Il messapico (lingua degli antichi Messapi) fu parlato nel Salento prima della conquista romana (e prima della successiva diffusione della lingua latina) ed è documentata da antiche glosse e da iscrizioni (spesso brevi) che vanno dal VI-V secolo a. C. fino agli ultimi tempi della Repubblica romana (e, forse anche, ai primi dell’Impero).
Non a caso abbiamo precisato che il messapico era la lingua dell’antico Salento, e non di tutta la regione apulo-salentina (composta dalle odierne province di Foggia, Bari, Taranto, Brindisi e Lecce): sembra ormai chiaro che i documenti a nostra disposizione non ci consentono di pensare a un’intima e costante unità linguistica tra la Daunia (prov. di Foggia), la Peucezia (prov. di Bari) e il Salento. Gli scarsissimi documenti dauni e peuceti presentano una serie di peculiarità che li distinguono da quelli, ben più numerosi, della Messapia propriamente detta: ciò non esclude però che Daunia, Peucezia e Messapia abbiano costituito, in epoche più antiche (tra il X e il IV secolo all’incirca) una più vasta unità (etnico-)linguistica che, genericamente chiameremo «japigia». Ci permettiamo quindi di avanzare l’ipotesi che già nei primi tempi della conquista romana esistesse, forse con gli stessi confini odierni, una differenziazione linguistica nell’ambito di quella che sarà poi la Regio II (Apulia et Calabria) o che esistessero almeno le premesse per il dualismo dialettale pugliese-salentino, ancor oggi preciso e netto.
Si potrebbe forse indicare meglio il divario fra le due aree, apula (dauno-peuceta) e messapica, ammettendo che la prima sia stata esposta, più a lungo e più intensamente, a certi influssi dell’area italica: si veda, ad esempio, la sincope della vocale nell’ultima sillaba in dazims contro il messapico dazimas.
È opinione comune degli studiosi che la lingua messapica fosse strettamente imparentata con quella degli antichi Illiri. La connessione, a dire il vero, si basa sulla testimonianza degli storici antichi e su una massa di concordanze onomastiche, piuttosto che su di una puntuale dimostrazione linguistica: e ciò dipende moltissimo anche dalla mancanza di iscrizioni redatte in lingua illirica.
La situazione linguistica di quella zona dell'Italia settentrionale compresa tra il Piemonte orientale, la Lombardia e il Canton Ticino meridionale è piuttosto complessa per la quasi impossibilità di separare gli elementi che si sono intrecciati e sovrapposti nel tempo.
Dal punto di vista storico è documentata ampiamente nell'Italia settentrionale la presenza di popolazioni Liguri (in una zona ben più ampia dell'attuale Liguria che comprendeva anche una parte del Piemonte, le Alpi Apuane, la Lunigiana) e di popolazioni Celtiche che a cominciare dall'anno 1000 a.C. si infiltrano nell'area della Cisalpina.
I Liguri sono, insieme ai Galli, la popolazione dell'Italia settentrionale su cui le fonti antiche forniscono maggiori quantità di notizie rispetto ad altre importanti popolazioni come i Veneti, i Reti, gli Euganei, i Leponzi per i quali però l'archeologia ha permesso di ricostruire un articolato quadro culturale. Nel caso dei Liguri, a una relativa ricchezza di fonti storiografiche si contrappone una povera e frammentaria documentazione archeologica. Ciò non è forse casuale; é probabile che la povertà di fonti archeologiche nel territorio ligure sia il riflesso di un mondo culturale in cui le forme di organizzazione economica e sociale erano rimaste ad uno stadio più arcaico. In altre parole, il territorio era forse ancora organizzato in piccoli nuclei sparsi, piccoli villaggi demograficamente poco consistenti, senza la comparsa di quei fenomeni di concentrazione degli insediamenti che prendono il nome di comprensori proto-urbani e che caratterizzano, per esempio, in modo evidente Golasecca, Este, Bologna.
Le prime testimonianze del nome dei Liguri appaiono nelle fonti greche del VII-V sec. a.C.: queste prime testimonianze (Esiodo, il geografo Ecateo,etc.) non ci danno molte notizie, si limitano a dei cenni sulla collocazione geografica di questa popolazione confinante con i Celti da una parte (a Nord) e con i Tirreni dall'altra (a sud-est).
Come è difficile definire l'identità etnica dei Liguri così è difficile definire il loro rapporto con i Celti; e altrettanto difficile sul piano linguistico risulta l'identificazione del "ligure". Un tempo venivano raggruppate sotto l'etichetta di "ligure" quelle varie manifestazioni di tipo o aspetto non indoeuropeo affioranti non solo nella zona propriamente ligure, ma anche in area gallica iberica, alpina. Le recenti revisioni operate da A. Maggiani e AL Prosdocimi dei dati epigrafici del ligure (iscrizioni della Lunigiana del 500 a.C. ) hanno mostrato che ci troviamo di fronte a iscrizioni in alfabeto etrusco, ma in lingua non etrusca, ma con tratti celtici. La documentazione indiretta del ligure, costituita dall'onomastica e dalla toponomastica, nonché da certi parole riscontrabili in iscrizioni di età romana (p. es. la famosa sententia Minuciorum del 117 a C.) non consente l'automatica identificazione del ligure col celtico (non appaiono infatti certi fenomeni tipici del celtico come, per esempio, p- > O; g h > b.). Quindi siamo in presenza di una lingua che non è celtica ma che, nello stesso tempo, non mostra caratteri decisamente anticeltici. Allo stato attuale sembra dunque possibile affermare che i dialetti liguri appartenessero a quella famiglia europeo-occidentale a cui appartenevano i dialetti celtici, senza però poter procedere a una identificazione del ligure col celtico: Liguri e Celti sono due etnie differenti che si differenziano anche linguisticamente, pur essendo possibile ammettere una loro antica parentela.
Quanto ai Celti si può dire che questa popolazione fece il suo ingresso nella storia proprio in Italia con un evento molto importante: il sacco di Roma da parte dei Galli Senoni, raccontato da Livio (V, 33 s.), che ha avuto una forte influenza nella storiografia e nelle concezioni storiche antiche, per cui quando si parla di Celti in Italia pensa subito ai Galli, cioè a quella etnia transalpina arrivata per invasioni intorno al 400 a.C.
In corrispondenza di questa realtà storica vi è il corrispettivo archeologico, ovvero la cultura di La Tène, che, ritenuta celtica, e imponendosi bruscamente in Italia a partire dal V sec. a.C., favorisce l'identificazione del celtico col gallico. Il corrispettivo linguistico sarebbero alcune tarde iscrizioni galliche (di Briona, Todi, Vercelli, Garlasco), molta onomastica e tracce nella toponomastica.
Rispetto a questo quadro però la linguistica rivela un celtico d'Italia che, per cronologia, si pone anteriormente alla realtà storica dei Galli:
Si tratta di:
1) Il "leponzio", cioè la lingua indicata con questo nome (semi-)convenzionale, dotata di un alfabeto proprio (cosiddetto "leponzio"), attestata in alcune iscrizioni pre-romane concentrate soprattutto sui laghi lombardi; si tratta di una lingua celtica che attesta una celticità anteriore al V sec.: l'iscrizione di Prestino in alfabeto leponzio si pone infatti tra la fine del VI e l'inizio del V sec, a.C.
2) Le già nominate iscrizioni sulle stele della Lunigiana databili al 500 a.C., in alfabeto etrusco, presentano, malgrado il loro numero ristretto (sono solo 4!) e la illeggibilità di alcune, tratti celtici.
3) Presenza di onomastica celtica. in iscrizioni non celtiche (venetiche, etrusche) anteriori al 400 a.C..
Questi elementi indicano la presenza di una comunità celtica in Italia in epoca anteriore alla documentata presenza storica dei Galli, arrivati per invasioni attorno al 400 a.C.
