Il periodo che va dagli inizi alla metà del V secolo appartiene, sotto certi punti di vista, all'età arcaica, sotto altri all'età classica. È sempre difficile, come sappiamo, dividere un periodo storico da un altro in maniera netta, esistendo invece una continuità, un trapasso lento che è coerente con il fluire della vita.
Nel V secolo esistono due punti di riferimento precisi: le guerre persiane e la ricostruzione dell'acropoli di Atene.
Nel 490 a.C. la Grecia corse il pericolo di venire travolta dall'invasione persiana, condotta da Dario; ma a Maratona, poco distante da Atene, il 10 agosto (o il 2 settembre) di quell'anno, in una battaglia decisiva, l'esercito ellenico, composto in maggioranza da ateniesi e condotto da un generale ateniese, Milziade, sconfisse quello degli invasori. Appena dieci anni dopo, nel 480, il re Serse, figlio di Dario, guidò una seconda spedizione contro la Grecia, scendendo da nord con una grande armata; nonostante l'eroica difesa spartana alle Termopili, l'esercito persiano dilagò nella penisola assediando Atene e distruggendola. Ma ancora una volta la Grecia si salvò annientando a Salamina la flotta e, l'anno dopo a Platea, l'esercito dei nemici. é uno dei rari momenti di coesione delle città greche di fronte al pericolo, un momento di unità che non sarà più ritrovato. Atene, alla quale si doveva la vittoria di Maratona, e in gran parte quella di Salamina, conquista una posizione di rilievo fra gli altri greci, accanto a Sparta. Cade invece il prestigio di Corinto e delle città ioniche che erano cadute sotto il dominio dei persiani.
Nel 447 a.C., nell'età di Pericle (495-429 a.C.), si inizia la ricostruzione dell'acropoli di Atene, creando uno dei più importanti complessi monumentali di tutti i tempi.
Fra l'evento bellico (le guerre persiane) e quello artistico (le opere sull'Acropoli) si compie il grande passaggio dall'arcaismo all'età classica, con un indirizzo artistico che è prevalentemente attico, detto "stile severo" per il rigore costruttivo in architettura, scultura e in ceramografia, e anche per la serietà dei visi che nelle ultime due discipline, hanno perso, il tradizionale sorriso arcaico.
Evidente testimonianza di questa seconda tendenza è il bassorilievo votivo della Atena pensosa, cosiddetta per il suo atteggiamento di intima concentrazione che sembra esprimere un nuovo e triste senso del destino dovuto alle distruzioni persiane.
Dopo ricerche durate più di un secolo, gli scultori greci erano ormai approdati alla piena conoscenza della complessa struttura del corpo umano. Per cui, in questo passaggio dall'età arcaica a quella classica, il problema fondamentale fu quello di rendere la figura umana in rappresentazioni e posizioni sempre più naturali. Il primo tentativo fu dunque quello di uscire dalla astratta rigidità del kouros arcaico sia, ovviamente, attraverso figure in movimento, sia attraverso figure stanti, ferme, ovvero non impegnate in azioni precise, ma capaci comunque di esprimere la sensazione del movimento. Successivamente le ricerche si estesero anche alla rappresentazione dei sentimenti e alla resa del drappeggio.
Già alla fine del periodo arcaico erano stati fatti tentativi per uscire dall'impianto rigido del kouros arcaico. È il caso del Kouros di Aristodikos (500 a.C.; 352), in cui alla tipica impostazione delle gambe di età arcaica, reagisce una nuova flessione delle braccia. Non molto tempo dopo si arrivò ad una diversa e più articolata distribuzione del peso del corpo, come dimostra l'Efebo di Kritios (490-480 a.C.; 354). La figura non si poggia più rigidamente su entrambe le gambe, ma su una sola, la sinistra che è quindi portante, mentre l'altra, la destra, è flessa. Da questa diversa posizione delle gambe deriva una diversa articolazione delle parti superiori del corpo: il bacino scende verso la gamba flessa e la testa, non più rigidamente frontale, si piega anch'essa sulla gamba flessa. L'antica rigidità è così divenuta sciolto equilibrio. A giudicare dall'inclinazione della testa, analoga impostazione doveva averla anche l'Efebo biondo (355), cosiddetto perché al momento della scoperta gli furono trovate tracce di colore sui capelli (490-480 a.C.). L'espressione di questo volto è cupa e riflette l'ideale di quest'epoca di impegni seri e gravi (come la guerra contro i persiani) che crearono l'impero democratico ateniese, in contrasto con l'ottimistico sorriso arcaico dell'epoca precedente.
