentato abbiamo Apollo ed Artemis che combattono affiancati, senza accavallarsi, contro un gigante che porta come cimiero un kantharos (da cui prende il nome) e che fugge dinanzi ai leoni del carro, che in passato credevamo di Cibele ma che oggi, grazie a tecniche sofisticate che permettono di leggere iscrizioni dipinte, sappiamo essere di una divinità locale, Hyulia. Il gigante in fuga, presentato come in una pausa, ci offre il più antico esempio di panneggio ventilato che ci sia giunto nella plastica. I vincitori, gli dei, muovono da sinistra verso destra: è questa generalmente per gli antichi la direzione della vittoria, forse perché permetteva di rappresentare l'assalitore vittorioso non coperto dallo scudo. La tensione drammatica dell'evento è evidenziata da diversi elementi: dal leone che azzanna un gigante, dalla fuga del gigante Katharos già commentata e dal gigante morente disteso a terra. Il modellato non è particolarmente alto, ma ha un notevole rigore plastico con ampie superfici e ricchi panneggi che si palesano soprattutto nei gonnellini dei giganti, di cui si conservano i nomi. Sullo scudo del gigante all'estrema destra è un'iscrizione che ci conferma che uno stesso artista ha realizzato sia questo fregio che quello del lato posteriore.
Fregio del lato est (posteriore). Su questo fregio abbiamo due scene diverse ma complementari: un combattimento di eroi omerici (f 12 b) e un concilio degli dei (f 12 a). Nella guerra tra Greci e Troiani devono infatti scontrarsi i figli di due divinità: Achille, figlio di Teti e Memno, figlio di Eos (Aurora), che ha guidato gli Etiopi in aiuto dei Troiani. Hermes (o Zeus?), durante il combattimento, pesa sulle bilance i destini dei due eroi, e alla fine il piatto sui cui è il fato di Memno si abbassa. Il verdetto è quindi fatale a Memno, ma sembra che Eos, dopo tanti lamenti, riesca a farsi promettere da Zeus di concedergli l'immortalità. Nell'altra scena, il combattimento tra i due eroi si svolge sul corpo di un greco ucciso per mano di Memno, analogamente alla lotta tra gli dei e i giganti. L'episodio non è narrato nell'Iliade ma in un poema quasi interamente perduto, Le etiopiche, scritto da Artino. La composizione è ricca e articolata: ai lati di Achille e Memno vi sono i loro rispettivi carri che non veniva utilizzati per combattere ma per trasportarli sul luogo del combattimento.
206. Cariatide di Sifno; 525 a.C.; Delfi, Museo. Il Tesoro dei Sifni è un tempio in antis, in cui alle colonne del prònao, sono sostituite (come talvolta accade nell'ordine ionico) due raffinate figure femminili, dette cariatidi. Dare a delle opere sculturee una funzione prettamente architettonica non era un cosa molto semplice. Queste korai hanno un aspetto tipico del periodo: mantello drappeggiato obliquamente, ricadute di pieghe, lunghi riccioli che scendono sul petto e sulla fronte ecc. Sopra la testa è un copricapo cilindrico decorato con figurine a rilievo;
205. Testa di cariatide ex-cnidia; 540-530 a.C.; Delfi, Museo. Le cariatidi del Tesoro dei Sifni non sono le più antiche. A Delfi è stata trovata la testa di una cariatide, in passato attribuita al Tesoro di Cnido, ma probabilmente appartenente ad un edificio non ancora individuato, assai simile ma con occhi più allungati e zigomi più rilevati che dimostrano una maggiore antichità.
Una produzione vascolare importante nel mondo greco-orientale inizia, come nel continente, nel periodo geometrico (10). Più interessanti però sono i vasi della fine del VII e degli inizi del VI secolo a.C. che risentono dell'influsso orientalizzante, rinvenuti in varie località tra cui le più importanti sono: Tera, Samo, Rodi, Creta, Chio, Paro, Milo, Clazomene, Naucrati ecc. Questi vasi, che una volta erano chiamati rodii o camiresi ma che oggi vengono detti 'del capro selvatico', in quanto decorati soprattutto con file di capre selvatiche oltre che di cervi, tori, uccelli e talvolta sfingi in vernice marrone scuro su sfondo bianco avorio, comprendono per lo più brocche, coppe e piatti (60, 75, 76). Le figure sono disegnate sia a contorno sia a silhouette, senza particolari interni incisi, ma con ritocchi in colori accessori. I motivi ornamentali floreali sembrano derivare dal repertorio figurativo orientale anche se vengono realizzati in maniera diversi a quelli della ceramica corinzia.
