Nel Seicento si apre l'epoca dei grandi viaggi in Grecia, spesso compiuti per iniziativa dei collezionisti. L'amore delle collezioni, il desiderio di possedere oggetti rari e preziosi coglie nobili, alti prelati, banchieri e mercanti. Questa passione, segno di prestigio per i potenti e per i ricchi eruditi, non esprime soltanto il culto della bellezza e la smania di possedere l'oggetto prezioso, l'esemplare unico: le vestigia del passato cominciano ad essere viste come testimonianza storica e materiale di studio. Nell'Italia del Cinquecento le collezioni di "anticaglie" pullulano un po' ovunque; nel primo Seicento Thomas Howard, XXI conte di Arundel, imitato ben presto da re Carlo I Stuart e da Lord Buckingham, allestisce una ricca galleria. Diplomatico e dilettante d'arte, Thomas Howard merita di andare a cercare sculture e iscrizioni in Grecia. Di lui si dice, non senza ironia, che voglia trapiantare l'antica Grecia in Inghilterra: mette su una rete di agenti, li sguinzaglia alla caccia di antichità e trasforma il suo palazzo e i suoi giardini in altrettanti musei, visitati assiduamente da curiosi e gentiluomini inglesi e stranieri.
Anche la Francia non è immune alla febbre dell'antico. Dopo Francesco I, notorio amante del bello, vengono a rafforzare la tendenza due regine italiane, Caterina e Maria de' Medici; poi giunge un altro italiano, il cardinale Mazarino; infine Luigi XIV e Colbert, che pensano di usare gli ambasciatori francesi a Costantinopoli per arricchire le loro biblioteche e collezioni. In particolare Luigi XIV organizza una missione con a capo il marchese di Nointel, Charles Olier (1635-1685) uomo brillante e curioso, nonché profondo conoscitore di antichità, che trascorre in viaggio gran parte della sua carriera di ambasciatore (1670-1679). Nel corso di un suo tour in Oriente - inframezzato da una sosta nelle Cicladi (1673-74) - perlustra tutte le regioni che visita. Purtroppo Charles Olier è anche avido collezionista, con una mentalità di cacciatore di tesori: ovunque passi ramazza bassorilievi, stele ed epigrafi. Il 4 novembre 1674 entra in Atene con la sua equipe. Ottenuto il permesso di visitare l'Acropoli in quanto ambasciatore - privilegio davvero speciale in un'epoca di tregua armata tra Venezia e l'Impero ottomano - rimane sbalordito dinanzi allo splendore degli edifici e delle loro decorazioni: è il primo visitatore occidentale a giudicarli superiori ai monumenti romani. Il marchese di Nointel va perdonato dei suoi sacrileghi propositi - il suo intento era quello di portare tutto ciò che poteva nei "gabinetti e nelle gallerie di Sua Maestà" - in virtù dell'opera di primaria importanza, eseguita su suo ordine, dall'architetto Jacques Carrey: i disegni di duecento sculture dei frontoni, delle metope e dei fregi del Partenone quando questi erano ancora quasi intatti (551, 552, 553, 554). Essi costituiscono un documento importantissimo in quanto gran parte dei marmi del Partenone vennero distrutti nei bombardamenti del 1678.
Nell'ultimo trentennio del Seicento sorge così un movimento di ricerca che vede in prima fila i francesi. Oltre ai già citati disegni del Partenone, tra i lavori di grande valore documentario vanno annoverate la pianta di Atene, detta "dei cappuccini" (1670), e le relazioni dell'ecclesiastico Babin (1672). Questi missionari francesi inviati in terra ellenica, uomini di formazione intellettuale, esercitano un'influenza davvero positiva per la salvaguardia e lo studio dell'antichità. Visti con diffidenza dai turchi, gli stranieri non possono prendere rilievi, né disegnare ma i frati che abitavano vicino all'Acropoli, forti della loro posizione, elaborano la prima pianta generale di Atene, la più precisa e dettagliata dell'epoca. Qualche tempo dopo lo studioso Jacob Spon fa pubblicare la relazione di padre Babin, un gesuita missionario in Grecia. La sua descrizione coincide quasi interamente con la pianta dei cappuccini. Nel suo viaggio nella città di Pericle, Spon userà come guida proprio l'opera di Babin, integrata, naturalmente, da una copia dell'immancabile Pausania.