Il gallico si diffuse in tutta la pianura padana (ma non pienamente in Liguria), nell'Emilia, nelle Marche settentrionali fino all'Esino che costituisce una barriera dialettale notevole anche ai nostri giorni.
Le invasioni galliche a ovest e a est (Carnia, Friuli) vennero ad accerchiare il territorio degli antichi Veneti nel quale i Galli non sono penetrati che con infiltrazioni sporadiche attestate, per esempio, da toponimi in -acum (odierno -ago). La riprova di questa "resistenza" dei Veneti alla penetrazione gallica è data dai dialetti moderni: il dialetto veneto non ha caratteri "gallici" e non si annovera tra i dialetti gallo-italici.
Un gruppo di Galli, non sappiamo di quale consistenza e non sappiamo per qual preciso avvenimento storico si stanziò in una zona dell'Italia centrale, come è testimoniato da un'epigrafe bilingue gallica e latina rinvenuta a Todi, pubblicata nel 1838, incisa su entrambe le facce. La presenza di Galli in quell'area dell'Italia centrale spiegherebbe quel fenomeno dialettale, che si riscontra nella Toscana orientale (zona di Arezzo), costituito dal passaggio di a ad e molto aperta. Questo tratto, presente nei dialetti emiliano-romagnoli e nel piemontese (p. es. coniugazione in -e < ere < are), è considerata una caratteristica del sostrato gallico e per questo il linguista Clemente Merlo, a proposito del passaggio di a ad e nella zona di Arezzo, parlava di "spia celtica".
Il contributo più importante alla conoscenza dei Veneti è venuto dalle ricerche condotte sul sito di Este, località a circa 35 km da Padova. Qui, nel 1876, furono rinvenute varie necropoli e queste prime scoperte avviarono una lunga e fortunata stagione di scavi che, nell’arco di vari decenni, ha permesso di raccogliere una quantità eccezionale di reperti. L’antica Ateste fu uno dei maggiori centri veneti e la sua importanza fu subito intuita da uno dei primi esploratori, Alessandro Prosdocimi, che già nel 1882 decise di riunire sotto la definizione di «cultura atestina» il contesto culturale che si andava delineando. Gli studiosi preferiscono oggi parlare di genti venete e paleovenete e attribuiscono all’espressione coniata da Prosdocimi un valore soprattutto convenzionale.
Le fasi più antiche della storia del popolo veneto sono conosciute solo parzialmente e le scoperte finora effettuate hanno permesso la ricostruzione di un quadro ancora lacunoso. La situazione è nettamente diversa per il periodo compreso tra il X-IX secolo a. C. e l’epoca in cui il Veneto divenne una provincia romana. Lo sviluppo della civiltà dei veneti nel corso del I millennio è infatti il fenomeno meglio conosciuto e la sua articolazione corrisponde a quattro momenti cronologici ben distinti: il primo va dalla fine del X a tutto il IX sec. a. C.; il secondo dall’VIII alla fine del VI sec. a. C.; il terzo dalla fine del VI alla metà del IV e il quarto dalla metà del IV alla romanizzazione (II sec.). I periodi più significativi e caratteristici sono i primi tre (in particolare il terzo), poiché nel quarto, con il graduale diffondersi della cultura romana, molte delle espressioni più tipiche di quella veneta si fecero meno incisive e finirono poi con lo scomparire.
La situazione che dobbiamo immaginare all’indomani del X secolo a. C. è quella di una civiltà fiorente, i cui insediamenti coprivano un territorio in larga misura corrispondente a quello dell’odierno Triveneto e con un assetto sociale già piuttosto evoluto. La sussistenza si basava in primo luogo sulla pratica dell’agricoltura e dell’allevamento, ma fin dalle fasi più antiche un contributo rilevante fu garantito dagli scambi commerciali. Sin da tempi molto remoti, la regione veneta aveva costituito un ideale trait d’union fra l’area padano-alpina e alcune delle zone cardine dell’economia mediterranea, prime fra tutte l’Italia meridionale e il mondo egeo, e con l’avvento dei Veneti i traffici divennero ancora più intensi. Uno degli effetti più vistosi di questo importante fenomeno economico ed imprenditoriale fu la diffusione di materie prime, come l’avorio africano o l’ambra di origine baltica, importati sotto forma di prodotti finiti o anche di materiale grezzo, che veniva affidato alle abili mani degli artigiani veneti.
Le città più importanti furono la già ricordata Este e Padova (che non è, come si credeva fino a poco tempo fa, una semplice irradiazione di Este, piuttosto invece un importante centro autonomo), le cui necropoli costituiscono la più ricca fonte di informazione a tutt’oggi disponibile e i corredi recuperati hanno avuto il merito di fornire indicazioni sulla cultura materiale e sull’assetto sociale ed economico delle genti venete. Le tombe atestine e quelle padovane sono nella maggior parte a cremazione, ma differiscono per la soluzione adottata al momento della deposizione delle ceneri e del corredo: cassette quadrangolari composte da lastre calcaree a Este e dolii in ceramica a Padova. Ricerche condotte su sepolcreti in cui è stato portato alla luce un elevato numero di tombe hanno dimostrato che esistevano forme di raggruppamento delle sepolture basate sull’appartenenza dei defunti al medesimo gruppo parentelare e anche sulle differenze di rango che esistevano tra le varie classi sociali.
I pezzi più pregiati del corredo funebre erano nella maggior parte dei casi armi e manufatti in bronzo che, dalla fine del VII secolo a.C. in poi, trovarono la loro più felice espressione nelle situle, contenitori a forma di secchiello solitamente in metallo, più raramente in terracotta, di forma cilindrica o di tronco di cono rovesciato, con la parte stretta in basso, spalla arrotondata oppure a spigolo, fondo piatto o arrotondato. Poteva essere con o senza manico.
«Venetico» è il nome convenzionale dato alla lingua di alcune iscrizioni preromane del Veneto, dell’area alpina e della zona nord-orientale fino all’Austria, con l’esclusione del Trentino e dell’alto veronese (che invece hanno restituito iscrizioni in retico). Il termine si riferisce solo ai fatti linguistici, mentre per quelli archeologici vale la definizione più generica di «paleoveneto».
In questa lingua si conservano tra le duecento e le trecento iscrizioni, che continuano ad aumentare con nuovi ritrovamenti, in alfabeto etrusco e poi latino, databili negli ultimi cinque secoli a.C. Si tratta di testi brevi e ripetitivi (iscrizioni funerarie e votive), che non forniscono una conoscenza esaustiva della lingua, ma che tuttavia consentono di fare alcune deduzioni.
Le iscrizioni venete cominciarono ad essere raccolte nel Rinascimento. Nel XIX secolo C. Pauli ritenne che la lingua in cui erano scritte fosse l’illirico. Per questa identificazione non si basò su argomentazioni linguistiche, bensì sull'interpretazione di un paio di passaggi di Erodoto (I 196 e V 9) in cui si parla di ‘Ενετοι (i veneti), ubicati nella zona adriatica, come parte del popolo illirico. L'illiricità dei veneti delle nostre iscrizioni fu accettata e godette di larga diffusione nella comunità scientifica al punto che, quando anni più tardi Pisani e Krahe dimostrarono che Erodoto si riferiva ad una determinata popolazione dei Balcani e non del nord Italia, l’idea del carattere illirico dei veneti continuò ad essere accettata da molti.
Negli anni Quaranta H. Krahe, che inizialmente aveva accettato il carattere illirico del veneto, passò a considerarlo un gruppo indipendente, che dialettalmente sarebbe stato vincolato al germanico, all'italico e all’illirico. M.S. Beeler, nello stesso periodo, ne propose la filiazione italica, con un particolare legame con il latino. L’ultimo grande specialista ed editore dei testi veneti, A.L. Prosdocimi, propende chiaramente per la tesi di Beeler.
