Nel mondo antico e fino al XVIII secolo l'uomo era considerato un essere completamente distinto dal resto della natura; solamente durante il Settecento alcuni studiosi cominciarono a porre l'attenzione sulla somiglianza tra l'uomo e le scimmie. Linneo stesso, infatti, classificava gli scimpanzé insieme all'uomo, nel genere Homo. L'ipotesi che l'uomo condividesse una parentela evolutiva con le scimmie, proposta per la prima volta da Lamarck, acquistò valore e credibilità solo in seguito all'enunciazione della teoria di Darwin, grazie anche alle prove fornite dall'anatomia e dalla fisiologia comparate.
T. H. Huxley (1825-1895) ed E. Haeckel (1834-1919), contemporanei di Darwin, individuarono la corretta posizione dell'uomo nella natura, includendolo nell'ordine dei Primati e stabilendo la sua affinità con gli scimpanzé e i gorilla. Darwin stesso si occupò del problema dell'origine dell'uomo nell'opera La discendenza dell'uomo, pubblicata nel 1871.
Nei 130 anni che ci separano da quell'epoca si sono accumulate numerose prove a favore di quanto sostenuto da quelli studiosi: oltre allo studio dell'anatomia comparata, all'analisi dei fossili e alla comparazione dei comportamenti, l'analisi della sequenza amminoacidica di proteine omologhe (come le catene polipeptidiche dell'emoglobina) o di sequenze di DNA, hanno stabilito l'esistenza di una stretta affinità fra l'uomo e lo scimpanzé. Secondo stime recenti il DNA dell'uomo differisce da quello dello scimpanzé solamente per meno del 2% dei nucleotidi, mentre con quello dei gorilla le differenze ammontano a poco più del 2,5% dei nucleotidi.
Il grado di affinità molecolare (considerato direttamente proporzionale al grado di parentela) suggerisce che la linea evolutiva dell'uomo si sia separata da quella del gorilla 8 Ma ca., mentre da quella dello scimpanzé piuttosto recentemente, attorno ai 6 Ma.
È interessante osservare come una differenza riguardante pochi nucleotidi (come quella che si riscontra tra uomo e scimpanzé) possa determinare la comparsa di caratteristiche molto diverse; infatti anche se queste due specie sono straordinariamente simili per quel che riguarda la struttura dell'emoglobina o di altre proteine, le modalità di sviluppo del cervello e i comportamenti connessi a questo aspetto sono estremamente diversi.
Riassumendo, quindi l'uomo è un mammifero, appartenente all'ordine dei Primati, i primi rappresentanti dei quali comparvero sulla Terra attorno a 70 Ma, a seguito di una imponente radiazione adattativa dei mammiferi placentati che occuparono tutte le nicchie ecologiche lasciate libere dalla scomparsa dei grandi rettili.
I Primati sono dei mammiferi in cui si sono evoluti alcuni caratteri particolari come:
L'ordine dei Primati si suddivide in infraordini e superfamiglie tra cui quella degli Ominoidei a cui appartengono tre famiglie:
Questa classificazione si basa sulle caratteristiche morfologiche. Esiste anche una classificazione che tiene conto della stretta affinità genetica fra uomo e scimpanzé secondo cui la superfamiglia degli Ominoidei viene suddivisa in due sole famiglie, quella degli Ilobatidi e quella degli Ominidi a cui appartengono tre sottofamiglie, Pongine (orangutan), Gorilline (gorilla) e Ominine a sua volta suddivisa in due tribù, Panini (scimpanzé) e Ominini comprendente il genere Homo e i generi fossili Orrorin, Ardipithecus, Australopithecus, Kenyanthropus e Paranthropus.
Queste classificazioni, e quanto detto a proposito delle affinità fra uomo, gorilla e scimpanzé, non deve però far cadere nel persistente pregiudizio secondo cui noi discendiamo dalle attuali scimmie antropomorfe. Darwin e i sostenitori dell'evoluzione sono stati sempre molto chiari nell'affermare che in un qualche momento del passato abbiamo solo condiviso con esse gli antenati, fino ad arrivare ad un ultimo antenato comune da cui poi sono nate due linee evolutive distinte, una che ha portato alla nascita dell'uomo, l'altra che ha portato alla nascita delle antropomorfe. E quell'antenato comune non era nessuna delle scimmie che ora vivono sul nostro pianeta, neppure lo scimpanzé che è l'antropomorfa geneticamente più affine a noi. In altre parole non possiamo derivare dalle scimmie antropomorfe perché ciò equivarrebbe a dire che un individuo discende dai propri fratelli o cugini, i quali invece sono parenti stretti ma non antenati!