Il medico antiquario Jacob Spon occupa un posto di rilievo tra gli studiosi che hanno contribuito alla nascita dell'archeologia; anzi, è proprio lui a coniare questo termine, usandolo per la prima volta nella prefazione della sua raccolta epigrafica Miscellanea di erudizione antiquaria. Nel 1676, insieme al botanico inglese George Wheler, intraprende una lunga peregrinazione di otto mesi in Italia, in Asia Minore e in Grecia, con l'intento principale di scoprire e copiare iscrizioni ovunque passi. Durante questo viaggio i due sostano ad Atene per circa un mese, dove effettuano la prima vera esplorazione archeologica della storia. La città seicentesca non corrisponde più a quella di Pausania: ovunque abitazioni, chiese bizantine, moschee e rovine. Sull'Acropoli le casupole dei soldati si affollano tra i monumenti. La ricerca su un suolo occupato fino all'ultima spanna è quasi impossibile; poi bisogna fare i conti con l'occhiuta sorveglianza della guarnigione e con l'ostilità degli abitanti. Ciò malgrado i monumenti sono numerosi e piuttosto ben conservati. Spon tenta di attribuire a siti e monumenti il nome e le funzioni originari; ma commette gravi errori sul Partenone, invertendo frontoni, senza considerare che i templi hanno sempre l'ingresso ad oriente, e nega a Fidia la paternità delle sculture, collocandole in epoca adrianea. Un abbaglio destinato a durare fino all'Ottocento, quando i marmi del Partenone giungono a Londra. Ciò malgrado l'opera di Spon fa epoca: il Viaggio in Italia, in Dalmazia, in Grecia e nel Levante, pubblicato nel 1678, è tradotto in più lingue e fino all'età romantica detenne il ruolo di guida del viaggiatore istruito. Alla fama dell'opera non è estraneo il fatto che i suo autore è stato uno degli ultimi europei a vedere il Partenone, delle cui sculture aveva eseguito alcuni disegni, meno accurati di quelli del Carrey.
Il 26 settembre 1678, mentre i veneziani assediano Atene, una bomba cade sul tempio, trasformato dai turchi in polveriera, e lo riduce in rovine. Il doge Francesco Morosini, responsabile del bombardamento, desideroso di portare qualche trofeo a Venezia, ordinò di staccare il gruppo raffigurante i cavalli e il carro di Atena. Purtroppo, a causa di una manovra sbagliata, la scultura precipitò rovinosamente, fracassandosi sulle rocce sottostanti.
Tra il 1685 e il 1686 si reca in Grecia l'italiano Vincenzo Maria Coronelli, che disegna molti dei monumenti dei luoghi da lui visitati.
Nel Settecento cresce l'interesse per la Grecia e i viaggiatori affluiscono da ogni parte. Alle tradizionali categorie di visitatori vengono ad aggiungersi gli artisti e i giovani rampolli delle classi agiate che, una volta terminati gli studi, completano la loro istruzione con il periplo del Mediterraneo, il Grand Tour.
Ad aprire la via agli studi archeologici sono gli architetti, ora alla ricerca di nuovi punti di riferimento. L'impulso viene dall'Italia: la scoperta di Ercolano (1738) e di Pompei (1748), seguita da memorabili campagne di scavi, rinnova la conoscenza dell'antichità. Eruditi e artisti si trovano in diretto contatto con una civiltà profondamente influenzata dalla cultura greca classica ed ellenistica: le sculture sono spesso copie di originali greci, mentre gli affreschi appaiono ispirati alla pittura greca da cavalletto. Contemporaneamente inizia l'esplorazione dell'Italia a sud di Napoli (grazie alla costruzione di una strada voluta da Carlo di Borbone), fino ad allora esclusa dagli itinerari dei viaggiatori e degli studiosi: nel 1750 vengono riscoperti i templi di Paestum che insieme a quelli siciliani, in particolare quelli di Agrigento, rivalorizzati da Winckelmann, e quelli di Selinunte, rivelano l'architettura dorica che influenzerà molto l'opera di architetti, quali Giovan Battista Piranesi.
E in questo momento le ricerche si estendono alla Grecia. Nel frattempo, nelle sue mire espansionistiche verso sud, la Russia si era eretta a paladina dei Greci fomentando moti antiturchi. L'alleanza anglo-turca permette ai viaggiatori inglesi di sostituirsi in buona parte ai francesi nelle peregrinazioni in Grecia.
I primi a partire sono il pittore James Stuart e l'architetto Nicholas Revett. Entrambi curiosi di archeologia, vogliono identificare, misurare e disegnare le antichità ateniesi. La London Society of Dilettanti li finanzia, incaricandoli di raccogliere i moduli ornamentali a vantaggio degli architetti britannici. Fondata nel 1733 dal conte di Sandwich allo scopo di incoraggiare le belle arti, la società dei Dilettanti (dilettanti nel senso migliore della parola, cioè di amatori d'arte) è in origine poco più di un club mondano; poi viene ad assumere un carattere più serio e di lì a pochi anni conta fra i suoi membri i migliori esperti di arte antica: i nomi di Clarke, di Dodwell e di Cockerell sono connessi alle prime ricerche e alle prime spedizioni in Grecia, con Pausania alla mano, e in Asia Minore. Esercita un forte influsso sul gusto inglese, organizza spedizioni e finanzia la pubblicazione dei risultati (Stuart e Revett in Grecia, Revett e l'ellenista Chandler in Asia Minore).