Il venetico ha infatti varie caratteristiche che lo avvicinano al latino: ha un trattamento delle aspirate indoeuropee simile a quello del latino: *bh, *dh > f/b, f/d in entrambe le lingue secondo la posizione iniziale/anteriore; mantiene il gruppo kv (venetico ekvon, latino equum; venetico -kve, latino -que); ha il dativo plurale in -bos e il genitivo singolare tematico in -i, che sono molto simili a quelli latini; ha infine il pronome personale di prima persona ego identico al latino.
Iscrizioni.
ISC. 29.10. Si tratta di un tipico monumento funerario atestino, cippo piramidale di trachite locale, con iscrizione. II formulario normale è del tipo «io (la tomba che parla) a... formula onomastica al dativo)» che trova corrispondenze sostanziali anche in etrusco Cronologicamente i cippi sono databili tra il IIl e il IV periodo atestino (secc. V-III).
e. χovo.l.tiiomno.i.iuva.n.tiio.[i.]
ego Voltiomnoi luvantoi
Interpretazione. «lo (cippo) (sono dedicato) a Voltiomno Iuvanto (dativo in -i)», I puntini nella iscrizione servono ad isolare le consonanti e le vocali che non fanno parte dei gruppi CV: in questo caso la seconda i nel gruppo ii è da considerarsi con valore semiconsonantico j.
Fa eccezione il gruppo mn che probabilmente doveva essere pronunciato con un suono unico.
ISC. 30.10.a Tavoletta in bronzo con ansa semicircolare, dalla stipe votiva di Este scavata negli anni 1880-1886. Conservata nel Museo Nazionale Atestino. Misure: cm 17,5 x 12,5; lungh. con l'ansa 21. I margini sono rilevati con bottoncini. L'iscrizione è relativamente recente, come in generale, il complesso del santuario di Este. h è segnato dal segno -|-.
Nella parte centrale contiene un'iscrizione dedicatoria, che ha ductus sinistrorso e segue un percorso ad U rovesciato.
meχo zonas.tovo.l.tiiomno.s.iiuva.n.t/.s.a.riiu/n.s.s'a.i?nate.i.re.i.tiia.i
mego donasto Voltiomnos Iuvants Ariuns S'ainatei Reitiai
Interpretazione. «mi ha donato V. I. A. a S. R.». Ariuns: è terzo nome del dedicante e poteva indicare o l'avo paterno o il gentilizio o un epiteto. S'ainatei: probabilmente vuole qualificare Reitia come divinità salutifera. Reitia: su questo nome sono state avanzate varie ipotesi, tra le quali quella che lo ricollega al latino rectus per indicare una dea del diritto e della giustizia. In effetti la prima i potrebbe essere letta anche come h per la somiglianza trai due segni. Sopra e sotto l'iscrizione abbiamo gruppi consonantici che hanno anch'essi ductus sinistrorso e seguono un percorso ad U rovesciato: vhr, vhn, vhl, kr, kn/zl, mp, mn, m/l, pr, pn, pl, s'r, s'n, s'l, sr, sn, sl, kr, kn, kl, kv, vh. Sull'ansa: φr,φn, φl, χr, χn, χl.
Nella parte inferiore la tavoletta è suddivisa in cinque fasce di sedici caselle ciascuna. La prima fascia inferiore riporta le quindici consonanti nel loro ordine, più un segno convenzionale, nelle altre quattro si ha la scritta akeo ripetuta per sedici volte. Questa sequenza può significare o il nome dell'alfabeto formato dalla prima e dall'ultima lettera corrispondente (come per to alpha kai to omega, con ke corrispondente a kai, quindi a que latino), ripetuta con valore magico sacrale (non a sproposito in un santuario) o l'inventario delle vocali: in questo caso «k» è da sciogliere come legatura di «i» ed «u».
È evidente comunque che tavolette di questo tipo (ne sono state ritrovate altre simili nel santuario di Reitia) contengono i capisaldi per l'insegnamento e l'apprendimento della scrittura, cioè fondamentalmente la costruzione delle sillabe, come si deduce anche dalla puntuazione sillabica. Questa sembra voler isolare le consonanti e le vocali non comprese nella sequenza C + V o C + r, l, n + V (vd. ISC. 30.10.c).
Quindi il santuario di Reitia rappresentava molto probabilmente un importante centro scrittorio come si evince anche dal ritrovamento di numerosi stili scrittori (con la punta per incidere e la spatola dall'altra estremità per spalmare la cera) offerti come ex-voto alla dea.
ISC. 30.10.b. I cosiddetti «chiodi» o «spilloni», l'ex voto più frequente della stipe di Reitia sono in realtà degli stili scrittori con la punta per incidere e la spatola dall'altra estremità per spalmare la cera. Stilo scrittorio a forma piramidale a quattro facce.
meχozona.s.tos'a.i./nate.i.re.i.tiia.i.pora.i./
.e.χetora.r.i.mo.i.kelo/.u.zeroφo.s.
mego donasto S'ainatei Reitiai Porai
Egatora (A)imoi ke louderobos
Interpretazione, «Mi donò a Sainatei Reitia Pora (nome di divinità in dativo in -i) Egatora (soggetto) in favore di Aimo (dativo di vantaggio, evidentemente il marito) e dei figli dativo di vantaggio in -bos)».
S'ainatei Reitiai Porai: nome della divinità in dativo. Pora (?). Egatora: soggetto. Aimoi e louderobos sono anch'essi in dativo, evidentemente di vantaggio. ke è congiunzione coordinante non enclitica: cfr. lat. que. louderobos si può confrontare con il latino liberis.
30.10.c (Pa 2). Padova ha un monumento sepolcrale caratteristico, la stele figurata: non vi sono prove dirette della funzione funeraria, ma indizi probanti (formulario, provenienza, accertata, per alcune, da aree di necropoli) rendono verosimile - almeno fino a prova contraria - l'identificazione.
plete.i.ve.i.χno.i.kara.n.mniio.i.c.kupeϑari.s.e.χo
Pletei Veignoi Karanmnioi ekupetaris ego
Interpretazione. «io ekupetaris (in ricordo di, in favore di, per) a P. V. K.»
Sul termine ekupetaris sono state formulate varie ipotesi. Alcuni, per via etimologica, lo hanno tradotto come «cavallo» o «auriga» per la somiglianza con il latino equus: tuttavia non sempre sulle steli è raffigurato il cavallo. Altri hanno pensato ad un nome proprio, anche se esso compare troppo spesso per esserlo. Oggi la traduzione maggiormente accettata è quella di «stele» in base al confronto con «iscrizioni parlanti» di altre lingue.
ISC. 30.10.d. Stele da Camin
Puponei ego Rakoi ekupetaris
Interpretazione. «io stele (in ricordo di, in favore di, per) a P. R.»
Si noti la costruzione ad incrocio dativo-nominativo-dativo-nominativo.
ISC. 30.10.e (Pa 9). Altre iscrizioni patavine si trovano su caratteristici ciottoloni di porfido alpino. Sembra che esse volessero ricordare persone di cui tu persa ogni traccia (ad esempio persone morte in combattimento), come si evince dal ritrovamento recente di un ciottolo che riporta la frase «per lui vivo o morto. A parte questo esempio solitamente il formulario è limitato alla sola onomastica.