I primi mammiferi comparvero intorno ai 200 Ma. Tuttavia l'enorme diffusione dei grandi rettili (Dinosauri) durante il Mesozoico limitò notevolmente le potenzialità evolutive dei primi mammiferi, piccole forme insettivore, obbligandoli probabilmente ad occupare nicchie ecologiche residuali, quali il sottobosco, e a prediligere abitudini notturne.
Verso la fine del Cretaceo (circa 70 Ma), a seguito dell'impatto sul globo di un asteroide e conseguente estinzione dei grossi rettili, i mammiferi subiscono un imponente radiazione adattativa e si differenziano in numerosi ordini che occupano tutte le nicchie ecologiche liberatesi. In questa occasione compaiono anche i primati più antichi, simili, fra i generi attuali, alle tupaie (pressoché invariate da 70 Ma), piccoli mammiferi arboricoli che vivono nelle foreste del sud-est asiatico.
Purgatorius, un animaletto dalle probabili dimensioni di un ratto e dalle caratteristiche simili, appunto, alle attuali tupaie, trovato in depositi carboniferi del Montana, su una collina chiamata appunto "del Purgatorio", è la più antica forma conosciuta di primate.
Dal tardo Paleocene al primo Eocene (tra i 60 e i 55 Ma) i primati si affermano e si diversificano grazie al loro particolare adattamento all'ecosistema forestale diventando i principali abitatori degli alberi che, grazie al clima caldo-umido, formano estese foreste di tipo tropicale.
Si formano così due principali linee evolutive:
Le proscimmie attuali (lemuri, galagoni, tarsi e lori), molte delle quali sono notturne, sono mediamente di piccole dimensioni e vivono sugli alberi nelle foreste equatoriali dove si nutrono di insetti, oppure di frutta e di foglie.
Il gruppo degli antropoidei comprende:
La separazione fra platirrine e catarrine avviene probabilmente circa 40 Ma.
Il passo successivo è la separazione all'interno delle catarrine fra ominoidei e cercopitecoidei avvenuta all'incirca 25 Ma. In seguito (ca 23 Ma) si separa la famiglia degli Ilobatidi.
Proconsul vissuto attorno a quell'epoca viene considerato l'antenato comune di orango, gorilla, scimpanzé e uomo. La sua capacità cranica era di 160-180 cc, analoga, se rapportata al peso corporeo) a quella delle scimmie attuali.
In base a confronti biomolecolari (cromosomi, proteine, DNA, ...) tra uomo e antropomorfe attuali, possiamo affermare che la nostra linea evolutiva si è distaccata da 10 Ma da quella di Pongo, da 8 Ma da quella di Gorilla e da circa 6 Ma da quella delle due specie di Pan (Pan troglodytes e Pan paniscus). Quando si parla di "evoluzione umana" si intende pertanto indicare solo l'ultimo periodo, dall'antenato comune a Pan e Homo (vissuto in Africa 6 Ma) fino ad arrivare ai giorni nostri. L'insieme delle specie che si succedono in questo periodo, dall'ultimo antenato comune a Homo sapiens attuale, è detto, collettivamente, delle Hominine (le Hominidae comprendono invece anche le linee evolutive e le specie attuali di grandi antropomorfe; altre classificazioni, tuttavia come si è visto, includono le due specie di gorilla e le due specie di scimpanzé, e i loro antenati fossili, nelle Homininae).
Nessun reperto, fino ad oggi, però è venuto ad illustrare il primo momento dell'evoluzione umana. Tuttavia anche se non siamo in grado di dire quali sembianze avesse l'ultimo antenato comune, è ragionevole supporre che vivesse in un habitat forestale e si muovesse sugli alberi un po' come i nostri parenti più prossimi, dondolandosi appeso per le braccia o arrampicandosi con i piedi prensili. Quando si muoveva in terra, poi, doveva certamente utilizzare tutti e quattro gli arti per appoggiarsi. Stare dritti sulle due gambe, infatti, è la conquista che ci ha fatti diventare una sottofamiglia autonoma e pertanto essa ha segnato la separazione, non può averla preceduta.