75. Oinochoe rodia Lèvy; 620-600 a.C.; Parigi, Louvre. L'oinochoe rappresenta una delle espressioni più sontuose della classe del capro selvatico. In essa i motivi normali appaiono raddoppiati, a partire dalle trecce triplicamente concatenate sul collo, sino ai sei fregi di animali. Di questi i cinque inferiori con serie di capri e daini picchiettati pascenti tutti verso destra, non rappresentano alcuno sforzo di fantasia. Gli animali sono praticamente identici, a parte un calcolato crescendo di dimensioni sino alla fascia più in alto. Sulla spalla invece abbiamo, come di consueto, una fascia più liberamente articolata, con un centro rappresentato da un raffinato intreccio floreale, affiancato da oche, grifi e sfingi. Ovunque fitti riempitivi di rosette, svastiche e altri elementi decorativi.
Negli esemplari più tardi databili alla seconda metà del secolo VI a.C. (che sogliono indicarsi col nome di Fikellura dal cimitero di Rodi in cui molti di essi furono rinvenuti) i motivi decorativi caratteristici sono la rete, le squame e le lunette (163, 164).
163. Stamnos del tipo Fikellura; 550 a.C.; Rodi, Museo. Lo stamnos di Rodi ha, come decorazione principale, un fregio di pernici tutte rivolte a destra trannne quella centrale, a sinistra. Il motivo assai comune in questa ceramica delle lunette in zone in direzione a contrasto, produce invece curiosi effetti ottici di elastico ampliamento.
164. Frammento di anfora di Fikellura; 550-525 a.C.; Oxford. é utile porre a confronto questa interpretazione ionica del favoloso re d'Egitto Busiris, il nemico di Herakles, con un frammento attico raffigurante lo stesso personaggio (165). A parte i particolare non resi a graffito come nel frammento attico, nel frammento di Fikellura possiamo rilevare l'aspetto orientale accentuato dal contorno più rotondo e nel doppio mento. Al contrario il serpente arricciato sul capo appare trattato con maggior realismo.
Sebbene siano in certo qual modo imparentati coi vasi di Rodi siamo soliti considerare a parte un gruppo di vasi con grandi figure monumentali che rimandano in qualche modo allo stile protoattico, il più bello dei quali è un piatto, ora al British Museum, con la raffigurazione del combattimento di Ettore e Menelao sul cadavere di Euforbo (78. Piatto rodio di Euforbo; 600 a.C.; Londra, British Museum). Su un altro piatto, sempre al British Museum, è raffigurata una gorgone in aspetto di Potnia, dominatrice della natura (77. Piatto rodio. La Gorgone come Potnia; 600 a.C.; Londra, British Museum)
I vasi plastici a forma di testa di guerriero con elmo, di donna, di mostro (67. Oinochoe con bocca a testa di grifo; 650 a.C.; Londra, British Museum) o di animale sono forse di produzione rodia, in ogni caso greco-orientale.
Vi sono poi delle repliche greco-orientali delle coppe attiche 'dei maestri miniaturisti' quasi tutti decorate con cerchi concentrici nella parte interna, con l'unica eccezione di una kylix del Louvre (circa 550 a.C.) in cui vi è una composizione più ambiziosa costituita da un cacciatore di nidi su un albero.
166. Coppa ionica con cacciatore di nidi; 550 a.C.; Parigi, Louvre. Interessante di questa coppa è la raffigurazione interna: nel grande tondo un piccolo uomo che, tra un folto intrico di rami e di foglie, apparentemente cerca nidi, è come visto dall'alto in una visione prospettica del tutto nuova.
Anfore e idrie, alcune di grandi dimensioni (superiori al metro di altezza), sono state rinvenute nell'isola di Milo, dipinte con motivi floreali, busti femminili, scene figurate talvolta isolate in riquadri e realizzate in parte con una linea di contorno, in parte come silhouettes, con uno stile vigoroso ed esuberante analogo a quello dei vasi protoattici. Due magnifici esemplari, l'uno (69. Anfora di Melos; 650 a.C.; Atene, Museo Nazionale) della metà, l'altro (70. Anfora di Melos; 610-600 a.C.; Atene, Museo Nazionale) del terzo quarto del VII secolo a.C., sono conservati al Museo di Atene. Sul primo è dipinto Apollo su una quadriga ed Artemide con un cervo, nel secondo vi è il commiato di Eracle della sposa Deianira; nelle due rappresentazioni è molto evidente l'evoluzione dello stile, specialmente nella resa dei cavalli.