ISC.31.10. Ciottolo ovoidale di calcare compatto, simile ai ciottoloni di cui sopra, ma diverso per forma e natura (ottenuto ad arte e non naturale). Si tratta fino al momento di un unicum. La zona dove é stato trovato é al confine tra gli attuali comuni di Cartura e Permunia, in epoca paleoveneta al confine tra i territori di Este e Padova, ma non appartiene a nessuna delle due tradizioni: donde il problema dell'attribuzione territoriale. L'iscrizione è accuratamente predisposta tutt'intorno all'oggetto, così da occupare l'intera circonferenza; dove si congiunge è separata da un punto. Essa fu edita da Alessandro Prosdocimi (1971-72) e ristudiata da A. L. Prosdocinmi (1972) con una interpretazione di cui riprendiamo gli estremi.
eχovhonteierniioivinetikarisvivoioliialekvemurtuvoiatisteit
ego Fontei Ersinioi vinetikaris vivoi olialekve murtuvoi atisteit
Riconoscendosi ego, e in atisteit un verbo alla terza persona, si deve porre una frattura sintattica, cioè almeno due proposizioni. Poiché atisteit richiede un soggetto che, per morfologia, non può essere che vinetikaris, si ha: ego Fontei Ersinioi. Vinetikaris vivoi olialekve murtuvoi alisteit.
Ego + formula onomastica binomia al dativo (Fontei Ersinioi) corrisponde al normale formulario sepolcrale atestino; si traduce quindi: «io (e l'oggetto che parla) (sono qui) per Fonte Ersinio».
vinetikazis, come detto, è il personaggio che compie l'azione atisteit per (Fonte Ersinio) vivo (dat.) olialekve morto (dat.). Poiché il destinatario (Fonte Ersinio) ha formula onomastica binomia, è probabile che vinetikaris non sia formula onomastica (essendo monomia) ma un nome comune, per esempio di rapporto parentale. Infatti vinetikaris si può scindere in vineti-kari-s, in cui vineti richiama un nome proprio e kari si può avvicinare al lat. carus nel senso di «amore», quindi «moglie». Dunque, insieme, «moglie di Vineti». atisteit è verbo di terza persona singolare come indica il suffisso indoeuropeo. Confrontando termini di altre lingue si è giunti alla conclusione che possa avere il significato di «porre», olialekve è probabilmente congiunzione coordinante avversativa, quindi «oppure». La radice è quella del lat. olim e -kve corrisponde al lat. -que nella funzione di ubique, quandoque, anche se il parallelo morfologico più prossimo è offerto da greco alloste. Dunque l'interpretazione più accreditata della seconda proposizione è: «moglie di Vineti pose (per lui = Fonte Ersinio) vivo oppure morto». Quanto al significato dell'iscrizione, sembra che essa voglia ricordare Fonte Ersinio qualificato come «vivo oppure morto». La compresenza di questi due termini si può spiegare solo col fatto che che chi ha dedicato questo oggetto non conoscesse la reale sorte di Fonte Ersinio, evidentemente assente da lungo tempo.
Altre lingue presentano caratteristiche che il latino ignora - quali genitivi in -eis nella seconda declinazione e soprattutto il cambiamento di antiche spiranti come *bh e *dh che diventano f persino all'interno di parola. Questi tratti comuni individuano un gruppo distinto, l'«osco-umbro», qualche volta designato sotto il termine di italico orientale. Effettivamente, se ne trovano testimonianze a est delle regioni etrusche e latine, ma anche in Campania, in Lucania e nel Bruzzio. A questo gruppo appartengono l'umbro, il sud-piceno, l'osco, il sabino e altre parlate centrali minori di cui si trovano attestazioni nella zona situata tra la Sabina e il Sannio.
La presenza di quei tratti comuni a queste diverse lingue di cui abbiamo parlato e di altri, porta a farci pensare all'esistenza di una unità originaria precedente alle varietà storiche testimoniate dalle fonti romane: una unità che probabilmente non era solo linguistica, ma anche culturale ed etnica. Questo sembra essere confermato esplicitamente dalle fonti antiche: Zenodoto (in Dion. Hal. 2, 49) parla di Sabini come derivati dagli Umbri; Strabone (5, 3, 1 = 228) parla di Sabini autoctoni da cui sarebbero derivati i Picentini e i Sanniti; dai Sanniti i Lucani e dai Lucani i Bruzzi, Quindi schematizzando, si avrebbe:
Questa unità originaria sembra trovare conferma anche nelle testimonianze epigrafiche: su una stele in lingua sud-picena proveniente da Penna Sant'Andrea (isc. 05.11) compare la parola Safinùm che è da ricollegarsi evidentemente con Sabino, della Sabina. Viceversa dall'area della Sabina storica, in particolare da Cures, proviene un'iscrizione con grafia, morfologia e lessico di tipo sud-piceni e con in più la presenza del termine Safini. Quindi sembra accertata la relazione linguistico-culturale tra l'area sud-picena e quella sabina e dunque tra Sabini e Sanniti. Inoltre la critica moderna trova conferma anche della relazione tra Sabini e Sanniti nella derivazione dei loro nomi da una comune radice "sabh-indoeuropea, che divenne sab- in latino e saf- (safinim) in osco-umbro, per assimilazione Samnium per i Romani. Inoltre un Safinim compare sia in un'iscrizione del Sannio (Ve. 149) che in una moneta rinvenuta in Campania.
Resta ora da capire che cosa indicasse il termine Safinim: secondo l'ipotesi oggi più accreditata, tale termine doveva indicare un'unità etnico-linguistica che associava quei popoli italici che parlavano lingue del gruppo osco-umbro.
A conferma di questo sta il fatto che, durante la guerra sociale del 91-88 a.C. i socii italici coniavano monete con la scritta Safinim come ad indicare, in contrapposizione a Roma, un recupero di origini comuni.
Iscrizioni
ISC. 05.11. Parte di stele in pietra locale, rinvenuta nel 1973 a Penna S. Andrea (Teramo); conservata nel Museo Nazionale di Chieti. Misura cm 74 di altezza, cm. 45 di larghezza e cm. 12,5/16,5 di spessore; costituisce la parte superiore di una stele (la parte inferiore è mancante). È presente la figurazione schematizzata di un volto umano a rilievo su uno specchio sovrastante l'iscrizione. L'iscrizione corre su un'unica linea lungo tre lati della faccia principale, appoggiata ai bordi esterni e al bordo sotto il rilievo figurato; il verso della scrittura alterna in dipendenza del cambiamento di lato, ed appare così in successione, destrorso-sinistrorso-destrorso; le lettere misurano in media 4,5 cm in altezza.
Sull'andamento originario dell'iscrizione si possono fare tre ipotesi:
Riportiamo qui il testo secondo l'ipotesi 1:
]nis safinùm / nerf pe / rsukant p
L'interpretazione è la seguente: «...i capi (nerf) dei Sabini celebrano...»
2.2.2.1. L'osco
Il nome «osco» è probabilmente l'adattamento al latino di «opico», termine che viene ricollegato alla radice sannita ops-, corrispondente al latino opus, e che potrebbe significare «popolo dei lavoraiori» (Devoto).
Infatti il nome di «opici» fu dato dai Sanniti ad un popolo, forse indoeuropeo, che essi incontrarono in Campania durante la loro espansione che portò alla conquista di una vasta area, il cd. Sannio, comprendente oltre alla Campania, anche l'Abruzzo, il Molise e parte della Calabria. I Sanniti si fusero con gli Opici e, probabilmente, con «oschi» i romani indicarono la popolazione sorta da questa fusione: in questo modo si spiegherebbe il fatto che il termine «osco» viene usato dagli autori latini (Livio, Varrone) per indicare il linguaggio sannita.
Ancora oggi utilizziamo «osco» come sinonimo di «sannita, anche se, come ha fatto giustamente osservare A. L. Prosdocimi, sarebbe più corretto indicare con «osco» la lingua attestata prima del IV sec. a. C., e con «sannita» la lingua documentata dal IV sec. in poi, quando appunto i Sanniti appaiono sullo scenario storico.