Successivamente, alcuni antenati preominini si devono essere isolati dal resto del gruppo e in breve tempo devono aver accumulato i cambiamenti necessari per trasformarsi in una specie nuova (quella che è giunta fino a noi), e cioé il bipedismo e l'uso delle mani. Questi cambiamenti sono molto probabilmente da imputare ad un adattamento a nuove condizioni climatiche, ipotizzate in varie teorie, che determinarono la scomparsa di gran parte delle foreste e la conseguente formazione di ampi spazi a savana. La stazione eretta permetteva infatti di muoversi e scrutare in ambienti aperti e non più arboricoli e l'uso delle mani di afferrare oggetti, come pietre, che potevano servire a vari scopi tra cui quello di difendersi in un ambiente scoperto.
La documentazione paleontologica relativa alle primi fasi evolutive degli ominini, successive alla loro differenziazione dalle antropomorfe, non è ancora molto ricca anche se recentemente sono state effettuate importanti scoperte.
Alla fine del 2000 sono stati ritrovati in Kenya i resti di una nuova forma, l'Orrorin tugenensis, soprannominato "Millennium Man", vecchio di 6 Ma, dotato di interessanti caratteristiche morfologiche. Il suo femore sinistro dimostrerebbe che le gambe erano sufficientemente forti per sostenere l'andatura eretta, e un robusto omero destro suggerirebbe che conservava ancora la capacità di arrampicarsi sugli alberi, ma che forse non aveva la forza di appendersi ai rami e di spostarsi dondolandosi fra essi. Si tratterebbe cioè di una tipica postura mista, con elementi innovativi e altri arcaici tipici di una forma di passaggio, un po' terrestre e un po' arboricola, certamente adatta per vivere in un ambiente che, pur in trasformazione verso la savana, manteneva una considerevole copertura boscosa.
Più recenti (5,8-4,3 Ma) sono i resti fossili attribuiti alla successiva specie in ordine di antichità, Ardipithecus ramidus. Essa è nota per resti di denti, mandibole, una base cranica e ossa degli arti rinvenuti nel sito di Aramis, Etiopia. Recentemente sono stati rinvenuti i resti più antichi di questa specie (datati tra 5,8 e 5,2 Ma) che sono stati attribuiti dallo scopritore Tim White ad una nuova sottospecie: l'Ardipithecus ramidus kadabba (dove kadabba significa nella lingua locale afar "primo antenato della famiglia"). Le caratteristiche anatomiche del reperto sembrano indicare che le ossa del bacino, delle gambe e dei piedi erano tali da permettere di avanzare su due soli arti; mentre le ossa delle mani erano lunghe e curve come se talvolta ramidus dovesse appoggiarsi sulle nocche per camminare. Quindi anche in questo caso, come in quello di orrorin, siamo in presenza di un modo di procedere misto.
A parte queste ultime scoperte, ancora in fase di studio, i più antichi ominini oggi noti sono rappresentati dalla specie Australopithecus anamensis, datata tra 4,2 e 3,8 Ma.
Rispetto a Ardipithecus, A. anamensis presenta caratteristiche più vicine a quelle dell'uomo come la morfologia dell'omero. Inoltre ha il pieno possesso del bipedismo come è attestato dalle caratteristiche della tibia.
Da A. anamensis sarebbe derivata la specie Australopithecus afarensis presente in varie località dell'Africa orientale tra circa 4 e 3 Ma. I siti più importanti in cui sono presenti fossili di A. afarensis sono Laetoli (Tanzania) e Hadar (Etiopia), dove è stato scoperto lo scheletro completo al 40% denominato Lucy, databile a circa 3 Ma. Di taglia sensibilmente più piccola dell'uomo, presenta arti superiori proporzionalmente più lunghi e testa più piccola. Sia nel cranio sia nello scheletro postcraniale prevalgono i caratteri delle scimmie antropomorfe, tra i quali vanno sottolineati la capacità cranica modesta (media 415 cc) e l'apparato masticatorio robusto. Anche se adatto a salire sugli alberi, era bipede, come mostrano la posizione del forame magno, la morfologia delle pelvi, degli arti inferiori e dei piedi e le famose orme fossili di Laetoli. È proprio questo aspetto che lo lega più all'uomo che alle scimmie antropomorfe.
Probabilmente da A. afarensis è derivato A. africanus che ha dato vita ad una linea evolutiva di australopiteci cosiddetti "gracili", probabilmente coinvolti in modo diretto nell'origine del genere Homo. A. africanus, documentato tra 3 e 2,5 Ma, è rappresentato dai reperti di Taung, Sterkfontein, Makapansgat e forse da alcuni ritrovamenti dell'Africa orientale (Omo, Koobi Fora, Turkana Ovest). C'è notevole incertezza sul peso corporeo, stimato negli adulti da 33 a 67 kg, e sulla statura, valutata attorno ai 145 cm. Il cranio presenta una fronte e una visiera sopraorbitaria poco marcate e l'occipitale arrotondato; la capacità si aggira attorno a 450 cc. La mandibola è robusta. Lo scheletro postcraniale indica un'attitudine sia ad arrampicarsi sugli alberi, sia alla locomozione bipede.