Altri esempi di figure maschili stanti ci sono forniti in quest'epoca, sia da originali greci, come nel caso del famoso Auriga in bronzo di Delfi (407) eretto come offerta votiva dopo una gara, sia da statue conservate in buone copie romane come l'Apollo del Tevere (453) e il cosiddetto Apollo dell'Omphalos (382) ad Atene che, essendo databile all'incirca alla metà del V secolo a.C., costituisce l'estremo termine di questo processo figurativo. Possiede infatti un perfetto equilibrio; il peso del corpo è ora arditamente scaricato su una gamba sola, e l'asimmetria che ne consegue è abilmente sottolineata; sia la linea mediana che la colonna vertebrale hanno subito una torsione, le spalle, le anche e le ginocchia non sono più sullo stesso piano ma tendono a spostarsi verso l'alto e verso il basso in un ritmo alternato. La testa è lievemente girata, gli occhi e la bocca non costituiscono una linea rigorosamente orizzontale; inoltre, i lineamenti sono modellati in modo naturalistico.
407. Auriga di Delfi; 470 a.C.; m. 1,80; Delfi, Museo. L'Auriga è una delle poche statue bronzee in buono stato di conservazione giunta sino a noi perché rimasta sepolta sotto una caduta di massi nel santuario di Delfi. Essa stava su un carro trainato da cavalli di cui si conservano solo pochi frammenti. Fu dedicata da Polyzalos, tiranno di Gela, probabilmente per una vittoria ottenuta con i carri a Delfi nel 478, vittoria forse ripetuta nel 474. Veste il lungo chitone degli aurighi che forma pesanti pieghe. Nella destra tiene le redini. La testa, massiccia, con la mandibola pesante è leggermente girata verso destra; sui capelli è la tenia, la benda del vincitore, decorata a meandro. Gli occhi sono in pietra dura. Anche se per certi versi ancora legato ai moduli arcaici (impianto statico a colonna) l'auriga è percorso da una vitalità e da un naturalismo nuovi. Gli occhi hanno una luminosità coinvolgente, i capelli, pur senza intaccare il volume del volto, ne rendono più intensa l'espressione; i piedi hanno un'incredibile naturalezza nella tensione delle vene e dei tendini. Qualcuno ha voluto vedere nella scultura un'opera di Pythagoras, attivo a lungo per i tiranni della Sicilia.
453. Apollo del Tevere; 450 a.C.; m. 2,04; Roma, Museo delle Terme. Questa statua appartiene alla classe di quelle che si ritraggono, come distogliendo lo sguardo e chiudendosi in un loro mondo irraggiungibile. È possibile notare un equilibrio analogo a quello descritto per l'Apollo dell'Omphalos.
Il gruppo di Armodio e Aristogitone, che era stato innalzato nella piazza del mercato di Atene per celebrare gli eroi che avevano ucciso il tiranno Ipparco, può costituire un esempio celebre di statua in movimento. Perduto il gruppo originale ne rimangono parecchie riproduzioni di epoca romana (373) conservate in vari musei tra cui quelli di Roma e di Napoli, che si riferiscono tutte verosimilmente, al secondo gruppo statuario eretto nel 477-76 da Kritios e Nesiotes, per sostituire quello primitivo scolpito da Antenore che era stato portato via dai Persiani nel 480-79 a.C. I due tirannicidi sono rappresentati nell'atto di scagliarsi contro il tiranno. Aristogitone è barbuto, con il braccio sinistro in avanti, nella destra la spada pronta a colpire. Armodio, imberbe, regge nella destra la spada per infliggere il colpo mortale. Il modellato dei torsi rende efficacemente, per la prima volta nell'arte greca, un'azione concitata e violenta. In questo gruppo, come nelle statue viste precedentemente si può notare come sia mutato il modo di rendere i capelli, ora corti con ricci a spirale sulla fronte e sulle tempie per le figure umane, oppure lunghi, ma avvolti o annodati dietro il capo per le divinità (445).