La cosiddetta ceramica di Naucrati o di Chio è un attraente prodotto greco-orientale, in circolazione dalla fine del VII alla metà del VI secolo a.C.; i migliori esemplari hanno il fondo bianco latte su cui la decorazione è dipinta in rosso cupo, varie gradazioni di marrone e bianco, senza uso di incisioni; in questa classe sono comuni le coppe foggiate a calice e il disegno è a contorno o a silhouette (202, 203, 204. Frammento di calice chiotico da Naukratis; 575-550 a.C.; Londra, British Museum).
202. Calice chiotico; 600-590 a.C.; Parigi, Louvre. Nel calice del Louvre domina un'unica figura: quella di un leone ruggente a fauci spalancate. I particolari non sono resi a graffito ma in colori diversi.
Tra le isole dell'Egeo importanti dal punto di vista della storia dell'arte arcaica, è Samo. Questa non è un'isola rocciosa come Delo, ma possiede campagne verdi molto fertili. In antichità era famosa per il santuario della dea Hera, il cosiddetto Heraion di Samo, dove sono state trovate molte sculture scolpite in marmo di Paro o di Nasso. Queste possiedono uno stile proprio particolarmente raffinato, in quanto qui si forma un'importante classe artigianale, e talvolta presentano dimensioni colossali (dai 3 ai 5 m). Il gigantismo, che in Attica aveva caratterizzato il solo passaggio dall'età dedalica all'arcaismo, è infatti una caratteristica propria dell'arte samia documentata anche oltre l'età arcaica.
La produzione scultorea samia inizia già alla metà del VII secolo a.C. Essa è documentata, all'inizio, da quattro statue di korai, tre delle quali provenienti dall'Heraion, databili tra il 650 e il 575 a.C. Due di esse, dall'Heraion, mostrano l'assimilazione dei caratteri cicladici della Nikandre di Nasso. La Nikandre deve avere definito un tipo statuario che ha trovato larga fortuna per un periodo abbastanza lungo: questo fenomeno dimostra l'egemonia formale cicladica nella Grecia orientale. Il periodo di transizione tra lo stile dedalico e quello arcaico è testimoniato da un piccolo kouros in piombo conservato al Museo Archeologico di Firenze.
59. Kouros in piombo; 590-570 a.C.; m. 0,11; Firenze, Museo Archeologico. Il piccolo kouros, di probabile origine samia, presenta evidenti temi dedalici: perfetta frontalità, volto squadrato, calotta cranica schiacciata, fronte bassa, capelli ' a ripiani' che cadono in una massa compatta. Tuttavia vi sono anche alcuni elementi di novità, tipici dello stile ionico e cioè le proporzioni allungate della figura (le figure dedaliche sono solitamente più massicce) e il rilievo dato ai pettorali.
La fortuna della scuola artistica di Samo si manifesta, in particolare tra il 570 e il 520 a.C.: le personalità ricordate dalle fonti trovano un equivalente nella fenomenale produzione artistica dell'isola durante quel cinquantennio. Tra le prime opere è un kouros di dimensioni colossali, originariamente doveva essere alto circa 3,30 m, proveniente dall'Heraion e databile al 570 a.C. Purtroppo di esso rimangono solo la parte superiore di una gamba, alcuni frammenti dell'addome e del torso; la testa è conservata nel museo di Istanbul.
147. Kouros; 570 a.C.; dim. presumibili 3,30 m; Samo; Istanbul: Una delle ricomposizioni più sbalorditive degli ultimi tempi ha ricondotto la famosissima testa di Istanbul - detta da Rodi e generalmente ritenuta femminile - sulle spalle di un colossale e assai frammentario kouros di Samo. Non è agevole, vista anche la considerevole frammentarietà della statua, osare un giudizio definitivo. Per Paribeni è comunque da notare l'opposizione fra la dolcissima testa, con profilo delineato da una morbida linea obliqua che dalla nuca arriva al mento, e la struttura ampia e squadrata del torso e delle gambe potenti del torso.