Noi prenderemo in esame solamente la lingua propriamente sannita, perché è quella di gran lunga più conosciuta. Essa è nota attraverso alcune centinaia di iscrizioni rinvenute nel Sannio, in Lucania, nel Bruzio e anche nel nord-est della Sicilia (Messina). Queste iscrizioni sono redatte in tre distinti alfabeti (la cui adozione è indotta e condizionata da fattori storico-culturali): 1) sannita (detto anche «epicorico o «encorio»), con direzione della scrittura da destra a sinistra; 2) grec; 3) latino (questi ultimi generalmente con grafia ed andamento destrorso).
L'alfabeto sannita, derivato, come quello latino e altri, da un modello etrusco-modificato secondo le esigenze del sistema ricevente) viene utilizzato in Campania, Irpinia, Sannio, Frentania, Lazio meridionale. I testi più lunghi redatti in questo sistema grafico sono: il Cippo Abellano (da Abella; conservato nel Seminario Diocesano di Nola), trascrizione monumentale (su pietra) dei termini catastali e del regime giuridico-finanziario, concordati tra Abella e Nola, relativi a un santuario di Ercole; la Tavola bronzea di Agnone (dai pressi di Capracotta, vicino ad Agnone, poi passata al British Museum di Londra), che reca inciso sulle due facce il rituale di un santuario (elenco di altari e relative prescrizioni cultuali); numerose defixiones (maledizioni); e molte iscrizioni dal santuario di Pietrabbondante, e le iuvilas.
Il sannita in alfabeto greco (anche questo riformato rispetto alla fonte principale - per gli stessi motivi) compare a settentrione del Sele (p.e. a Sorrento), ma è ben documentato soprattutto in Lucania - dove il santuario di Rossano di Vaglio (PZ), ha restituito numerose dediche a Mefite - in alcuni siti della Calabria (antico Bruzio), su elmi (in genere votivi) di provenienza incerta e a Messina (iscrizioni dei Mamertini, mercenari campani che nel 285 a C. avevano costituito un effimero stato di tipo italico nella città dello stretto).
Con la romanizzazione dei territori italici l'alfabeto latino si sovrappone agli altri due, così anche il sannita viene scritto con questo sistema grafico. II testo sannita più lungo in alfabeto latino è la cd. Tavola Bantina (proveniente dai pressi di Banzi in Lucania, e ora conservata al Museo Archeologico di Napoli) di età sillana.
L'alfabeto tipico, quello detto appunto sannita o epicorico, è, come abbiamo detto, un alfabeto etrusco, modificato secondo le esigenze fonetiche della lingua parlata dai Sanniti. Le modifiche più importanti consistono nel: notare il d con il segno R conosciuto nel mondo greco e latino con r; rendere il suono r con il segno P; esprimere il fonema o, assente in etrusco, con la ù e introdurre il segno ì per indicare un suono intermedio tra i ed e.
Per quanto riguarda le caratteristiche linguistiche, dai testi in nostro possesso osserviamo: innanzitutto il passaggio, tipico delle lingue italiche, *bh, *dh > f sempre; l'occlusiva labiovelare sorda indoeuropea *kw che diventa p (q in latino); fenomeni di assimilazione come nd > nn (meno frequente mb > mm).
L'osco è una lingua conservatrice, rispetto per es. all'umbro. Sua caratteristica in tal senso è la conservazione dei dittonghi ai, oi, ou etc.: deìvaì, hùrtùì, touta. L'osco conserva gli ablativi in -d: toutad.; il genitivo singolare, a seconda delle declinazioni, è in -as e in -eis, plurale in -um, -ium.
Il fenomeno dell'anaptissi è esclusivo dell'osco: in alcuni gruppi consonantici si ha interpolazione di una vocale es. sakarakulum: la vocale si assimila alla sillaba che precede oppure a quella che segue.
Il verbo non è molto conosciuto: sono note forme di presente, futuro, perfetto dell'indicativo, una in tt , prufatted e una in -k (manca il perfetto sigmatico, cioè in -s).
La formula onomastica, studiata analiticamente dal Lejeune, si presenta differenziata da quella umbra: precede il prenome, segue il gentilizio, quindi il patronimico che si ricorda nei casi in cui il personaggio sia un primogenito.
Consideriamo ora i principali documenti redatti in lingua osca.
Tavola di Agnone. E una tavola di bronzo opistografa, attualmente al British Museum (misura cm 28 x 16,5) rinvenuta nel 1848. Sembra essere un documento di costituzione e regolamentazione di una associazione che ha in cura e/o in proprietà un recinto sacro. Non sembra essere un rituale come invece voleva R. Antonini, Devoto la considera precedente alla romanizzazione non riscontrando tracce di influenze romane. Prosdocimi, al contrario, ritiene che essa rifletta una mentalità politico-amministrativa tipicamente romana. Vetter la data al 250 a.C.
Iùvilas o Iovile capuane. Una importante testimonianza epigrafica osca è costituita dalle cosiddette iùvilas. Si tratta di 27 iscrizioni su stele di terracotta per lo più ornate di decorazioni, e su stele in tufo , rinvenute nei pressi di S. Maria Capua Vetere. Conway e Heurgon pongono il terminus ante quem al 211a.C., anno in cui a Capua sarebbe stata abolita la magistratura autonoma dei meddices, più volte menzionata nei testi. Il punto di divergenza è il terminus post quem. Mentre il Conway datava tutte le iùvilas al terzo secolo a.C., I'Heurgon alza fino alla metà del IV secolo a.C. la cronologia dei reperti più antichi - le terrecotte - per l'affinità del loro alfabeto con la leggenda di una moneta d'argento di Filistelia (battuta tra il 380 e il 350 a.C.) e per la somiglianza delle teste ivi eftigiate con certe antefisse della plastica etrusco-campana e con la ceramica detta di Cales; colloca, inoltre, le iscrizioni dei tufi alla fine del III secolo, utilizzando il confronto con le monete di Teano, Combulsteria e Nuceria Alfaterna. Se la cronologia può considerarsi ben impostata e, per quel che appare attualmente, in buona parte risolta, molti altri aspetti delle iùvilas restano problematici, Le stesse voci iùvila, iùvilu, iùvilas che compaiono nelle stele e le finalità delle iscrizioni non appaiono chiari. Pare comunque che iùvila non sia la stele stessa, o almeno non sia solo la stele, come taluni testi farebbero concludere, perché l'identità automatica iùvila-stele sembrerebbe smentita da alcune espressioni significanti che la iùvila si trova in un altro luogo rispetto all'iscrizione. Il Bucheler interpretò la voce iùvila con la perifrasi latina res ad lovem pertinentes stabilendo una relazione ritenuta per lo più valida dagli studiosi che hanno trattato l'argomento, ma che non ci illumina sulla finalità delle iscrizioni. A questo proposito, l'Heurgon cataloga le iùvilas come iscrizioni votive, il Vetter le qualifica come iscrizioni funebri. Ugualmente al culto dei morti le collega il Pisani. La maggior parte delle terrecotte è opistografa: il testo molto sintetico (il solo nome di persona o questo accompagnato dal dato calendariale) viene «completato dalle decorazioni che sovrastano le iscrizioni. I tufi sono inscritti su una sola faccia; un unico tufo è opistografo.
Cippo Abellano. È un cippo squadrato e levigato in pietra calcarea durissima alto m 1,92 e largo m 0,51 con uno spessore di m 0,27. Scoperto alla fine del '600 a Castel d'Avella, fu usato per molto tempo come gradino d'entrata ad Avella. Fu recuperato nel 1745 e poco dopo portato nel Seminario di Nola dove si trova attualmente. Presenta varie lesioni e una abrasione sulla superficie iscritta del lato B in dipendenza della riutilizzazione. Originariamente doveva essere infisso nel terreno fino al limite inferiore della scrittura. La lunga iscrizione è tracciata sulle due facce opposte del cippo. Il ductus è sinistrorso; le parole sono divise da un punto. Il contenuto sembra esprimere i termini catastali e il regime giuridico-finanziario, concordati tra Abella e Nola, relativi a un santuario di Ercole (sakaraklùm herekleis) del quale le due città si dovevano dividere sia l'uso che il mantenimento. Vengono nominati anche il kvaìstureì (questore) di Abella e il medìkeì deketasiùi di Nola che doveva essere o un magistrato con carica decemvirale o un magistrato delle decime.