Da A. afarensis, intorno a 2,5 Ma (Pliocene superiore), si dev'essere originata anche una linea evolutiva di australopiteci cosiddetti "robusti" per i quali oggi viene proposta l'appartenenza ad un nuovo genere, quello dei parantropi. Essi sono caratterizzati da una maggiore robustezza scheletrica e dalla specializzazione verso una dieta vegetariana (testimoniata da caratteristiche craniche e dentarie).
Questa linea è rappresentata in Sudafrica da Parantrophus robustus (siti principali: Kromdraai e Swartkrans) e in Africa orientale da Parantrophus boisei (siti principali: Olduvai, Valle dell'Omo, East e West Turkana, Chesowanja), ha dimensioni corporee più grandi (peso da 42 a 62 kg, statura media tra 150 e 160 cm) e capacità cranica attorno a 520 cc. Il cranio presenta una faccia corta, un frontale poco sviluppato (frontale molto sfuggente), una marcata visiera sopraorbitaria, una volta appiattita fornita in molti esemplari (maschili?) di una possente cresta sagittale. Premolari e molari sono molto robusti, canini e incisivi ridotti. Secondo alcuni autori, le due specie distinte di parantropi, P. robustus e P. boisei, avrebbero avuto origine da un'altra specie distinta, quella del P. aethiopicus. La linea dei parantropi, che rappresentano un ramo evolutivo a fondo cieco, si estingue nel corso del Pleistocene, attorno a 1,5 Ma (P. boisei è sopravvissuto probabilmente più a lungo rispetto a P. robustus).
Attorno a 2,2 Ma, quindi contemporaneamente allo sviluppo della linea dei parantropi, si assiste in Africa orientale e (probabilmente in tempi successivi) in Sudafrica alla comparsa e all'evoluzione iniziale del genere Homo. La più antica specie appartenente a questo genere, probabilmente derivata da una forma di australopiteci gracili, è stata denominata Homo habilis per sottolineare l'importanza della sua associazione con le più antiche industrie litiche (Olduvaiano). Il termine Homo viene infatti riservato a quegli ominini in grado di poter manipolare la materia. La prima descrizione di H. habilis fu effettuata nel 1964 sulla base di resti scoperti a Olduvai, in Tanzania. Altri resti di H. habilis furono successivamente raccolti nello stesso sito e in altre località dell'Africa orientale (East Turkana, Valle dell'Omo), e in Sudafrica (Sterkfontein e forse Swartkrans). Altri siti come Kada Gona e West Gona nell'Afar (Etiopia), pur non avendo fornito resti ossei di H. habilis, testimoniano la sua presenza a seguito della scoperta di industrie litiche molto antiche.
Dagli australopiteci, H. habilis si differenzia per la maggior capacità cranica (510-750 cc, media 630 cc), parietali e frontali più ampi, accentuazione del solco sopraorbitario, occipitale più arrotondato, creste craniche meno prominenti, mandibola e mascellare più piccoli, arcata dentale parabolica e non più a V, molari più piccoli e riduzione del pragnatismo (sporgenza della parte inferiore del viso). All'aumento della capacità cranica sembra associata una ristrutturazione del cervello, riscontrabile nella morfologia delle superfici interne del cranio. Lo scheletro postcraniale è poco noto, perché non c'è certezza nell'attribuzione delle ossa degli arti provenienti dagli stessi giacimenti. Alcune di esse suggerirebbero l'acquisizione di un perfetto bipedismo; altre notevoli dimensioni degli arti superiori, significative di un'attitudine all'arrampicata sugli alberi. Si notano spesso anche differenze di robustezza fra i vari esemplari che fanno pensare ad un dimorfismo sessuale (maschi più robusti e femmine più gracili). L'arco di tempo occupato da H. habilis si estende fino a circa 1,5 Ma.