Di recente è stato rinvenuto un kouros monumentale (f 3. Kouros di Isches; 570-560 a.C.; alt. 5.5 mt; Samo, Museo Archeologico), alto in origine circa 5 m, conservato quasi integralmente (manca soltanto la parte inferiore delle gambe; la testa è stata scoperta nel 1984; la superficie del marmo è pressoché intatta). Sulla coscia sinistra è incisa la dedica di un Isches. Si data al 570-560 a.C.
Attorno al 560 a.C. la cultura formale di Samo e del santuario è rivoluzionata dalla prima dedica da parte di un certo Cheramyes: dedica che sarà un modello da imitare per ogni scultore successivo.ha dedicato, in più riprese, opere notevolissime nell'Heraion. La prima è un agalma offerto ad Hera, scoperto nel 1875, attualmente al Louvre. Alto m 1,92, è purtroppo privo della testa: fortemente abraso il braccio sinistro portato al seno.
145. Statua di Hera di Cheramyes; 560 a.C.; m. 1,92; marmo delle isole; Parigi, Louvre. La statua è stata rinvenuta a Samo e possiede una dedica di Cheramyes ad Hera. La figura indossa tre tipi di vesti. La prima è un chitone di lino cinto alla vita che scende fino ai piedi e forma un complesso sistema di pieghe minute, parallele e schiacciate (ossia non ben rese plasticamente) che si rovesciano a terra come l'acqua di una fontana. La seconda è un mantello (himation) che copre le spalle e che forma pieghe oblique, più larghe rispetto a quelle del chitone, ma sempre molto schiacciate. La terza è un lembo, appuntato alla vita che, partendo dalla parte anteriore della gamba sinistra, ruota sino alla parte posteriore della gamba destra. Il braccio destro scende lungo il fianco mentre quello sinistro è portato al petto per mostrare l'offerta che è andata perduta. Il fatto che la parte inferiore del corpo sia rappresentata semplicemente in maniera cilindrica come una colonna e che i piedi emergano dalla veste in una maniera un po' ingenua, 'primitiva', ha fatto pensare in passato che si trattasse di un'opera appartenente al primo quarto del VI sec. a.C. Oggi invece si ritiene che l'artista abbia deliberatamente voluto semplificare la struttura utilizzando un volume cilindrico, in modo da ottenere un modellato fluido, senza cesure e senza ombre, tipico della scultura greco-orientale. Per questo si pensa che quest'opera appartenga ad un periodo più recente (560 a.C.).
Una seconda dedica di Cheramyes è incisa su una seconda statua, databile anch'essa al 560 a.C., priva, come l'altra, della testa. La figura dipende tipologicamente dalla prima, ma è di dimensioni minori: alt. m 1,67. Scoperta in epoca imprecisata nell'Heraion, si conserva nei Musei di Berlino. Un leprotto è offerto dalla figura, forse ad Afrodite.
146. Afrodite di Cheramyes; 560 a.C.; m. 1,67; Berlino, Museo di Pergamo. La seconda statua dedicata da Cheramyes è definita nell'iscrizione come un dono di particolare bellezza, un agalma. Queste parole ci chiariscono il senso delle donazioni. Si sperava di ottenere il favore della divinità non con un'immagine dai tratti individuali, ma con una forma fisica perfetta e quindi bella. L'abbigliamento è simile a quello della kore precedente, così come l'atteggiamento: un braccio scende lungo il fianco l'altro è portato al petto per mostrare un offerta, un leprotto. Non si sa se si tratti di Afrodite o di una semplice devota.
Un kouros colossale fu offerto, sempre nell'Heraion, attorno al 550 a.C. dallo stesso Cheramyes. Di esso rimangono due frammenti di una gamba con alcune lettere che hanno permesso di ricostruire l'iscrizione, in cui ancora una volta si specifica che si tratta di un agalma. La scultura, in marmo per essere esposta all'aperto o nel santuario, in quanto immagine del corpo umano è infatti cosa bella, sia che rappresenti la divinità, sia che rappresenti il devoto o la devota.