Stuart e Revett iniziano il viaggio nel 1751 e soggiornano ad Atene per due anni (dal '51 al '53); quindi si inoltrano nell'arcipelago greco, dove effettuano numerosi rilievi. I frutti del loro lavoro sono copiosi: tracciano la pianta dell'Acropoli, disegnano e analizzano gli edifici con precisione e procedono perfino a scavi di verifica. Le loro fatiche vengono riassunte in una splendida opera corredata di carte ed incisioni, intitolata Antichità di Atene. Il primo tomo esce nel 1762, mentre la pubblicazione degli altri tomi va per le lunghe, e Stuart e Revett si vedono precedere da Julien David le Roy, architetto e borsista dell'Accademia di Francia a Roma. Il suo viaggio di studio in Grecia è posteriore a quello dei due inglesi (1755-56), ma già nel 1758, in tutta fretta e pieno di orgoglio, Le Roy pubblica le Rovine dei più antichi monumenti della Grecia. Per la prima volta il pubblico può vedere riprodotti i monumenti ellenici. Altra novità assoluta è lo studio del dorico greco, novità che appare tanto più pregevole in quanto l'architettura del Partenone è stata fin qui ritenuta di gran lunga inferiore alla sua decorazione scultorea. Tuttavia i disegni del Le Roy sono tutt'altro che esatti e lasciano largo spazio all'immaginazione. L'architetto appare influenzato dal gusto tipico di Piranesi della rovina pittoresca, tanto diffuso nel Settecento, simbolo di fuga dalla realtà. Gli artisti, desiderosi di creare un'atmosfera «romantica» si mostrano assai poco fedeli alla realtà del paesaggio greco e dei siti antichi.
Se la maggior parte dei viaggiatori che si recano in Grecia, in virtù dell'alleanza greco-turca, è inglese, tuttavia il monopolio del commercio antiquario sembra in mano ai francesi. Nel 1784 il conte di Choiseul-Goffier, ambasciatore presso la Sublime Porta, ha insediato ad Atene un suo agente, il pittore Fauvel. Con la Rivoluzione, Choiseul, fedele alla monarchia, prende la via dell'esilio, mentre Fauvel rimane in Grecia, costituisce un museo personale e giunge a controllare il mercato antiquario, al punto che gli stranieri non trovano niente da comprare.
Gli architetti non sono i soli a contribuire alla formazione della moderna scienza archeologica: nella stessa epoca il conte di Caylus e Johann Joachim Winckelmann servono in modo altrettanto efficace la sua causa. Ciascuno a suo modo, questi due grandi personaggi orientano la ricerca sulle antichità verso lo studio dell'arte; ed entrambi sono innamorati della Grecia, dove però né l'uno né l'altro riescono a recarsi.
Lo studio delle "antichità greco-romane" discende appunto da quella ricerca antiquaria di cui abbiamo parlato nel primo capitolo; se ne distacca, invece l'archeologia dell'arte che studia i monumenti non più come documenti illustrativi, ma come opere d'arte in se stesse e come documento di civiltà e di cultura. La nascita dell'archeologia in questo senso possiamo attribuirla a Johann Joachim Winckelmann. Il quale, venuto a Roma nel 1755 dalla nativa Sassonia prussiana con una conoscenza molto vasta della letteratura antica ed una notevole erudizione acquisita attraverso gli studi di antiquaria, non si limitò a questi, ma cercò di costruire una vera e propria storia dell'arte, che intitolò Storia delle arti del disegno presso gli antichi (1764). In questa opera egli si volgeva alla comprensione dell'opera d'arte in se stessa, diceva infatti di voler scoprire "l'essenza dell'arte" attraverso lo studio degli antichi. Il suo fine era dunque, soprattutto, di rintracciare supposte leggi che regolano la perfezione di un'opera d'arte e ne fanno un esempio di Bellezza: era, cioè, la ricerca di una Estetica assoluta, basata sulla supposta perfezione assoluta delle opere antiche, in specie quelle greche.
Occorre tener presente che per lo studio di un'opera artistica è indispensabile la ricostruzione della cronologia. Ovvero è indispensabile collocare un'opera in un determinato periodo storico. Dobbiamo vedere, ad esempio, se l'opera in questione è stata eseguita da un artista che si inserisce in una corrente determinata, o che sia in arretrato rispetto alla problematica del suo tempo o che addirittura anticipi nuove tendenze e nuovi gusti. La comprensione dell'opera d'arte ha inizio, dunque, proprio attraverso la fissazione della cronologia, la quale in campo antico offre grandi difficoltà data l'incertezza e la lacunosità delle tradizioni letterarie e si tratta, a volte, di oscillazioni di secoli.
Al tempo del Winckelmann l'arte antica si presentava come un ammasso di opere di scultura (la pittura stava venendo solo allora alla luce dai primi scavi di Ercolano), di statue frammentarie, di sarcofagi ornati di rilievi, trovati specialmente a Roma e, isolatamente, in altre città, senza che vi fosse un criterio di cronologia: erano, quelle opere d'arte, creazione «degli Antichi» senza distinzione fra i secoli della Grecia e i secoli di Roma. Occorreva dunque trovare un criterio per stabilire una cronologia. Le fonti antiche, specialmente Plinio nella sua Naturalis Historia, riferivano la cronologia dei maggiori artisti, ma il problema era ancor più complicato perché si può dire che il novantotto per cento delle statue trovate in Roma non erano originali, ma copie di età romana da originali greci perduti (cosa che il Winckelmann ancora non sapeva).