Di alcuni decenni più tardi (460 a.C.) è lo Zeus folgoratore (393) in movimento rinvenuto in mare, al largo di capo Artemisio, che deve aver fatto parte di una nave carica di sculture destinate ad essere esportate presumibilmente in Oriente. Si tratta di uno dei più pregevoli originali greci in bronzo che ci siano rimasti. In passato la statua è stata identificata anche come Poseidon che scaglia il tridente: oggi si pensa invece a Zeus perché altrimenti il tridente avrebbe coperto il volto della statua. La figura presenta un impianto di tre quarti con gambe divaricate una davanti all'altra, in un atteggiamento simile a quello dei tirannicidi. Altre immagini di divinità in movimento ci vengono offerte da piccoli bronzetti, come quello raffigurante Apollo e proveniente da Delfi (446; nr 2). Il gesto delle braccia protese fa pensare che si trovasse assieme ad un'altra statuetta, probabilmente ad una di Herakles per la contesa del tripode delfico (480-470 a.C.).
La sperimentazione di figure in posizioni instabili è tipica del periodo severo. È forse questo uno dei motivi per cui gli artisti di questo periodo preferirono utilizzare il bronzo, piuttosto che il marmo. Le statue in bronzo infatti si reggono anche se al di fuori del loro equilibrio statico, mentre quelle in marmo hanno bisogno di puntelli o di punti di appoggio per sorreggersi. Sicuramente un altro motivo, che spinse gli artisti ad una scelta del genere, fu dovuto anche alla loro ricerca naturalistica, che imponeva una maggiore accuratezza nella rappresentazione dei dettagli anatomici. Con il metodo impiegato per la realizzazione delle opere bronzee, cioè quello della fusione a cera persa, infatti il modello della statua era realizzato in argilla, materiale più malleabile che offriva una maggiore precisione nella resa dei particolari e anche la possibilità di continue correzioni e ritocchi. Ma a questa predilezione per un materiale prezioso e facilmente riutilizzabile, dobbiamo la perdita della grande statuaria prodotta nel trentennio che precede la fioritura periclea. Tuttavia la comparazione tra le fonti letterarie, che forniscono interessanti indicazioni sulle opere e sulle caratteristiche stilistiche degli scultori di quest'epoca, le monete e le gemme, che riproducono spesso le grandi creazioni dell'età classica, e le copie romane in marmo, consente di recuperare almeno i tipi iconografici creati nel trentennio che segue il trionfo sui Persiani. Non certo il valore artistico in quanto l'opera d'arte è irriproducibile.
Un esempio di figura in posizione instabile è offerto dal cosiddetto torso Valentini (444), copia in marmo di un originale bronzeo databile al 460-450 a.C.. La figura, vista la sua torsione, sembra risentire di uno stato di debolezza dovuto, forse, ad un ferimento.
Figure in movimento sono anche quelle che rappresentano atleti impegnati in attività sportive. Atleti quindi non più distanti, ideali e immobili come nell'età arcaica, ma atleti colti nel momento dell'azione. Di queste figure si conservano soprattutto bronzetti.
La statuetta di discobolo conservata al Metropolitan Museum di New York (401) sembra raffigurare l'atleta nel momento in cui viene chiamato dall'araldo, con il disco alzato e la gamba destra avanzata. La disarmonia creata dal corpo possente e dalla testa piccola, ha lo scopo di mettere in evidenza la robustezza della figura (470-460 a.C.).
Un altro discobolo proveniente da Tebe (399) rappresenta l'atleta in atto di lanciare il disco con entrambe le braccia elevate. Il corpo è più snello del precedente (470-460 a.C.)