È probabile che le cause dell'evoluzione in Africa di due linee contemporanee di ominini a partire da circa 2,5 Ma siano da ricercare in cambiamenti paleoecologici avvenuti verso la fine del Pliocene, caratterizzati da un clima più rigido e secco. Gli ominini infatti risposero in due modi diversi a questi mutamenti climatici. I primi uomini reagirono al continuo inaridimento del clima, fondando la loro sussistenza su una dieta onnivora, utilizzando gli strumenti in pietra per macellare le carcasse degli animali. La maggior parte degli australopiteci contemporanei imboccarono invece la strada del rafforzamento delle mandibole per potrersi nutrire di noci e radici coriacee. In altre parole, gli uomini delegarono la specializzazione a strumenti esterni al loro corpo e quindi rapidamente mutevoli, mentre gli australopiteci, più tradizionalmente, si affidarono a lenti mutamenti biologici. Trasferire all'esterno di se stessi gli elementi chiave dell'adattamento all'ambiente permette di non specializzarsi dal punto di vista fisico e di essere quindi molto reattivi ai mutamenti. Per dirla con un esempio classico: si fa molto prima a indossare un vestito che a farsi crescere una pelliccia e soprattutto, in caso di caldo improvviso, si riesce a sbarazzarsi molto più velocemente del vestito che della pelliccia!
Con Homo habilis inizia quindi un modo di vita che diviene sempre più dipendente dall'impiego di questi strumenti. E grazie all'evoluzione tecnologica di essi e all'evoluzione di un cervello sempre grande e complesso in grado di determinare la fabbricazione di strumenti sempre più perfezionati, i nuovi ominini saranno in grado di espandersi anche al di fuori del loro luogo di origine africano.
Dei fossili attribuiti a Homo habilis ha sempre suscitato una certa perplessità la questione delle dimensioni encefaliche. Infatti, mentre un gruppo di reperti (provenienti prevalentemente da Olduvai, in Kenya) presenta una capacità cranica di neanche 600 cc, un altro gruppo(proveniente da Koobi Fora, in Tanzania) supera invece, e abbondantemente, i 700 cc: il reperto più famoso è il cranio KNM- ER 1470, la cui capacità encefalica è stata valutata essere 752 cc. Negli ultimi anni, pertanto, si è proposto di dividere i reperti in due diverse specie: Homo habilis comprende i reperti, prevalentemente kenyoti, dal cervello più piccolo; Homo rudolfensis comprende quelli, prevalentemente dalla Tanzania, dal cervello più grande.
È tuttavia possibile che le dimensioni encefaliche dei due gruppi riflettano la variabilità interna alla specie, o anche che dipendano da dimorfismo sessuale; se uno di questi casi fosse provato, evidentemente tutti i reperti dovrebbero tornare a far parte di un'unica specie.
La documentazione paleontologica africana dimostra che intorno a 1,8 Ma alcuni fossili ominini presentano già caratteristiche tali da dover essere classificati in una specie diversa da H. habilis. Questa nuova specie, la seconda nel corso del cammino evolutivo del genere Homo, è stata a lungo denominata Homo erectus. In realtà, oggi si è visto che i più antichi fossili africani attribuiti a questa specie non presentano caratteristiche del tutto tipiche di essa, in quanto la definizione originaria di H. erectus si è basata su resti più recenti (tra 1 e 0,5-0,3 Ma) e provenienti da altre aree geografiche (Giava e Cina), originariamente indicati come pitecantropi (Pithecanthropus erectus) e sinantropi (Sinanthropus pekinensis). È per questo che ora si preferisce inserire gli ominini africani di questo periodo in un'altra specie, definita Homo ergaster. L'esemplare più completo e rappresentativo è lo scheletro KNM WT 15.000 rinvenuto a Noriokotome, nei pressi del lago Turkana in Kenya, detto anche il ragazzo di Turkana. Esso si differenzia da H. habilis, oltre che per caratteristiche morfologiche, anche per un significativo aumento di massa ossea e di statura. Il reperto giovanile (12 anni) avrebbe raggiunto in età adulta un'altezza di 180 cm, mentre l'altezza media di H. habilis e degli australopiteci era inferiore ai 150 cm. Sono già evidenti sovrastrutture ossee del cranio che raggiungeranno, nel corso dell'evoluzione della specie, il massimo sviluppo (es. arcate sopracciliari sviluppate in un toro orbitario). Il suo cervello era già abbasanza grande, raggiungeva gli 880 cc.
L'evoluzione di Homo ergaster continua sul territorio africano, ma a partire da 1,5-1 Ma alcune popolazioni appartenenti alla specie iniziano a emigrare al di fuori del continente, occupando le aree temperate calde dell'Asia e dell'Europa. Qui svilupperanno caratteristiche peculiari, tant'è che daranno origine a due specie distinte: l'Homo erectus in Asia e l'Homo antecessor in Europa con linee evolutive proprie. Un modo di vita nuovo, basato su una tecnologia più evoluta e su una maggiore capacità di sfruttamento delle risorse animali per l'alimentazione, è probabilmente alla base di questa possibilità di migrazione. Un ulteriore contributo alla capacità di migrazione verrà fornito, intorno ai 400.000 anni fa, dal controllo del fuoco, che permetterà di occupare regioni sempre più settentrionali e consentirà un adattamento a condizioni climatiche sfavorevoli.