I rinvenimenti nell'Heraion hanno permesso di riconoscere anche gruppi di più figure, giustapposte o complementari, il più importante dei quali (rappresenta un'intera famiglia ed è databile tra il 560 e il 550 a.C.) è realizzzazione di uno dei primi scultori le cui opere siano riconoscibili: Gheneleos. Il gruppo si trovava a poca distanza dal tempio, sul lato settentrionale della via sacra. Esso posava su un basamento di calcare ed era composto da sei figure tra cui: una figura femminile seduta su un trono, Phileia; un kouros stante, vestito; una kore stante; una, simile nell'iconografia: Philippe; un'altra, simile Ornithe; la statua sdraiata del dedicante Ilarches. Il gruppo rappresenta, quasi come in una foto ricordo, l'intera famiglia: la madre seduta, Phileia; un figlio ancora giovanetto; tre figlie, delle quali conosciamo solo i nomi di Philippe e di Ornithe; il padre sdraiato, Ilarches, che reca la dedica a Hera ed è quindi il dedicante.
Malgrado lo stato di conservazione: di Phileia manca la parte superiore, del kouros rimane solo il piede sinistro, della prima kore restano pochi frammenti, la Philippe è acefala, così la Ornithe, così Ilarches; malgrado la dispersione delle figure: la Ornithe è nei Musei di Berlino, le altre figure a Samo, il gruppo ha un'importanza eccezionale.
Ma bisogna chiarire un equivoco. Le figure, grandi poco più del vero, sono in realtà giustapposte: non si tratta di un gruppo ma semplicemente di statue affiancate.
Qui presentiamo le statue di Philippe (148) e quella di Ilarches (149).
148. Statua di Philippe; 560-550 a.C.; m. 1,60; Samo, Museo. Il confronto con le statue di Cheramyes è d'obbligo. Innanzitutto la posizione delle braccia è diversa: nelle statue di Cheramyes il braccio sinistro è portato al petto per mostrare l'offerta, qui entrambe le braccia scendono lungo i fianchi e la mano destra afferra la veste provocando delle pieghe arcuate. In secondo luogo le vesti nelle statue di Cheramyes sono tre mentre nella statua di Philippe sono solamente due. Inoltre, il sistema delle pieghe è meno articolato nella statua di Philippe.
149. Statua di banchettante; 560-550 a.C.; m. 0,76; Samo, Museo. La figura all'estrema destra del donario è quella di un banchettante semi-sdraiato su di un materasso con il gomito sinistro appoggiato sopra un otre di cuoio per il vino. Secondo Paribeni si tratta di un'anziana donna per l'emergenza dei seni, ma questa ipotesi non è accettabile per due motivi: a) alle donne solitamente non era permesso banchettare; b) recentemente sul materasso è stato letto il nome Ilarches evidentemente maschile. Si tratta quindi della raffigurazione di un uomo pingue, così si spiega l'emergenza dei seni, molto diffusa nell'ambiente greco-orientale. Nella mano sinistra l'uomo tiene un oggetto che in passato è stato identificato con un uccellino ma che oggi si ritiene sia un corno per bere.
Per comprendere il linguaggio formale della figura banchettante di questo periodo possiamo considerare i due bronzetti seguenti.
150. Statua di banchettante; 550-540 a.C.; bronzo; Samo, Museo. La piccola figura è concepita come un blocco unitario da cui emergono la testa, le mani e i piedi. O meglio, piuttosto che emergere si può dire che si differenziano dal corpo completamente avvolto nella tunica e nel mantello. Nella mano sinistra appoggiata al petto regge un corno per bere. Figure di questo genere si incontrano spesso sui bordi di tripodi o di lebeti. Anche qui notiamo la preferenza per volumi ampi tipica dell'arte greco-orientale.
151. Statuetta di banchettante da Dodona; 540-530 a.C.; m. 0,11; bronzo; Londra, British Museum. In opposizione al banchettante ionico di Samo, la figurina di Dodona, con ogni probabilità corinzia, offre brusche sporgenze ed angoli. Il gesto del braccio destro appoggiato sul ginocchio fa apprezzare il tratto vuoto così come sembra valorizzare l'impostazione ad angolo della gamba destra sollevata. Il lungo collo e il potente rilievo delle clavicole separano la testa in cui tutti i lineamenti appaiono acutamente sottolineati.
La scultura samia presenta una casistica iconografica estremamente varia. Un tipo iconografico particolare documentato a Samo è quello della statua maschile vestita che trova in un esemplare, a grandezza lievemente maggiore del naturale, la manifestazione più caratteristica. Si tratta di una figura che indossa un chitone manicato e himation, rappresentata in atto di camminare. La testa è sferoidale, i capelli prolissi; la veste si articola con notevole impegno decorativo sul corpo.