Il Winckelmann propose la ricostruzione della cronologia attraverso un criterio stilistico. Egli distinse quattro grandi periodi dell'arte greca che corrispondevano stili diversi:
1) «stile antico»
2) «stile sublime» o del periodo aureo, della massima fioritura (Fidia e successori, V-IV secolo a.C.);
3) «stile bello» (inizia da lPrassitele e culmina in Lisippo, seonda metà del IV secolo, ma comprende in realtà anche opere del periodo che poi sarà detto «ellenistico»
4) periodo «della decadenza» (I secolo a.C. ed età imperiale romana).
Oltre che stabilire questa divisione in quattro periodi dell'arte antica, il Winckelmann non trascurò il criterio di ricercare le notizie sulle opere d'arte nelle fonti letterarie, il cui valore per la ricostruzione dell'arte antica è innegabile non solo in quegli autori che, come Plinio e Pausania, hanno descritto ex professo opere d'arte, ma anche in quelli che dell'arte fanno solo riferimenti casuali. Ma l'elemento più nuovo ed importante nella ricerca del Winckelmann fu questo principio fondamentale: quello che deve importare allo studioso perché un'opera d'arte è l'intima essenza dell'opera d'arte ovvero perché un'opera d'arte è bella ed in che cosa consiste la sua bellezza, Winckelmann formulò una nuova dottrina estetica per lui l'arte era la rappresentazione della bellezza, una bellezza assoluta quindi universale, non soggetta al variare dei tempi, dei luoghi e delle mode.
Winckelmann pose l'arte greca su un piano di esemplarità come quella che aveva raggiunto la perfezione somma, quindi teorizzò la superiorità dell'arte greca classica dell'eta fidiaca rispetto a qualsiasi altra arte di qualsiasi altro tempo. Tutto ciò ha portato al sorgere e al perdurare di un concetto secondo cui la storia dell'arte antica abbia avuto uno svolgimento parabolico, che tocca il suo culmine nel periodo «aureo» con Fidia, per poi decadere. E di questo grandissimo Fidia, in realtà, non si conosceva nulla, esso era un'entità astratta magnificata dalle fonti letterarie soprattutto per due opere irrimediabilmente perdute, lo Zeus di Olimpia e la Athena del Partenone (vedi paragrafo "2. Fidia e il Partenone" in Archeologia greca).
Pur riconoscendo i grandi meriti del Winckelmann l'errore di questa costruzione parabolica e dell'identificazione di un determinato periodo dell'arte greca con l'assoluto dell'Arte, che finisce per sottrarre l'arte greca al suo processo storico e sostituirvi un «mito», fu avvertito assai presto, anche se, naturalmente, non dagli archeologi. Il primo ad avvertirlo fu Federico Schlegel. Egli infatti scrisse: «Per misticismo estetico Winckelmann ha errato e solo in questo egli ha trovato seguito». Critica molto acuta, esatta, dove per «misticismo estetico» si intende l'atteggiamento di Winckelmann verso il mondo classico (rappresentato concretamente di fronte a lui dalla statua), di religiosa adorazione come dinanzi ad una manifestazione dell'assoluto, del divino.
Da questi concetti discendeva la conseguenza che solo quelle opere d'arte che rappresentavano il bello ideale, la bellezza assoluta erano da considerarsi vere opere d'arte greca.
Nel frattempo, a partire dall'inizio dell'Ottocento, avevano preso inizio le prime campagne di scavo; tale fase militante dell'archeologia culminerà nei decenni dopo il 1870, e porrà in luce, finalmente, una larga messe di opere greche originali. Tuttavia alcune di queste opere, a causa del persistere delle concezione del Winckelmann, non furono riconosciute subito come greche. E il caso dei marmi del massimo tempio di Atene, il Partenone, dove, come si sapeva dalle fonti, la decorazione scultorea era stata eseguita sotto la direzione di Fidia, considerato il sommo degli artisti classici. Gli archeologi negarono che questi marmi potessero essere quelli fidiaci; anzi addirittura dubitarono che fossero opera d'arte greca e pensarono a rifacimenti di età romana, il che significa attribuirle al periodo ritenuto dal Winckelmann della peggiore decadenza. Fu il Canova che, pur essendo permeato di teorie neoclassiche, con la sua sensibilità per la qualità artistica capi ed affermò di trovarsi di fronte a capolavori degni del nome di Fidia. Questo avveniva nel 1819 quando, dopo molte peripezie, tali marmi furono acquistati a Londra per il Museo Britannico rendendo a Lord Elgin meno della metà di quanto aveva speso per il loro distacco e trasporto.
Qualche cosa di simile si ripeté anche in tempi più recenti. Nel 1877-82 il governo tedesco fece condurre i grandi scavi nel santuario di Olimpia, dai quali venne posto alla luce il più importante complesso di sculture dopo quello del Partenone (sono pero più complete, perché i frontoni di Olimpia (vedi paragrafo: "2.2 Le sculture del tempio di Zeus a Olimpia" in Archeologia greca), caduti giù per un terremoto e coperti dal terreno alluvionale, sono quasi intatti). Quando questi marmi, che sono oggi considerati giustamente tra i grandi capolavori di ogni tempo, furono resi noti essi delusero gli archeologi, che li giudicarono opere d'arte provinciale, di una scuola secondaria. Si criticò, per esempio, il soggetto della figura dello stalliere seduto che si tocca il piede con la mano, gesto che alla falsa visione che si aveva della «sublime» arte greca, apparve troppo realistico e volgare.