La diffusione mondiale dei discendenti di H. ergaster (generalmente accomunati sotto la dicitura generica di H. erectus, che è quella che è ancora maggiormente utilizzata e che useremo anche in seguito) portò evidentemente a una grande differenziazione, sia fisica che culturale. Una linea evolutiva tipicamente europea e mediorientale avrebbe trasformato Homo antecessor in Homo heidelbergensis e infine in Homo neanderthalensis.
E qui ci troviamo di fronte ad un'altra importante novità: dopo aver tanto sentito parlare delle qualità culturali dell'Uomo di Neandertal, oggi esso viene "espulso" dalla specie dei sapiens; in altre parole i neandertaliani non sono più ritenuti nostri antenati, ma semplicemente dei "fratelli", appartenenti ad una specie collocata su una linea evolutiva parallela che si é poi estinta intorno a 30.000 anni fa. Quindi adesso non parleremo più di Homo sapiens sapiens e di Homo sapiens neanderthalensis, ma semplicemente di Homo sapiens e di Homo neanderthalensis.
L'H. neanderthalensis visse in Europa e nel Medio Oriente tra 120.000 e 35-30.000 anni fa. La sua costituzione corporea era caratterizzata da una statura non troppo alta, 160-170 cm, e un peso che poteva variare tra i 50 kg per le donne e i 65 per gli uomini; tutte le ossa dello scheletro erano estremamente robuste e la muscolatura potente; e le mani e i piedi erano larghi. La capacità cranica era uguale, se non superiore, alla nostra e variava tra i 1250 e i 1750 cc. Il cranio era massiccio e aveva una forma larga, piuttosto allungata, schiacciata e con il caratteristico restringimento dietro le orbite; la fronte era sfuggente, il toro sopraorbitario robusto e con la completa fusione delle due arcate sopracciliari; l'occipitale era molto convesso e presentava un allungamento, lo chignon, nella regione più posteriore. Anche la faccia era voluminosa, con le orbite rotonde e grandi, e ampia era anche l'apertura nasale; la mandibola poi aveva conservato i caratteri arcaici del nostro genere, molto robusta e senza mento.
Per quanto riguarda il tempo e il luogo di origine dell'Homo sapiens, cioè dell'uomo anatomicamente moderno, dobbiamo dire che a tutt'oggi non è stato ancora trovato un accordo tra gli studiosi. Il dibattito si svolge sulla base di due principali ipotesi contrapposte: quella della "continuità locale" o "multiregionalità" secondo cui popolazioni anatomicamente moderne si sarebbero originate nei diversi territori per evoluzioni da forme di H. erectus a H. sapiens arcaico e quindi all'uomo moderno; quella della "sostituzione rapida" o "origine africana recente", secondo cui da un unico centro di origine, l'uomo moderno si sarebbe differenziato da Homo erectus e avrebbe occupato gli altri territori sostituendosi (per superiorità o intellettuale, o economica, o bellica, o immunologica) a popolazioni locali derivate da H. erectus. In questi ultimi anni l'opinione di molti autori si è orientata verso un'origine unica, che molte considerazioni suggeriscono africana. A questo orientamento hanno decisamente contribuito studi genetici (in particolare basati sul confronto di DNA mitocondriale di individui attuali appartenenti a popolazioni diverse), secondo cui tutti gli uomini viventi deriverebbero da un antenato comune, probabilmente vissuto in Africa circa 200.000 anni fa.
Inoltre due siti sudafricani (Border Cave e Klasies River Mouth), databili tra 130.000 e 70.000 anni fa, hanno fornito vari reperti ossei già riferibili a uomini anatomicamente moderni.
È probabile che questo sapiens di origine africana intorno a 100-90.000 anni b.p. abbia iniziato a muovere i primi passi per uscire dal continente africano, come suggeriscono i reperti della grotta di Skhul (o grotta del capretto) sul Monte Carmelo e la grotta di Jebel Qafzeh, vicino a Nazareth in Israele. Intorno a 40.000 poi, si sarebbe diretto verso l'Europa orientale, conquistando in poco tempo gran parte del continente, e portando con sé una cultura assai più evoluta di quella del già presente Neanderthal causandone la scomparsa.