156. Kouros drappeggiato da Samo; 550 a.C.; m. 1,79; Samo, Museo. é uno degli esemplari più completi della classe non numerosa dei kouroi vestiti che si incontrano in territorio ionico, in Asia Minore e sulle Coste del Mar Nero. é vestito con una corta tunica ed un mantello che lascia libera la spalla destra e ricade verticalmente dalla parte sinistra coprendo la spalla. Interessanti sono le pieghe dei vestiti che, essendo schiacciate, hanno scarso rilievo plastico. Le gambe sono allungate, come è tipico dello stile greco-orientale. Il collo è breve: la testa sembra quasi attaccata alle spalle. Il torso è grosso: la rappresentazione di uomini bene in carne è un'altra caratteristica tipica dello stile greco-orientale. Notevolissimo, seppur isolato, è il torso di guerriero (o forse di Ares) completato dalla testa con il volto tutto serrato nell'elmo ionico, databile attorno al 550 a.C. Probabilmente si tratta di un ex-voto dedicato da un guerriero.
160. 'Ares' da Samo; 550 a.C.; m. 0,86; Berlino, Musei di Stato. Questa straordinaria scultura raffigura un guerriero, forse Ares o forse il dedicante, chiuso in armi ornatissime, con il volto appena apparente dai pertugi dell'elmo ionico, e una immensa chioma aperta sul dorso. Poiché tutte le statuette in bronzo di guerrieri vengono generalmente riportate a Sparta, e considerando che anche un piccolo guerriero in bronzo dell'Heraion viene considerato laconico, resta da definire se sia possibile considerare anche questo marmo come un documento dell'enorme influenza di Sparta a Samo. In realtà, se la grande chioma sfrangiata sul dorso e il volto chiuso e amaro possono sembrare elementi laconici, l'elmo e il pettorale ornati a grandi girali ricordano piuttosto guerrieri di ceramiche greco-orientali.
A questo punto è dunque istruttivo confrontare questa figura con due bronzetti di guerrieri attribuibili a botteghe spartane.
250. Statuetta di guerriero da Longa; 540-530 a.C.; m. 0,15; Atene, Museo Nazionale. La statuetta proviene dal tempio di Apollo a Longa, in Messenia. I Messeni erano i vicini occidentali degli Spartani e questo gravò molto sulla loro storia: infatti contro di essi, spesso combatterono uscendone sconfitti. Questo bronzetto è una prova dell'influenza spartana sul mondo messenico: l'espressione amara della bocca diritta e degli occhi a mandorla, le cesure nette dei pettorali e dell'arcata epigastrica lo attribuiscono a botteghe laconiche. Non siamo in grado di sapere se il personaggio raffigurato sia il dio Apollo o il dedicante.
251. Guerriero di Dodona; 530 a.C.; m. 0, 16; Berlino, Musei di Stato. Il piccolo basamento su cui la statuetta è impostata indica che questa era applicata ad un grande vaso. Il guerriero, a differenza del precedente, è in posizione di attacco. Presenta forme massicce e un modellato duro e scandito tipici dell'arte peloponnisiaca. Viene attribuito ad artigiani spartani.
Nell'ultimo trentennio del secolo VI, alcune figurette da sostegno mostrano, specialmente nel trattamento del volto e dei capelli, una modernità e un potenziale decorativo ancora inediti. Con un kouros alto m 0,28 a Berlino, la piccola bronzistica samia raggiunge punte inaspettate: in particolare per la resa del volto e dei capelli riccamente acconciati della figura.
157. Statuetta di kouros; 530 a.C.; m. 0,28; Berlino, Musei di Stato. Il piccolo bronzo è uno dei documenti più significativi per la scultura samia della seconda metà del VI sec. a.C. La struttura è tenerissima, tutta in transizioni fluide e scorrevoli, senza mai un arresto o una cesura. Si noti il contorno arrotondato delle spalle e la molle carnosità dei pettorali che emergono come masse imprecise, non circoscritte. Importantissima è anche la disposizione della chioma che scende dalla fronte in due brevi 'ali di colombo' a gravare di ombre la fronte e le tempie. Le braccia sollevate doveva tenere qualche oggetto, probabilmente un'offerta. La lavorazione sotto i piedi dimostra che si tratta di una statuetta decorativa, applicata forse ad un vaso.