Iscrizioni da Pietrabbondante. A sud di Agnone, in provincia di Isernia, sorge il moderno abitato di Pietrabbondante nei cui pressi, in località Calcatello, si trovano i resti archeologici di un importante complesso cultuale dal quale proviene il più cospicuo numero di documenti oschi che si conosca nel Sannio. La località era nota fin dall'800: infatti tra il 1840 e il 1859 vennero eseguiti dei lavori di scavo che misero in luce un teatro e un tempio (tempio A); con l'occasione fu rinvenuto un gruppo di iscrizioni (nn. 149-154 della raccolta del Vetter) di notevole importanza per la terminologia dedicatoria in esse contenuta. Nuovi scavi iniziati nel 1959 hanno riportato alla luce una serie di edifici minori tra il teatro e il tempio A e, dietro la cavea del teatro, un altro tempio (tempio B) di dimensioni maggiori rispetto al primo, ma di più recente costruzione. Un nuovo gruppo di iscrizioni si è aggiunto a quelle già conosciute, ampliando così le testimonianze relative all'edilizia sacra, alla pratica dei culti rivelando alcuni aspetti politico-istituzionali relativi a questo centro.
Defixiones o Tavole di maledizione. Si tratta di piccole tavolette in genere di piombo, dette anche «tabelle», attraverso le quali una persona il cosiddetto «mandante») malediva un'altra persona (il cd. «defisso») dalla quale aveva, a suo avviso, subito un torto. Questa usanza non era tipica esclusivamente del mondo osco, ma un po' di tutto il mondo antico, in specie di quello latino, greco ed egizio. Esistono vari tipi di defixiones: 1) defixiones con lo scopo di costringere chi aveva fatto il torto a risarcirlo (ad esempio per riavere la merce rubata); 2) defixiones iudiciarie con lo scopo di vincere una causa giudiziaria; 3) defixiones con lo scopo di costringere il rivale in amore a restituire la persona amata (questo sia da parte di uomini che di donne); 4) defixiones con lo scopo di ottenere vittorie nel circo. Queste tavolette sono state trovate soprattutto all'interno di necropoli o in aree santuariali in quanto spesso si approfittava della morte di una persona che veniva usata come tramite della maledizione verso gli dei inferi. Nel testo non viene di solito nominato il mandante, ma invece sempre il defisso. Talvolta è indicato solo il nome, altre volte vi sono frasi più complete che possono indicare anche il motivo della maledizione. Il verbo di maledizione può anche mancare. Ricorrono spesso le stesse parole, quindi si può pensare che esistessero anche precise formule magiche. Probabilmente per redigere il testo si ricorreva a sacerdoti o maghi esperti di queste pratiche che conoscevano la scrittura. Le tavolette in piombo venivano scaldate per essere piegate o arrotolate, ma quando si raffreddavano spesso si rompevano: a questo si deve lo stato lacunoso di molte defixiones. I Romani erano soliti piegarle e affiggerle con un chiodo: da qui il termine defixiones da defigo = «trafiggere».
Iscrizioni.
ISC. 07.11.a: rinvenuta a Pietrabbondante
n(ù)v(ius) vesulliaìs
tr(ebeìs) m(eddìss) t(ùvtiks)
ekik sakaraklùm
bùvaianùd aikdafed
Interpretazione. «Nuvio Vesullio (= della gens Vesullia) (figlio) di Trebio meddix tuticus questo sacello edificò (aikdafed) a Boiano». Questa interpretazione è quella data dal Mommsen poco dopo la scoperta. Essa sembrava aver risolto, a parere dello studioso, il problema topografico suscitato dal passo di Plinio dove si menzionavano due colonie di nome Boiano; colonia Bovianum Vetus et alterum cognomine Undecumanorum (N. H., III, 107). Il sito di Bovianum Undecumanorum veniva riconosciuto nell'odierna Boiano, per l'esistenza di un documento epigrafico del 75 d.C. Mentre Bovianum Vetus la cui ubicazione era fino ad allora sconosciuta, veniva identificata con Pietrabbondante che era il luogo di ritrovamento dell'iscrizione. Giustamente Adriano La Regina ha messo in dubbio l'interpretazione del Mommsen per quanto riguarda bùvaianùd aikdafed, notando che aikdafed è purtroppo ancora oscuro e che quindi la traduzione «a Boiano edificò» resta ipotetica, lasciando aperta la possibilità di altre traduzioni, quali ad esempio, «dedicò», Quanto all'ablativo bùvaianùd, La Regina osserva che il valore di stato in luogo è alquanto opinabile, dal momento che in osco l'ablativo, nelle determinazioni di luogo, indica un punto di partenza nello spazio, mentre per lo stato in luogo esiste il locativo: quindi non "a Boiano», ma «da Boiano». Per cuí La Regina propone la seguente interpretazione: «Nuvio Vesullio (= della gens Vesullia) (figlio) di Trebio meddix tuticus da Boiano questo sacello dedico, dove «da Boiano» indica il luogo di provenienza del soggetto (Nuvio), specificato perché probabilmente il santuario veniva usato da più città.
ISC. 13.11 (Ve 4). Lamina di piombo, rinvenuta arrotolata in una tomba della necropoli di Capua nel 1857. Conservata nel Museo Nazionale di Napoli. Misure cm 18 x 7,2. Si tratta di una defixio. Il ductus è destrorso. Tra la 6^ e la 7^ linea un segno orizzontale divide il testo in due parti.
steniklum . vìrriis
tryhpìu . vìrrìiis
plasis. bivellis
ùppiis. helleviis
lùvikis . ùhtavis
statiis . gaviis. nep fatìum. nep. deìkum putì[ans
lùvkis . ùhtaeis. nùvellum velliam
nep . deìkum . nep . fatìum. pùtìad
nep. memnim . nep. ùlam, sìfeì, [heriiad
Interpretazione. «Stenicolo Verrio, Tryphio Verrio, Plasio Bivellio, Oppio Helvio, Lucio Ottavio, Stazio Gavio, né parlare, né pronunciare possano. Lucio Ottavio la volontà dei Novelli né pronunciare né esprimere né ricordare possa, né quella per sé voglia». Si tratta di una defixio iudiciaria contro i Novelli «nella quale l'avversario si augura che i loro patroni e i loro aderenti non possano parlare e che specialmente Lucio Ottavio (forse l'avvocato) non possa né ricordare, né volere quello che i Novelli vogliono» (Bottiglioni).
Linea 1. steniklum: diminutivo. È evidente che in osco il diminutivo è trattato come un neutro, in analogia con il greco.
Linea 2. tryhpìu: Vetter, Bottiglioni ed altri traducono come forma onomastica. Pisani legge trillapìu nel senso cioè che la maledizione debba colpire la facoltà del parlare.
Linea 6. nep: corrisponde al lat. neque: si noti l'opposizione p/q. fatìum: infinito presente; cfr. lat. fari. deìkum: altro verbo del dicere probabilmente per rafforzare.
Linea 7. velliam: cfr. lat. voluntas. La doppia si spiega per geminazione davanti ad i. Si noti la costruzione osca soggetto-oggetto-verbo identica al latino, ma diversa dall'italiano dove abbiamo soggetto-verbo-oggetto.