Questi due episodi dimostrano che l'immagine che la critica archeologica si era fatta dell'arte greca, non corrispondeva affatto alla realtà e che quindi occorreva accostarsi alla comprensione di quest'arte con concetti diversi.
Nei due decenni che precedono la liberazione della Grecia si hanno, da parte dei principali musei europei, tre grandi acquisizioni di sculture greche: i marmi del Partenone, i frontoni del tempio di Egina e il fregio di Bassae.
Una delle prime, più grandiose, più celebri e più discusse acquisizioni di sculture greche nell'occidente europeo sono i marmi del Partenone (vedi paragrafo "2. Fidia e il Partenone" in Archeologia greca), legati dalla tradizione al nome di Fidia e dalla storia dell'archeologia al nome di Lord Elgin (1766-1841). Questi fu inviato nel 1799 come ambasciatore a Costantinopoli e da quel momento iniziarono le sue disgrazie. Si mise presto in contrasto con gli ambienti inglesi installati in Grecia e in una spiacevole situazione diplomatica con la Francia, che gli valse il risentimento personale di Napoleone. Dopo la pace di Amiens, nel 1803, Elgin lascia Costantinopoli per tornare a Londra e incautamente, fidando delle sue immunità diplomatiche, attraverso la Francia. Napoleone lo fa arrestare come prigioniero di guerra insieme alla moglie e ad uno scozzese che viaggiava con loro e poi lo trattiene in prigionia mentre consente agli altri di tornare in patria dopo pochi giorni. Finalmente liberato, Lord Elgin arriva a Londra e trova che la moglie era divenuta l'amante dello Scozzese. Ne segui un lungo processo di divorzio, che lo escluse definitivamente da ogni carriera politica
Ma forse il dramma maggiore fu quello dei marmi del Partenone. Sembra che Elgin avesse intenzione, soprattutto, di far eseguire disegni e calchi per insegnamento degli artisti, entusiasta della possibilità di «contribuire con la sua ambasciata al progresso delle belle arti in Inghilterra». Fu invece il cappellano dell'ambasciata, il reverendo Philip Hunt che lo accompagnava, a trasformare la spedizione in una spoliazione. Nel luglio del 1801 numerose squadre di operai guidate dall'italiano Lusieri, fiduciario di Elgin, svellono dai frontoni o raccolgono dalle rovine una dozzina di statue e staccano non meno di cinquantasei lastre del fregio e quindici metope; per non parlare del tempio di Atena Nike, di una cariatide dell'Eretteo e di alcune opere minori. Mentre Elgin era ancora prigioniero del Bonaparte, il suo agente cominciò a spedire i marmi, in 200 ceste; dodici di queste naufragarono a Capo Malea e le sculture furono recuperate poi dai palombari in faticose azioni che si protrassero per tre anni. I marmi ancora rimasti ad Atene furono nel 1807 sequestrati dai Francesi ma poi inclusi negli accordi di Pace. Le ultime 80 ceste giunsero a Londra nel 1812.
Prima ancora che i marmi lasciassero il territorio greco per giungere a Londra, le ruberie di Elgin, o meglio di Hunt, sollevarono grandi discussioni che ancora oggi non sono chiuse e anche recentemente sono state avanzate dal governo greco richieste di restituzione. Se é vero però che l'asportazione di opere d'arte dal loro luogo di origine è sempre un atto lesivo di un contesto storico e come tale riprovevole, dobbiamo anche ammettere che senza questi trasferimenti la cultura del nostro tempo non si sarebbe arricchita di tante essenziali conoscenze: l'arte egiziana dopo la spedizione di Napoleone: l'arte classica greca con i marmi di Elgin; quella arcaica greca e mesopotamica con le spedizioni inglesi in Asia Minore; l'arte ellenistica con l'ara di Pergamo trasportata a Berlino negli anni Ottanta del secolo scorso. Sono stati tutti contributi essenziali.
Le sculture del Partenone, comunque, già manomesse per la trasformazione del tempio in chiesa cristiana, poi in moschea, schiantata dal bombardamento del veneziano Morosini nel 1678 che fece esplodere il deposito di polveri e munizioni installatovi dai Turchi, dovevano apparire al tempo di Elgin non soltanto abbandonate, ma esposte ad ogni pericolo: la guarnigione turca dell'acropoli usava i marmi per farne calce da imbiancare le pareti.