Stesso schema compositivo del precedente sembra dovesse averlo il discobolo Ludovisi (400), uno dei pochi esempi di grande statuaria (470-460 a.C.). Si tratta evidentemente di una copia romana visto che la parte inferiore è squadrata a mo' di pilastrino, come accadeva a quelle sculture che dovevano adornare i giardini di ville romane.
Ma che esistessero figure di atleti impegnati in movimenti anche assai decisi, ci è testimoniato da alcune monete su cui spesso erano riprodotte sculture dell'epoca. Su una moneta da Coo (437), databile al 480 a.C., è incisa una figura di discobolo impegnata in uno slancio così vigoroso, che l'atleta sembra sollevarsi e quasi distaccarsi dalla terra. Un atteggiamento analogo si nota nella statua del cosiddetto Pollux (438), dalla struttura ampia e dai muscoli ben evidenziati, databile alla stessa epoca.
In linea con il carattere sobrio e naturalistico dello stile severo anche il panneggio subisce dei mutamenti: le pieghe assumono forme più naturali e meno complesse rispetto a quelle ioniche arcaiche, e al sottile chitone con le sue innumerevoli piegoline si preferisce il più pesante peplo.
Già in epoca tardo-arcaica si era cercato di dare alle vesti più movimento come dimostra ad esempio la statuetta bronzea di kore conservata a Berlino (258).
La piccola kore di Euthydikos (356) rappresenta il punto di passaggio dall'età arcaica a quella severa: il vestito è ancora quello tradizionale, ma notevole è il tentativo di semplificazione del panneggio: scomparse sono infatti le ricadute libere dai bordi di piegoline arricciate e la fascia obliqua non è più articolata in pieghe, ma in semplici fasce parallele.
Nella kore n. 688 dall'Acropoli (357) è ancora più apparente l'affermarsi della reazione alle preziosità ioniche e l'annuncio dello stile severo. Il mantello non è più obliquo ma ricade a larghe falde su entrambe le spalle e copre il chitone pesante. Il volto a ovale pieno è tipico delle sculture severe. 490-480 a.C.
Nell'Athena, dedicata da Angelitos e realizzata dallo scultore Euenor (358), di tradizionale è solo l'egida con la testa di gorgone; nuovo invece è il peplo che nella parte inferiore si articola in poche e larghe pieghe dai bordi spessi e nuovo è il movimento reso complesso dal braccio sollevato, che doveva verosimilmente sorreggere una lancia, e dalla gamba destra avanzata. La freschezza delle superfici della scultura, rinvenuta all'interno della colmata persiana, fa supporre una non lunga vita all'aperto. L'opera si data dunque al 480 a.C. e costituisce uno dei più antichi ed eloquenti documenti dello stile severo.
Panneggio e acconciatura semplificati e volto ad ovale pieno si ritrovano nel rilievo delle Charites, (381) opera da ricollegare alla notizia di Plinio secondo cui sull'Acropoli esistevano tre Grazie scolpite da un tal Socrate. La scultura è però copia romana di un originale greco databile al 480 a.C.
L'Afrodite "salvatrice di uomini” (Sosandra; 383) dedicata sull'Acropoli da Callia, genero di Milziade, è, stando alla notizia di Luciano di Samosata, opera di un importante scultore di stile severo, Calamide. Di questo tipo statuario esistono numerosissime repliche, ed è quindi probabile che si trattasse di un'opera molto famosa nell'antichità. La dea è rappresentata tutta chiusa nel mantello che sale a coprirle anche il capo. Il volto pieno emerge dalla nicchia del manto ed è inquadrato dalle bande ondulate dei capelli scriminati al centro. Quanta differenza fra questa sobria e maestosa immagine e le korai, abbigliate con i chitoni sottili e i mantelli pieghettati e finementi dipinti, acconciate con le lunghe trecce sciolte! (470-460 a.C.).
Stessa solennità e stessa essenzialità di panneggio dell'Afrodite Sosandra, si ritrovano nella statua di Peplophoros conservata a Roma nel Museo delle Terme (410). Alle più numerose e parallele pieghe della parte inferiore corrispondono poche e trasversali pieghe a V della parte superiore. 470-460 a.C.