158. Statuetta bronzea di kouros; 530 a.C.; m. 0,16; Samo, Museo. La piccola figura doveva far parte di un tripode o di un altro complesso arnese bronzeo. Anche qui i passaggi di piano non sono scanditi, caratteristica tipica dell'arte ionica. L'artista, come quello dell'opera precedente, si sofferma essenzialmente sulla realizzazione del volto e dei capelli.
159. Statuetta femminile egittizzante; 530 a.C.; Samo, Museo. La piccola statua bronzea mette in evidenza l'esistenza di scambi tra la Ionia e l'Egitto. La statuetta può dirsi infatti un'interpretazione ellenica di un tipo iconografico egizio, l'immagine mummia, l'Ushatbi che s'incontra a centinaia di esemplari in ogni tomba egizia. Infatti se la concezione dell'immagine come un blocco unico è tipicamente egizia, il gesto della mano destra che solleva la veste e il sorriso 'arcaico' sono elementi peculiari dell'arte greca. Un'immagine come questa indica quindi lo spirito da parte greca di libera accettazione di formule straniere adattate e trasformate dal genio ellenico.
Nell'evoluzione della scultura greca, l'ornamento dei frontoni per mezzo di rilievi e figure a tutto tondo svolse un ruolo fondamentale. Era un'arte che richiedeva tutta l'abilità e la genialità degli scultori, dato che la forma triangolare dei frontoni poneva il problema della rastremazione dal centro ai lati. Le estremità dovevano dunque venire occupate da figure rannicchiate o sdraiate. Inizialmente gli artisti quasi ignoravano gli angoli acuti dei frontoni concentrando ogni sforzo sull'area centrale. Per esempio una Gorgone appariva in questa posizione centrale nel frontone del tempio di Artemide a Corfù, mentre relegate negli angoli molto più in piccolo altre scene che non avevano alcun collegamento fra loro: a sinistra un particolare della presa di Troia, a destra una gigantomachia (f 1). Di questo tipo era comunque la soluzione adottata da gran parte degli artisti dell'epoca, fino a che si affermò l'esigenza di racchiudere nello spazio frontonale un solo racconto, con protagonisti raffigurati in scala unica. Vi si giunse in modo soddisfacente, e a forza di tentativi, solo alla fine del secolo.
I frontoni del tempio di Athena Aphaia a Egina esprimono chiaramente questa nuova soluzione. Sono giunti sino a noi i resti di due frontoni orientali: il secondo frontone (ca. 490-480 a.C.) sostituì il primo che si era danneggiato poco dopo la sua costruzione.
Eseguiti in marmo, che la ricca Egina (vicina alle cave di marmo di Paro) poteva permettersi, entrambi i frontoni rappresentavano scene di battaglia delle due guerre troiane. I rilievi orientali mostravano la spedizione di Herakles contro il padre di Priamo, Laomedonte, a cui prese parte l'eroe egineta Telamone; mentre il frontone occidentale (500-490 a.C.) ritraeva la campagna di Agamennone contro Priamo, nella quale il figlio di Telamone, Aiace, fu un eroico combattente.
In entrambe le scene la dea Athena stava al centro.
Nel frontone occidentale (f 11 b) alla destra ha Aiace, figlio di Telamone; alla sinistra un troiano che combatte con la lancia un greco (390 c). Seguono, sui due lati, due figure di arcieri: quello a destra di Athena è Paride (390 b), l'altro Teukros. Tra gli arcieri e i caduti un greco con la spada e un troiano con la lancia stanno atterrando due avversari.
Nel frontone orientale (f 20 a), anziché immobile come nel frontone occidentale, Athena partecipa alla lotta e rivolge l'egida contro un troiano, forse Priamo. Alla destra della dea è Telamone. Un greco soccorre chi cade sotto i colpi di Priamo, un troiano chi sotto i colpi di Telamone. Seguono due arcieri: Herakles (390 a) e un troiano che saettano verso l'interno (a differenza dei due arcieri del frontone occidentale).
Il più tardo dei due frontoni orientali - anche tenendo conto degli errori di restauro commessi dal Thorwaldsen - palesa una tendenza al naturalismo e rivela il processo evolutivo in corso durante questi momenti decisivi di transizione allo stile classico. Il sorriso arcaico viene ora abbandonato, le pose delle figure si fanno meno rigide e si pone l'attenzione agli elementi anatomici (si veda la figura di Herakles, in cui si evidenziano i tendini e le fasci muscolari delle gambe; 390 a) in quella ricerca verso il naturalismo che caratterizzerà tutto il successivo percorso dell'arte greca.