Ma appena le sculture del Partenone raggiunsero Londra sorse una nuova polemica. Tra gli artisti e gli esperti che accorsero a vederle nacquero ampie discussioni: c'erano alcuni che le ammiravano entusiasti e altri, soprattutto «antiquari» che, pervasi di teorie winckelmanniane, rifiutavano di riconoscere in esse l'arte fidiaca ipotizzando persino un rifacimento di età romana; il che significava, nel concetto di allora, attribuire quelle sculture ad un'epoca di decadente imitazione. Questa disputa rischiò di ostacolare il progetto di Elgin, ricoperto di debiti: vendere quelle opere allo Stato. Nel 1814, per ridare lustro ai marmi, Elgin chiede un'expertise a Ennio Quirino Visconti. Il grande archeologo rimase entusiasta di ciò che vide e non ebbe dubbi: l'autore era Fidia. II parere di Visconti supportato da quello del Canova convinse la commissione, ma il prezzo - trentacinquemila sterline di allora - lasciò Elgin insoddisfatto.
Nel 1811 era stata condotta una spedizione, capeggiata da Cockerell, John Foster e Haller von Hallerstein, nell'isola di Egina, dove furono scoperti i resti del tempio di Apollo, le cui sculture frontonali furono vendute a Luigi di Baviera ed esposte al Museo di Monaco. La scoperta fu molto importante, essendo questi i primi marmi che si conobbero del periodo arcaico e questa nuova esperienza aiutò la cultura del tempo a distaccarsi dal gusto neoclassico. Fiorirà infatti, di li a poco, la tendenza romantica verso i «primitivi», i «preraffaeliti» e gli «arcaici». I marmi di Egina, prima di giungere a Monaco, furono restaurati e completati senza riguardo dallo scultore Thorwaldsen che purtroppo non usò alcun rispetto per il documento ed accomodò le statue, come più ritenne opportuno. Nel 1967 i restauri sono stati tolti incautamente visto che ormai rappresentavano un documento di storia della cultura e del gusto; e i moncherini che presentano oggi le statue sono più offensivi dei restauri che un occhio esperto poteva eliminare mentalmente e a quello inesperto non davano disturbo.
Nel luglio 1812, gli scopritori del tempio di Egina, assieme a Otto von Stackelberg, portarono alla luce i rilievi del tempio di Apollo a Bassae, rappresentanti una centauromachia, di grande valore artistico, che finirono a Londra.
La scuola filologica fece fare progressi decisivi, nella parte documentaria, agli studi di archeologia intesa come storia dell'arte antica. Essa prese come punto di partenza le fonti letterarie, ricercando nel patrimonio monumentale soprattutto la conferma alle notizie date dagli scrittori antichi, ma non si pose il problema del valore critico di queste fonti, generalmente tarde e partecipanti ad una cultura ben lontana da quella in cui furono create le opere più alte dell'arte greca. Anche le grandi campagne di scavo intraprese nell'Ottocento imponevano d'altra parte la necessità di una buona conoscenza e di un continuo controllo delle fonti letterarie. Dobbiamo pertanto rivolgerci a tali fonti ed averne una conoscenza più vicina e diretta, per sapere il valore che possiamo ad esse attribuire e l'uso che possiamo fare.
Le fonti sono molteplici, dirette e indirette. Le fonti dirette sono costituite dagli scrittori che ex-professo si sono occupati di cose d'arte; quelle indirette, dalle opere letterarie nelle quali incidentalmente è contenuta la menzione di un'opera o le notizie su un artista, o sono espressi giudizi critici.
Le fonti per noi più importanti, perché le più ampie, sono la Naturalis Historia di Plinio e la Periegesi della Grecia di Pausania. Quanto alle altre fonti esse sono state raccolte dall'Overbeck nel 1868 e pubblicate in un volume intitolato Le fonti letterarie antiche per la storia dell'arte greca e romana. Questa raccolta di fonti è un libro che ci serve ancora continuamente. E infatti una raccolta quasi completa dei passi tratti dalla letteratura greca e latina, nei quali si trova un accenno ad un'opera d'arte.
Plinio il Vecchio con la sua Naturalis Historia rimane la nostra fonte più completa e preziosa, nonostante tutti i suoi limiti. In una lettera di presentazione della sua opera all'imperatore Vespasiano (69-70 d.C.). Plinio parla del carattere del suo lavoro e di alcune cose di cui si deve tener conto: mette in risalto la sua opera, che raccoglie, egli dice, una congerie di notizie, che non sono né piacevoli nė divertenti, ma sono una raccolta di dati di fatto relativi a tutto il mondo della natura. Proseguendo, Plinio aggiunge che nella sua opera vi sono ben 20.000 notizie degne di memoria tratte dalla lettura di circa 2.000 volumi. Tuttavia egli stesso riconosce di non essere un studioso di professione e di raccogliere piuttosto le curiosità. Quindi la sua opera è nata attraverso la lettura di molti scritti da cui via via prendeva quello che gli pareva più interessante. I libri della Naturalis Historia che ci interessano particolarmente sono il XXXIV, il XXXV e il XXXVI nei quali, trattando degli aspetti della natura, quando arriva a parlare delle pietre e dei marmi, tratta della scultura; parlando dei metalli, tratta del bronzo e della metallotecnica e, parlando delle terre colorate, tratta della pittura. Così in questi libri Plinio ha raccolto ciò che si conosceva al suo tempo delle arti figurative. Però a questa compilazione è mancata una revisione e un coordinamento delle notizie, che talora si contraddicono le une con le altre. Dobbiamo fare noi tale lavoro di critica nell'usare questa fonte.