Due rilievi (il primo conservato a Roma e il secondo al Museo dell'Acropoli) costituiscono esempi della scultura a rilievo nello stile attorno al 460 a.C.
Il primo è quello definito da sempre come trono Ludovisi (430), anche se oggi si ritiene che non si tratti di un trono, bensì di un altare probabilmente sistemato di fronte al santuario di Locri, e portato a Roma dopo la conquista della Magna Grecia. Si è molto discusso sui soggetti rappresentati. Una delle ipotesi più seguite è che il pannello principale rappresenti Venere nascente dal mare e accolta da due Ore (divinità femminili che personificano le stagioni, spesso al seguito di Venere) che poggiano i piedi su una riva ghiaiosa e che quelli laterali rappresentino l'amore sacro (la sposa ammantata che pone dei granelli nell'incensiere) e l'amore profano (la fanciulla nuda che suona l'aulòs o flauto doppio). L'aulòs era uno strumento a fiato formato da due canne diritte e divergenti. L'insufflazione esigeva un certo sforzo per cui le guance del suonatore si dilatavano e si deformavano. L'atmosfera è quella di grande concentrazione per un evento molto importante che ritroviamo anche nella ceramica.
Il secondo rilievo è quello della Atena pensosa (f 35), cosiddetta per il suo atteggiamento di intima concentrazione che sembra esprimere un nuovo e triste senso del destino dovuto forse alle distruzioni persiane, e che si pone quindi in contrasto con l'ottimistico sorriso delle sculture arcaiche. Il rilievo è importante perché costituisce uno dei rarissimi esempi di stele funerarie di questo periodo, la cui scarsità è probabilmente dovuta ad un divieto rivolto contro il lusso eccessivo che impediva la dedica di monumenti funerari troppo ricchi.
In scultura, oltre all'abbandono del caratteristico taglio semilunato della bocca, si manifesta cautamente una nuova sensibilità che, non paga di una ricerca anatomica ormai acquisita, tenta di rompere l'immobilismo statico del kouros. Le braccia, prima rigidamente accostate, si flettono lievemente e si cerca un nuovo equilibrio fra le varie parti del corpo ora intimamente fuse in una nuova organicità.
Con gli artisti dello stile severo si assiste quindi al superamento della visione arcaica della scultura, al raggiungimento di un maggior realismo attraverso lo studio anatomico e alla rappresentazione di figure che vivono in modo organico nello spazio.
Secondo le testimonianze di antichi scrittori i più noti artisti di questo periodo furono Calamide (autore probabilmente dell'Afrodite Sosandra), Pitagora (autore forse dell'Auriga di Delfi) e Mirone. Ma solo nel caso di quest'ultimo è stata possibile una attendibile attribuzione di sculture superstiti. Certamente suo è il discobolo, identificato in numerose copie, grazie alla particolareggiata descrizione di Luciano (Mentitore 18), la più completa delle quali è quella del Museo delle Terme a Roma proveniente dalla collezione Lancellotti (436; orig. datato al 460 a.C.). L'atleta è rappresentato in quell'attimo di stasi totale in cui, avendo sollevato il braccio destro fino alla massima altezza, si accinge a scattare nella direzione opposta. Tutto è contenuto come dentro una cornice geometrica, formata dalla linea retta che, lungo il braccio destro, giunge alla testa, dall'altra linea che scende sulla spalla e, tramite il braccio sinistro fermato col polso al ginocchio destro, giunge fino al piede; infine dalla linea ideale che congiunge la mano destra al piede sinistro appoggiato con la punta al suolo. Entro questo schema esterno si organizzano, altrettanto solidamente, due curve: quella costituita dalle braccia, ripresa in basso alla gamba sinistra, e quella, opposta, della testa, del torso e della coscia destra. Un'altra opera attribuibile a Mirone e anch'essa tramandataci in copia romana, è il Marsia rappresentato nell'atto di ritrarsi di scatto. Originariamente faceva parte, assieme a un'Atena (pure nota in copie romane), di un gruppo eretto sull'Acropoli e descritto da Pausania (440), databile al 460-450 a.C. Gruppo che evidentemente narrava il mito secondo il quale il satiro Marsia, ascoltato di nascosto il suono meraviglioso emesso dall'aulòs di Atena, si era precipitato a raccogliere lo strumento prezioso gettato a terra dalla dea perché le aveva deformato le guance. Si era però immobilizzato per il volgersi subitaneo di lei che aveva udito il rumore fatto dal satiro in attesa di impadronirsene non appena Atena si fosse definitivamente allontanata. Con queste due opere Mirone , più che rendere il movimento reale attraverso l'articolazione del corpo, ha espresso magistralmente il concetto del cosiddetto movimento arrestato. Viene attribuito a Mirone, anche se con molta incertezza, il cosiddetto Atleta Amelung (442) nell'atto di indossare la cuffia di cuoio, tipica dei pugilatori. L'espressione distante del volto, sembra voler esprimere la massima concentrazione dell'atleta prima della gara.