Analizziamo adesso scoperte paleoantropologiche effettuate negli ultimi anni. Alcune di queste sembrano confermare le teorie tradizionali sull'ominazione, altre invece sembrano smentirle e aprono nuovi interrogativi. Ciò testimonia ancora una volta le difficoltà che si incontrano affrontando una materia così complessa, ma allo stesso tempo affascinante, come l'evoluzione umana che, per utilizzare un gioco di parole, possiamo definirla in continua "evoluzione".
Nel 2004, resti di un nuovo ominide sono stati scoperti in Indonesia sull'isola di Flores (tra Java e Timor). Da uno strato datato 18.000 anni fa della grotta di Liang Bua, sono riemersi un cranio, una mandibola, un bacino e una tibia con caratteristiche assolutamente rivoluzionarie per la loro età. Si tratta infatti di un soggetto adulto (come dimostra l'usura dei denti) di dimensioni assai ridotte che gli hanno valso il soprannome di "hobbit": la sua altezza, infatti non supera il metro e la sua capacità cranica è di soli 380 cc, come quella di alcune australopitecine (!!!).
Tali peculiari caratteristiche hanno indotto gli esperti a classificare il nuovo ominide in una nuova specie denominata Homo floresiensis, dal luogo della scoperta.
Tuttavia, subito dopo il ritrovamento la comunità scientifica internazionale si era divisa tra chi ne sosteneva l'assoluta originalità - una nuova specie finora sconosciuta derivata direttamente dagli erectus - e chi invece sosteneva che i resti appartenessero a un Homo sapiens affetto da nanismo o da microcefalia.
Recentissimi studi pubblicati dalla rivista "Science" (marzo 2005) sembrano indicare che "hobbit" rappresenti una nuova specie finora sconosciuta di uomo primitivo con caratteristiche cerebrali simili ad Homo sapiens.
Il lavoro è stato condotto da ricercatori della Florida State University, della Scuola di Medicina della Washington University di St. Louis, dell'Università del New England in Australia e dell'Indonesian Centre for Archaeology di Giacarta. Questi hanno ricostruito al computer un modello del cervello dell'ominide, ottenuto da un calco interno del cranio, che hanno poi comparato con quello di altri ominidi tra cui l'Homo erectus, l'Australopitecus africanus, il Paranthropus aethiopicus e, infine, l'Homo sapiens, includendo nella lista sia il cervello di un uomo normale che quello di un pigmeo e anche alcuni campioni di cervelli colpiti da microcefalia.
I risultati hanno dimostrato che il cervello dell'Homo floresiensis presenta ben poche similarità con microcefali e pigmei e mostra differenze significative rispetto a quello dell'erectus, in particolare per quanto riguarda il lobo temporale più esteso. Piuttosto l'ominide indonesiano sembra possedere capacità cognitive superiori simili a quelle di un sapiens.
Indipendentemente dalla sua specifica posizione nell'evoluzione umana, "hobbit" ha confermato comunque l'esistenza di altre ramificazioni, anche piuttosto recenti, del nostro albero evolutivo.
I resti più antichi di Homo sapiens mai trovati in Europa sono stati portati alla luce, nel 2003, nel sito di Pestera cu Oase (che in rumeno significa "grotta delle ossa") dei Carpazi rumeni da un'équipe di ricercatori americani guidati dal professor Erik Trinkhaus. Si tratta della mascella di un maschio adulto e delle ossa di altre due persone, tra cui un adolescente, vissute nell'area dell'attuale Romania 34.000 - 36.000 anni fa; in precedenza i resti umani europei più arcaici datavano circa 30.000 anni fa.
Le scoperte non finiscono qui. Secondo gli esperti dell'Istituto romeno di speleologia "Emil Rracovita", la mandibola del maschio adulto ha in linea generale le stesse caratteristiche identificate anche in altri fossili appartenenti a individui moderni scoperti in Africa, Medio Oriente o Europa. Ci sono però alcune differenze importanti: i molari della mandibola scoperta in Romania sono più grandi, e sarebbero in qualche modo una via di mezzo tra quelli degli esseri umani anotomicamente moderni e l'uomo di Neanderthal. Questa caratteristica ha suggerito la possibilità di un incrocio tra Homo sapiens e lo stesso uomo di Neanderthal riaprendo in qualche modo l'annoso dibattito sulla parentela o meno tra questi due rami dello sviluppo umano. Gli ultimi esami del DNA su reperti delle due specie avevano accertato che l'ultimo antenato in comune risaliva a circa 550 mila anni prima, smentendo quindi qualsiasi parentela recente. Ma la mandibola del cavernicolo dei Carpazi scuote con forza questa certezza. Anche perchè finora in Europa erano stati trovati pochissimi resti fossili di uomo moderno più vecchi di 28 mila anni, mentre l'estinzione dei Neanderthal è fatta risalire a 30 mila anni fa, in coincidenza con l'arrivo dell'ultima era glaciale.