Dobbiamo dire che nell'opera di Plinio esistono varie tendenze critiche talvolta molto contraddittorie. Accostandoci a questo problema bisogna ricordare ciò che si è detto del Winckelmann, che egli ebbe una visione non storica, ma mitica della storia dell'arte. Questa visione trovava conferma nelle fonti antiche, perché per la maggior parte esse traggono le loro informazioni da scritti nati nel periodo tardo ellenistico, cioè nella seconda metà del II secolo a.C., quando nella cultura greca si era formata una visione retrospettiva, nostalgica, del passato e delle antiche glorie, a seguito della perdita dell'indipendenza e della libertà prima sotto il dominio macedone e poi sotto quello di Roma.
Perciò tali fonti mettevano in particolare risalto gli artisti del V e del IV secolo a.C., ignorando quasi del tutto l'arte ellenistica. Tale è l'impostazione che Plinio trova nelle sue fonti, tra le quali la principale è Apollodoros ateniese, autore di una cronaca enciclopedica in versi (Chronikà) e maggiore rappresentante del movimento classicistico che si diffuse nella cultura greca a partire da circa il 150 a.C. Per quanto riguarda I arte, viene fatta allora l'esaltazione di Fidia e Prassitele e dopo Lisippo si vede iniziare la decadenza. Tra le altre fonti di Plinio c'è però anche Xenokrates ateniese, sculture egli stesso e, oltre che scrittore di cose d'arte, discepolo di Lisippo, vissuto alla metà del III secolo. Per lui Lisippo rappresenta il culmine, il massimo punto d'arrivo dell'arte greca e dobbiamo tener presente che da Lisippo deriva la spinta iniziale verso lo stile che diciamo ellenistico.
C'è quindi uno sfasamento tra le opinioni di Xenokrates e quelle di Apollodoros, ma Plinio le riferisce sullo stesso piano. Perciò bisogna rendersi conto, volta per volta della fonte da lui usata, per comprendere il valore della notizia riferita.
Bisogna superare l'equivoco in cui si è caduti con tanta facilità nel passato, cioè quello di dare un valore assoluto a certi giudizi critici di Plinio, quasi che fossero giudizi contemporanei alle opere d'arte. Questo, anzitutto, non è vero rispetto agli artisti del V e del IV secolo, giacché non solo Plinio ma anche le sue fonti ellenistiche sono lontane da essi quanto noi dal nostro Rinascimento, e quindi, se le notizie di fatto che essi conservano possono essere preziose, i giudizi critici sono da valutarsi come testimonianza dei gusti del tempo nel quale essi stessi scrissero. E poi, anche se quel giudizio fosse contemporaneo alle opere, non è detto che sarebbe un giudizio criticamente esatto: siamo noi che dobbiamo dare un nostro giudizio, valido anch'esso per il nostro tempo.
L'altra fonte principale per la conoscenza dell'arte antica è Pausania, che visse nel II secolo dell'era volgare. La sua opera rientra in un genere di scritti del tardo ellenismo, i cui autori venivano detti «periegeti», cioè descrittori di viaggi, autori di guide per il forestiero che visitava i grandi santuari, dove i secoli avevano accumulato edifici, opere d'arte e leggende. Nell'età del tardo ellenismo, la Periegetica diviene un «genere» coltivato volentieri in armonia con quelle tendenze retrospettive che già abbiamo avuto modo di notare, nelle quali rientrava anche il desiderio di raccogliere e volgere a uso di erudizione il patrimonio del passato.
Fra i molti scritti periegetici quelli che si sono conservati quasi al completo sono appunto quelli di Pausania, nativo di Magnesia al Sipylos in Asia Minore. Della sua Periegesi della Grecia ci restano dieci libri, privi di proemio e di chiusura, ma forse lasciati interrotti dall'autore. Il X libro è stato composto dopo l'anno 175 d.C., e le indicazioni contenute nel primo portano l'inizio dell'opera al 143 d.C.
Quest'opera segue un ordine geografico ben preciso: comincia infatti dall'Attica, dal promontorio del Laurion, passa nel Peloponneso, facendo il giro da sinistra a destra e, chiusa la spirale, passa nell'Arcadia, quindi alla Beozia, alla Focide, alla Locride ed alla zona di Naupaktos. Alla fine dell'opera l'autore promette di estendere la «periegesi» al di là della zona considerata, progetto che non deve essere mai stato attuato, e di considerare anche la Tessaglia, della cui mancanza bisogna particolarmente dispiacersi, perché gli scavi recenti hanno messo che qui fu il crogiolo di stirpi e di civiltà antichissime, durante la formazione della nazione greca.