Il frontone e le metope del tempio di Zeus ad Olimpia, databili al 460 a.C., sono fra i più importanti complessi di sculture architettoniche che ci siano pervenuti e offrono non solo un gruppo di statue singole in varie pose, ma sono anche sufficientemente conservati per farci capire quali fossero gli originali schemi compositivi.
Il complesso delle sculture del tempio è costituito da 51 protomi leonine, gronde del tetto (frequentemente sostituite a partire dal IV secolo); 12 metope con le fatiche di Herakles, sui fregi del pronaos e dell'epistodomos; 21 figure del frontone orientale; 19 + 2 figure del frontone occidentale. Alcune figure erano completate in bronzo dorato. Le superfici erano rivestite da una leggera policromia.
I contenuti e la realizzazione dei due frontoni sono in aperto contrasto. I rilievi occidentali ritraggono un violento combattimento mitologico tra i Lapiti della Tessaglia e i loro vicini mezzi uomini e mezzi cavalli, i centauri, che, al matrimonio del re lapita Piritoo, si ubriacarono e cercarono di rapire le donne lapite. Il tema è una sfida eroica all'aggressione bestiale, il trionfo della ragione sulla barbarie. Al centro domina la figura di Apollo (412 g), che, teso il braccio destro a placare la battaglia, viene spesso paragonato a una roccia emergente da un mare agitato, tanta è la forza che esprime. Alla sinistra del dio è Teseo che insiste su un centauro che stringe tra le zampe anteriori una lapitessa. Segue un centauro che, attaccato da un lapita, lo morde al braccio. Ancora una lapitessa che cerca di fuggire da un centauro trafitto da un lapita. L'angolo frontonale è occupato da due lapitesse, una giovane e una anziana, che cercano di nascondersi terrorizzate. Alla destra di Apollo è Peirithoos che insiste sul centauro Eurytion, rapitore di Deidamia (412 f). Segue la lotta tra un centauro e un lapita. Ancora una lapitessa cerca di fuggire da un centauro trafitto da un lapita. Una lapitessa giovane e una anziana concludono il frontone. La composizione è concepita per simmetrici.