Linea 9. memnim: infinito presente; cfr, lat. memini. ùlam è pronome riferito alla volontà dei Novelli. sìfeì è pronome personale corrispondente al latino sibi: si noti l'opposizione f/b.
ISC. 14.11.a (RV 17/42). Lastra calcarea larga cm 68, alta cm 60, spessa 15, combaciante a destra con un'altra lastra (RV 42) rinvenuta successivamente, di identiche dimensioni in altezza e spessore, dove l'iscrizione continua. Insieme dovevano costituire il basamento di una statua, probabilmente di Giove, al quale è dedicata l'iscrizione.
Loukis Nanonis Spelleis
kvaistor senateis
tanginod afaamated
dioveis
Interpretazione. «Lucio Nanonio (figlio) di Spelleo (in latino questo nome sarebbe preceduto da f.), questore, per parere del senato (senatus sententia) commissionò. A Giove»
ISC. 14.11.b (RV 18). Lastra come la precedente, ma larga 66 cm. L'iscrizione è incompleta nella parte destra, ma è stata integrata grazie al confronto con la precedente iscrizione (RV 17/42). Il contenuto è infatti identico tranne che nelle ultime due parole.
Loukis Nanonis Spelleis
kraistor senateis
tanginod afaamated
diovias diomanas
Proprio sulle ultime due parole sono state avanzate numerose ipotesi. Prosdocimi propone l'equivalenza di diomanas con il lat. dominae e quindi con il greco potnia nel senso di «signora». Avremo dunque «giovia signora», divinità probabilmente da identificarsi con Metite, dea principale del santuario di Rossano, alla quale è dato l'appellativo di «giovia» non tanto per indicare un possibile connubio con Giove, piuttosto per evidenziare la sua valenza celeste contrapposta a quella infera (in lat. «Giove» significa anche «cielo). Questo sembra risultare dal fatto che, contrariamente a quanto avviene in ambito classico per qualificare Giunone, sposa di Giove, «giovia» è scritto prima di «signora».
ISC 14.11.c (RV 19). Blocco calcareo a forma di parallelepipedo, alto cm 40, largo cm 35 e spesso cm 25. Iscrizione dedicatoria (in dativo) su due linee:
Zovei
pizei
La lettera «Z» di Zovei è l'evoluzione fonetica dell'originario gruppo d + j (jod) tipica del tardo alfabeto lucano. Lo stesso gruppo infatti in osco-sannita si evolve in i. Per quanto riguarda l'interpretazione di RV 19 sono state formulate varie ipotesi. Lejeune la interpreta come doppia dedica a Giove e ad un'altra divinità identificata per via etimologica come «fonte» (si veda il greco pidax). Altri non vedono la necessità di ipotizzare una ignota divinità autonoma parallela a Giove o a lui occasionalmente affiancata, ritenendo più probabile una qualifica di Giove espressa mediante un sostantivo, secondo il tipo Juppiter Lapis, quindi anche «Giove della fonte».
2.2.3. L'umbro
Annotiamo alcune caratteristiche salienti della lingua umbra. Diffuso è il rotacismo: si nota nell'evoluzione dell'umbro che us diventa ur e che l'umbro rotacizza l'occlusiva sonora d: es. arfertur da adfertus latino. Notiamo l'uso di postposizioni es: totaper = «per la città», *bh, *dh > f com'è tipico nelle lingue italiche. kw > p come nell'osco. Il segno simile alla nostra P doveva avere il valore di di rs com'è trascritto nelle tavole iguvine in alfabeto latino e che noi traslitterianmo con ˆr. Il segno simile alla nostra b aveva invece valore fonetico di ç ed è trascritto nelle tavole iguvine in alfabeto latino con s o s'. A differenza dell'osco i dittonghi si riducono: es. osco touta, umbro tota. Come nell'osco manca il perfetto sigmatico.
La documentazione dell'umbro è affidata quasi esclusivamente alle tavole iguvine (d'ora in poi anche TI): iscrizioni minori da altre località sono sufficienti a dare alla lingua una consistenza geografica extra-iguvina, ma niente di più. Di fatto l'umbro è sempre stato identificato con le tavole iguvine e noi seguiremo questa prassi.
«Le tavole di Gubbio... sono il più importante testo rituale di tutta l'antichità classica. Non possediamo nulla di simile né in lingua latina né in lingua greca: per trovare paralleli bisogna ricorrere a letterature del vicino o lontano Oriente» (Devoto, 1948).
Le TI furono trovate nel 1444, probabilmente nel teatro romano di Gubbio. Nel 1456 furono acquistate dal Comune di Gubbio nel numero di 7: e non sono mai state in numero maggiore, come si può dimostrare sulla base di questa e altre notizie antiche, precedenti alla fonte dell'errore, il padre Alberti (1550), che nella sua «Descrittione d'Italia» parla di due tavole «perdute» che in realtà non sono altro che la VI e la VII andate e poi tornate da Venezia (che Alberti non vide come risulta dalle misure fornite). A riprova, Stefano da Cremona nella vita di S. Ubaldo, edita dieci anni prima (1520) del presunto viaggio senza ritorno delle due tavole, parla di sette tavole.
Nel 1726 abbiamo la prima edizione delle TI, contenuta negli additamenta di Filippo Buonarroti al «De Etruria regali» del Dempster. Le tavole erano considerate etrusche poiché a quel tempo tutto ciò che non era latino veniva attribuito agli Etruschi. Altre edizioni sono quelle di Aufrecht-Kirchhoff e del Lepsius degli anni '30-'40 del 1800 con le quali si ha il distacco dall'etruscologia.
Molto importante è l'edizione del Devoto del 1937 nella quale, per la prima volta, si distingue l'edizione diplomatica (redazione del testo così come si presenta) dall'edizione interpretativa (redazione del testo con la separazione delle parole in base all'interpretazione). L'edizione più recente è quella del Prosdocimi «Le tavole iguvine» pubblicata da L.S. Olschki.
Le sette tavole sono di varia misura. Si possono raggruppare, per la continuità del testo, in quattro insiemi, cronologicamente distinti tra loro (conferma in ciò la grafia e la sostanza rituale): 1-I, III-IV, V, VI-VII.
In tutte le tavole la lingua è umbra, ma redatta in due diversi alfabeti: uno locale derivato da un alfabeto etrusco (di matrice perugino-cortonese) per I a-b, II a-b, III-IV, V a-b7; uno latino di epoca sillana (?) per V b8-18, VI a-b, VII a-b. In entrambi vi sono modificazioni per segnare dei fonemi tipici dell'umbro.
Le tavole, ad eccezione della III e della IV, sono scritte sulle due facce. Nella V, lato b, immediatamente al testo in grafia umbra segue quello in grafia latina. La separazione delle parole avviene a mezzo di due punti nella scrittura umbra, a mezzo di un punto in quella latina.
Per quanto concerne la cronologia, le TI vengono solitamente datate tra la prima metà del II sec, a.C e l'inizio del I sec, a.C. (quelle in alfabeto latino sono più recenti delle altre). Crediamo di poter fissare l'incisione di I a-b e di Il a ad epoca immediatamente posteriore al 168 a.C. se la formula defissoria di I b17 turskum naharkum numen iapuzkum numen è veramente indirizzata al «popolo degli Illiri» (iapuzkum numen) come è stato ipotizzato su base etimologica. Infatti nel 168 a.C. accadde un evento storicamente noto: Genzio, re degli Illiri e grande nemico di Roma, fu esiliato a Gubbio. La maledizione sembra essere stata dunque necessaria per esprimere esplicitamente il distacco della città da Genzio e dal suo popolo al fine di non compromettere i propri rapporti con Roma.