Quest'opera è certamente stata composta per la massima parte a tavolino, sfruttando opere di argomento localmente più ristretto, dei periegeti precedenti, e così le opere di storici, ma anche le opere di poeti come Omero. Per alcune delle località descritte è sorta però la questione se Pausania abbia visitato le zone personalmente, oppure no. Non era di per sé necessaria la conoscenza diretta delle località, dato lo scopo prefissosi, cioè quello di voler fare un libro di lettura e non una vera e propri guida per il turista. Ma è certo che alcuni luoghi di maggiore importanza Pausania li ha visitati, come l'Acropoli di Atene e i santuari di Olimpia e di Delfi. Realmente in questi luoghi si è potuta riscontrare spesso una precisa rispondenza tra il testo di Pausania e quanto è stato messo in luce dagli scavi.
Prendiamo, per esempio, la descrizione del santuario di Olimpia contenuta nel decimo libro. Qui in maniera molto precisa si prendono in rassegna prima il tempio di Zeus, poi il tumulo di Pelope e quindi l'Heraion, antichissimo tempio di Hera. In quest'ultimo si conservava l'arca di Kypselos, una cassa di legno di cedro con pannelli d'avorio. L'arca viene descritta in tutti i particolari della decorazione, che ci fornisce un importante repertorio delle raffigurazioni mitologiche, corrispondenti allo stile del secondo venticinquennio del VI secolo a.C. In seguito si descrivono i monumenti prossimi al tempio, come la serie delle statue di Zeus. Ma importante è la notizia dell'esistenza, all'interno del tempio, di un Hermes di Prassitele, che non è ricordato da nessuno scrittore antico. Invece, facendo gli scavi dell'Heraion, proprio nel punto esatto dove indicava Pausania, si è trovata la statua, caduta dal suo piedistallo. Era questa una bella conferma dell'attendibilità delle notizie di Pausania, che ha indotto a prestare fede al testo, in casi dubbi, più di quanto non si facesse prima.
Ma ecco che sorgono subito nuove difficoltà. La statua scoperta dagli scavi tedeschi nel maggio 1877, è quella, divenuta famosa, dello «Hermes con Dioniso infante», celebrata dai manuali di archeologia e dalle guide turistiche come l'unica statua originale di uno dei più grandi e celebri scultori dell'antichità che sia giunta sino a noi, quasi intatta. La datazione proposta era intorno al 340 a.C. Tuttavia Carl Blümel, direttore dei Musei di Berlino, nel 1927, nel corso di un'indagine sulla tecnica della scultura antica, osservó che sul dorso dello Hermes, lasciato non finito (cosa assai singolare e del tutto insolita in età classica) si poteva riconoscere l'uso di ferri (soprattutto di uno scalpello a tre punte) mai usati prima del tardo ellenismo e dell'età romana. Accertato che la base sulla quale era stata posta la statua era sicuramente di età romana, si concludeva che anche la statua era una copia romana e non un originale di Prassitele. Ma anche questa soluzione non soddisfaceva molto. Allora, sempre il Blümel, nel 1944. propose una nuova soluzione: poiché le fonti conoscono ben quattro artisti col nome di Prassitele e poiché sono riscontrabili nella figura caratteri stilistici dell'ellenismo, proponeva di attribuire lo Hermes a un Prassitele della fine del II secolo a.C.
Questa soluzione parve a molti soddisfacente, anche per il Bianchi Bandinelli. Ma negli ultimi anni (dal 1955 in poi) si è tornati a riproporre lo Hermes come originale prassitelico, cioè del grande Prassitele del IV secolo a.C., senza riprendere in esame le molte osservazioni avanzate dal Blümel.
Altra fonte importante sono gli scritti di Luciano di Samosata, vissuto al tempo degli Antonini, nei quali troviamo descrizioni di opere d'arte che l'autore ha veduto e che descrive esprimendo le proprie sensazioni e il proprio giudizio. Così quando menziona il quadro dipinto di Aetion, Le nozze di Rossane e Alessandro, si fa premura di dire che «il quadro si trova adesso in Italia, e io l'ho veduto»; e così quando parla del quadro di Zeusi, La famiglia del Centauro, ci dice che ritiene che il quadro, portato via da Silla si trovasse sopra una nave che affondò al Capo Malea, ma che egli ne ha veduto ad Atene una copia accuratamente fatta sull'originale. Queste precisazioni attestano che la sua documentazione è degna di fede. Ma per il resto, anche Luciano partecipa al culto per l'età lontana della grande civiltà artistica della Grecia e non menziona se non opere di artisti famosi dell'età classica.
Un'altra fonte che va menzionata in modo particolare è Ateneo, vissuto verso la metà del III secolo d.C. Nella sua opera intitolata Deipnosophistai, cioè «l dotti a convito», dove i convitati intrecciano colloqui che danno modo all'autore di raccogliere un'ampia congerie di notizie, per noi molto preziose, vi sono tre importanti descrizioni: due, quella del corteo festivo di Tolomeo II Philadelphos (286-247 a.C.) databile al 279 a.C. e quella della processione trionfale di Antioco IV Epiphanes (175-163) sono importanti documenti per conoscere lo splendore delle corti ellenistiche e la profusione delle supellettili in metalli preziosi lavorati; l'altra, quella di una nave costruita per Ierone II di Siracusa (ca 306-215 a.C.) che aveva un pavimento di mosaici fissati su tavole raffiguranti episodi dell'Iliade, costituisce una testimonianza preziosa per la storia del mosaico.