Il timpano orientale, completamente diverso, non raffigura combattimenti o azioni, ma riflette una sinistra calma prima della tempesta. Il soggetto è cantato da Pindaro nella prima Olimpica. Oinomaos, re di Pitsa, aveva saputo da un oracolo di dover perire per mano dello sposo di sua figlia Ippodamia. Per questo sfidava i pretendenti di lei in una corsa di carri da Olimpia sino all'altare di Poseidon sull'istmo di Corinto. Si faceva superare dall'avversario che colpiva alla spalle con una lancia. Pelope chiese a Oinomaos Ippodamia. Secondo Pindaro egli vinse la gara perché ottenne da Poseidon cavalli più veloci di quelli donati da Ares a Oinomaos. Secondo altri perché corruppe Myrtilos, l'auriga di Oinomaos: che avrebbe sostituito la spina delle ruote del carro con una di cera che, spezzandosi, avrebbe fatto cadere e morire il re. Pelope non avrebbe ricompensato Myrtilos, anzi lo avrebbe ucciso. Al centro del frontone è Zeus, che recava il fulmine nella sinistra, e che assiste, invisibile, ai preparativi. La disposizione delle figure ai lati di quella di Zeus ha dato luogo a lunghe discussioni. Alla sua sinistra la scena ha un ritmo, da destra a sinistra, che per gli antichi era considerato fausto. Si hanno, probabilmente, Pelope, Ippodamia, un'ancella che saluta la padrona (412 d), la quadriga, un indovino (412 e), un fanciullo seduto, un fiume. Alla sua destra, con ritmo infausto: Oinomaos, Sterope, Myrtilos, la quadriga, un auriga, un indovino, un fiume. Anche questo frontone si sviluppa per simmetria. I protagonisti sono immobili, vivono la propria intimità, quasi come statue isolate. Questa sostituzione graduale di stati d'animo ad azioni violente, è uno degli elementi più significativi e più affascinanti del periodo dello stile severo. Gli eroi dell'arcaismo, estroversi e sereni che incontriamo generalmente impegnati in furiose battaglie o in solenni aspetti cerimoniali della vita, quali nozze, banchetti, partenze, giochi funebri, sono sostituiti nella nuova generazione da creature che meditano, che sono coscienti di sé e del proprio destino.
La decorazione scultorea del tempio includeva, oltre ai timpani, anche le metope. Su di esse erano rappresentate le fatiche di Herakles, che vengono qui fissate, per la prima volta, nel numero canonico di dodici. Uno dei rilievi in miglior stato di conservazione (412 b) presenta l'eroe mentre sorregge il mondo al posto di Atlante il quale gli porta le mele d'oro delle Esperidi che donano l'immortalità. Dietro Athena, invisibile, con un gesto della sinistra aiuta il suo prediletto.
Athena appare anche in altre due metope olimpiche, entrambe di ambientazione peloponnisiaca. In una di esse, che si trovava sul lato occidentale (412 c), Herakles porta alla dea gli uccelli antropofagi dello Stinfalo. In un momento di tranquillità dopo l'azione (così come il timpano orientale mostrava un momento di quiete prima di essa), Athena è seduta su una roccia e allunga un braccio per ricevere gli uccelli da Herakles.
In un'altra metopa (412 a) Herakles combatte il toro cretese in uno stupendo contrasto di impulsi incrociati, come la lettera greca c. Questa metopa si fa testimone di un cambiamento importante nella resa delle figure in movimento: non più movimenti rigidi come in età arcaica, ma movimenti più liberi e naturali.
Tra il 475 e il 450, almeno, sembra che le botteghe attiche suddividessero la loro produzione secondo filoni diversi. Il primo fu quello dei manieristi, che porteranno alle estreme conseguenze l'eleganza di alcune figure del tardo arcaismo: il rappresentante più notevole di questa tendenza è il cosiddetto pittore di Pan. Il secondo filone è quello dei pittori che ridussero, alla dimensione dei vasi, i temi delle grandi pitture, soprattutto polignotee: il rappresentante più notevole è il cosiddetto pittore dei Niobidi.
376. Pittore di Pan. Skyphos da Agrigento. Frammento; 480-470 a.C.; Agrigento, Museo. Il frammento è per noi estremamente importante perché si illumina sulla diffusione praticamente immediata di certi schemi figurativi e sulla interrelazione fra la grande scultura e la ceramografia. Qui notiamo infatti come il pittore di Pan segua uno schema di attacco, molto simile a quello utilizzato da Kritios e Nesiotes per la figura di Harmodios.
377. Lekythos di Teseo e Ariadne; 480-470 a.C.; Taranto, Museo Nazionale. La lekythos di Taranto viene di solito attribuita al pittore di Pan. é notte alta e Athena s'inchina sul giaciglio a suscitare Teseo, un adolescente incoronato, bellissimo, che rivolge verso la dea il volto, mentre Ariadne dorme inconscia in primo piano, un piccolo Hypnos impostato come un uccellino sul capo.