Il contenuto, seguendo l'ordinamento risalente al Lepsius, si distribuisce come segue: la tavola I e le sue corrispondenti in scrittura latina VI e VII contengono le prescrizioni per una cerimonia espiatoria (piaculum) dell'arce di Iguvium (I al-I b9, corrispondente a VI al-VI b47) ed una cerimonia lustrale (lustratio) del popolo (I b10-45 = VI b48-VII b4). Nella tavola II si ha l'indicazione di tre cerimonie: la prima per auspici avversi ed errori rituali (II al-14), la seconda relativa al sacrificio del cane a Hondo Giovio (II al5- 44); la terza relativa ai sacrifici per le decuvie (II b1-29). Offerta a Pomponio Poplicio e a Vesona nelle tavole III e IV. Norme per il funzionamento del collegio dei Fratelli Atiedii ai quali era affidata l'esecuzione di queste cerimonie (V al-b6, V b7-17).
I testi contenuti non sono quelli originari: i contenuti sembrano infatti da riferirsi ad una tradizione e ad un modello più antichi come indiziano le formule compendiose e alcuni arcaismi nella lingua. Inoltre la descrizione della lustrazione nella faccia b della tavola I, è più antica ma più scarna e Nolo riassuntiva di quella parallela nelle tavole VI e VII in alfabeto latino, che presentano costrutti sintattici più complessi e riferimenti ad altro. Una cosa del genere è spiegabile solo con l'esistenza di un modello più antico.
Nella struttura della città-stato di Gubbio si distingue fra la okri-, lat. arx, la città alta simbolo della sacralità e la tota, equivalente di lat. civitas, la città intesa come insieme dei cittadini e come espressione del potere civile.
C'è poi la trifu = tribus e cioè il territorio in senso geografico, e il poplo ossia la popolazione impegnata nelle armi, quindi i guerrieri. Gli appartenenti ad altre stirpi, ad altre popolazioni sono definiti con numen, lat. nomen. I maggiorenti vengono indicati con il termine di nerf, che sono distinti in s'ihitu e ans'ihitu, «cinti» e «non cinti», cioè rivestiti di cariche e non; i giovani sono distinti in hostatu e anhostatu, ossia alle armi e non.
I rituali principali descritti all'interno delle TI sono il piacubum (1 a-l 69 corr. VI a-VI b47) e la lustratio (I b10-45 = VI b48-VII b4). Grande importanza all'interno di questi avevano l'auspicium e il sacrificio.
Il piaculum nel mondo romano era un rito che si compiva per riparare a una colpa di carattere religioso. Poteva trattarsi di un'inadempienza rituale o di un semplice errore, magari inavvertito, nell'esecuzione di un rituale. Per garantirsi contro simili incidenti, si usava spesso fare dei piacula preventivi, come avviene nelle TI. Il piaculum consisteva per lo più o in un sacrificio di un animale (se preventivo) o nella ripetizione del rituale finché questo non veniva compiuto senza errori.
La lustratio era una cerimonia di purificazione di colpe commesse o non commesse (nelle TI «visseto» e «avisseto»), quindi con funzione sia espiatoria che preventiva. Spesso si riferiva ad un intera popolazione, come accade nelle TI, e i mezzi con cui veniva effettuata erano sacrifici animali o una processione del popolo attorno alla città (TI: «poplom aferom»), chiamata in lat. circumambulatio.
Prima di ogni rituale veniva compiuto l'auspicio, ovvero un rito che consisteva nel cercare di conoscere la volontà degli dei, interpretando, ad esempio, il volo degli uccelli. Duranti i rituali invece si ricorreva spesso a sacrifici animali che consistevano di tre momenti principali: 1) l'uccisione (ampenom); 2) l'offerta (pordoviom); 3) la dispersione dei resti del sacrificio (subra spahom), probabilmente inceneriti.
este persklum aves anzeriates enelu
pernaies pusnaes preveres treplanes
iuve krapuvi tre buf fetu arvia ustentu
vatuva ferine feilu heris vinu heri puni
ukriper fisiu tutaper ikuvina feitu sevum
kulef pesnimu arepes arves
pusveres treplanes tref sif kuntiaf feitu
trebe iuvie ukriper fisiu tutaper ikuvina
Interpretazione. Questa cerimonia (si) inizi con l'osservazione degli uccelli quelli davanti e quelli dietro. Davanti alla Porta Trebulana a Giove Grabovio tre buoi si offrano. Si presenti il frumento. Si offrano le vittime sul tavolato sia con il cibo sia con la bevanda. Per l'arce fisia, per la città iguvina tutto (questo) si faccia.
1. este: si confronti il dimostrativo latino istud = «questo». persklum: cfr. lat. precor dove si è avuto il passaggio delle radici *perk> prek; per la traduzione: «sacrificio, cerimonia sacra»; da notare che sk è scritto sullo spazio di 1 lettera erasa in quanto l'incisore aveva scritto inizialmente: numerosi sono gli errori in questa prima parte della I a, tant'è che si deciderà di cambiare lo scriba. aves anzeriates è in ablativo in quanto si è avuto il passaggio bus > fus > s: il cambio di b in f è tipico delle lingue italiche, così come tipica è la caduta delle vocali dell'ultima sillaba e quindi per assimilazione fs > s: per la traduzione; «con l'osservazione degli uccelli».
2. pernaies pusnaes = «davanti e dietro», derivano rispettivamente dalle radici lat. pre e post; treplanes: la porta (veres da cfr. con parole simili ind.) si apre verso una località che probabilmente è l'odierna Trebbio.
3. iuve krapuvi: l'epiteto «Grabovio» per alcuni deriverebbe da grabo = «quercia»: quindi «Giove delle querce» nelle quali entra sotto forma di fulmine; ma l'epiteto è esteso ad altre divinità per cui Devoto pensa ad un Giove «della montagna», attribuendo a grabo un significato «montagna, roccia» nell'ambito dei vocaboli mediterranei. tre buf: ctr. lat. tres boves. fetu: cfr. lat. facito, quindi «fare» nel senso di «donare», «offrire», arvia: cfr. lat. arvum = «campo», quindi per estensione anche «frumento», «grano», prodotti della terra; per Prosdocimi sono gli exta = «visceri» degli animali da sacrificare.
4. vatuva: si traduce con «vittime»; ferine: per Devoto è «tavolato, portantina, carrello in legno», per altri sarebbe lo strumento per uccidere la vittima. feitu: cfr. fetu della riga 3: in umbro si nota di frequente l'alternanza fra e ed ei. heris... heri... viene tradotto con «vuoi ... vuoi ...», quindi meglio «sia ... sia ...» in quanto la radice indoeuropea *her indica «volere». vinu: non pone problemi, quindi «col vino»; puni; «bevanda; lat. potus.
5. ukriper fisiu: «per l'arx fisia, di Fisiu»: Fisiu è una divinità iguvina; tutaper ikuvina: «per la città di Gubbio». feitu: cfr. feitu della riga 4. sevum: deriva da *seluo = «tutto».
este persclo aueis aseriater enetu parfa curnase dersua peiqu peica merstu poei angla aseriato
eest eso tremnu serse arsferture ehueltu stiplo aseriaia parfa dersua curnaco dersua
Interpretazione. «Questa cerimonia con l'osservazione degli uccelli (si) inizi, l'upupa e la cornacchia da destra, il picchio e la gazza da sinistra. Colui che andrà ad osservare il rumore degli uccelli così dal suo capanno, seduto, interroghi l'arfertur...»
1. persclo: rispetto al persclum di Ia sono cadute le lettere u ed m, sostituite da o: lo stesso fenomeno è accaduto dal latino all'italiano, quindi, in questo senso, l'umbro sembra anticipare fenomeni romanzi. aueis: in umbro c'e alternanza tra e ed ei (cfr. aves di la). aseriater: cfr. anzeriates di la si nota il passaggio, tipico dell'umbro, da s finale a r. parfa: cfr. lat. parram. poei corrisponde al lat. qui: si noti l'opposizione p/q.