Nell'opera di alcuni ceramografi di questo periodo si è individuata l'influenza di un grande pittore di quest'epoca, Polignoto di Taso. Polignoto è il primo pittore greco la cui personalità emerga con una certa chiarezza dalle fonti letterarie dell'antichità, presso le quali godette grande fortuna. Si diceva in esse, come grande lode, come avesse saputo dipingere donne vestite di veli trasparenti o togliere alle sue figure con una leggera apertura della bocca la rigidezza delle linee facciali (Plinio il Vecchio, Nat. hist., XXXV, 58), osservazioni generiche in realtà, e poco significative per il lettore moderno. Si diceva inoltre come avesse ritratto persone vive, una delle quali venne identificata come Elpinice, sorella di Cimone, suggerendo la frequentazione di ambienti sociali elevati. In varie fonti viene esaltato il suo verismo naturalistico, insieme con la sua capacità nell'espressione dell'ethos (Aristotele, Poet., 1448a; 1450a) o del pathos (Luciano di Samosata); non era l'azione ad essere rappresentata, ma immagini statiche dove l'avvenimento, al quale tutti partecipavano, aveva valenza morale e riguardava il destino dell'uomo. Un cratere di Orvieto (449. Pittore dei Niobidi. Cratere di Orvieto; 460-450 a.C.; Parigi, Louvre) decorato con il mito dei figli di Niobe uccisi da Apollo e Artemide - nel quale i personaggi sono dipinti su vari livelli - richiama immediatamente la descrizione di Pausania di una celebre opera di Polignoto a Delfi, nella quale la posizione delle figure è ripetutamente precisata con gli avverbi "sopra" e "sotto". Allo stesso modo, la ricerca dell'espressione nelle opere di questi ceramografi ci riconduce alla notizia pliniana secondo la quale Polignoto avrebbe aperto la bocca delle figure fino a mostrarne i denti e avrebbe sostituito all'antica severità del volto differenti espressioni.
Ma la ricerca psicologica si approfondisce anche con il pittore di Penthesilea, che si sforza di rendere il carattere (ethos) dei suoi eroi, come nella scena in cui Achille si innamora della regina delle Amazzoni nel momento stesso in cui la trafigge a morte (379. Pittore di Penthesilea, Coppa di Monaco; 470 a.C.; Monaco, Antiquarium). Anche qui si può ricordare che, a detta di Aristotele, Polignoto era un valente ethographos (pittore di caratteri). La figura di Achille schiacciata dall'orlo della coppa sembra ricevere da questa compressione la forza per trafiggere l'amazzone. Gli sguardi dei due che si incrociano, pieni di un sentimentalismo che rivela l'amore ormai impossibile, conferiscono alla scena un forte pathos emotivo.
Stessa contrapposizione tra le due figure chiave della rappresentazione si riscontra anche nella 380. Coppa di Zeus e Ganimede conservata al Museo di Spina. Qui il re degli dei afferra con forza il fanciullo per rapirlo e trascinarlo nell'Olimpo in un incrocio concitante di sguardi e di movimenti.
Ai pittori precedenti si ricollega, in quanto ad abilità nel rappresentare la suggestione della scena rappresentata, il pittore di Pistoxenos, che nello skyphos di Schwerin (378a, 378b) rappresenta una situazione di sinistra quiete che prelude ad un evento drammatico. Su un lato il vecchio maestro Linos siede con la lira tra le braccia di fronte al figlio di Anfritione, Iphikles. Tra i due, al centro in alto, è raffigurata un cetra appesa. L'atmosfera è quella di un ambiente di studio, di concentrazione dei due soggetti atti, l'uno ad insegnare, l'altro ad apprendere. Sull'altro lato troviamo invece Herakles accompagnato da una vecchia ancella che porta la lira. "Senza minimamente forzare la situazione, l'artista fa intendere che un elemento perturbante è entrato nella quieta atmosfera di lavoro. E che, malgrado la sua giovanissima età e innocenza il ragazzo dai capelli crespi e dagli occhi larghi da torello selvaggio è il destino a cui il mite vecchio musicista sarà vittima" (da Bianchi Bandinelli, Paribeni).