Inoltre se l'incrocio tra sapiens e neanderthal ipotizzato dai reperti rumeni venisse confermato, parte dell'evoluzione della nostra specie sarebbe avvenuta anche sul suolo europeo e confuterebbe la teoria dell'origine esclusivamente africana dell'Homo sapiens supportata da studi genetici e molecolari che escludono un contributo dell'uomo di Neanderthal al nostro attuale DNA. L'evoluzione umana sarebbe dunque un Çmagnifico mosaicoÈ come ha commentato l'archeologo inglese Clive Gamble.
Scienziati dell'Università della California di Berkeley guidati da Tim White, in collaborazione con ricercatori etiopi e di altri paesi, hanno scoperto, nel 2003, i più antichi fossili finora conosciuti di Homo sapiens. I reperti, risalenti ad un età compresa fra i 154.000 e i 160.000 anni e scoperti nel villaggio di Herto in Etiopia, circa 200 chilometri a nord-est di Addis Abeba, consistono in tre crani e altri elementi scheletrici fossilizzati di due adulti ed un bambino (vedi foto).
Secondo gli studiosi, la scoperta fornisce forti prove a favore della coesistenza di Homo sapiens e Neanderthal e quindi della teoria dell'origine africana dell'uomo anatomicamente moderno.
La morfologia del più completo di questi tre fossili aiuta a chiarire il percorso della primissima evoluzione dell'Homo sapiens in Africa, come mostrato dall'interessante combinazione di tratti appartenenti ad esseri umani più arcaici e più recenti.
Il cranio è molto ampio, ma dato che la taglia è standardizzata, condivide con gli antichi crani africani un ampio respiro interorbitale (la distanza tra le orbite degli occhi), denti posizionati anteriormente, ed un corto occipitale (l'osso alla base della scatola cranica). Ha anche un'ampia superficie superiore e sopracciglia moderatamente sporgenti, come i fossili di Skhul e Qafzeh.
Il naso è basso; il volto ed il medio-volto sono molto più specificamente simili a quelli dei primi Homo sapiens, mentre altre caratteristiche, come la scatola cranica globulare, sono tipicamente moderni.
Nell'angolazione e nello spigolo trasversale dell'occipitale vi è anche un'intrigante somiglianza a fossili da siti come Elandsfontein (Sud Africa) e Broken Hill (Zambia) che sono spesso stati ricondotti all'Homo heidelbergensis o Homo rhodesiensis.
Questo potrebbe offrire un indizio circa gli antenati dell'individuo. Ma soprattutto, i fossili sembrano più vicini in morfologia al cranio particolare di Jebel Irhoud, Omo Kibish e Qafzeh.
Così questi ritrovamenti offrono un plausibile collegamento all'indietro a più antichi fossili africani, ed in avanti ai campioni di Levantine. Costituiscono dunque una sorta di anello di congiunzione fra le forme più antiche e quelle più recenti di Homo sapiens e sono stati classificati in una nuova sottospecie, quella di Homo sapiens idaltu (idaltu nella lingua locale, significa "anziano").
Insieme ai resti di questi nostri antenati sono stati trovati resti di molti altri animali, che costituivano un ecosistema non molto diverso da quelli africani odierni; c'erano antilopi del genere Kobus, ippopotami, zebre e gnu.
L'ambiente in cui vivevano i nostri antenati era quindi un misto di savana (dove vivevano gnu e zebre) e di ambiente lacustre, luogo ricco di ippopotami.
Proprio ippopotami e altri animali dovevano essere le loro prede preferite come testimoniano i numerosi strumenti in pietra rinvenuti sul posto. Gli scopritori pensano che gli uomini non uccidessero direttamente le prede, ma approfittassero delle carcasse di animali morti o uccisi da altri predatori come i leoni.
I tre crani umani ritrovati hanno i segni di modifiche avvenute dopo la morte. Ci sono segni di taglio per staccare la carne dalle ossa, oppure graffi che testimoniano il tentativo di "pulire" il cranio dai residui di pelle. Per questo gli autori pensano che i tre crani siano stati sottoposti a preparazione prima della sepoltura; uno dei segni più chiari di nascita della cultura e di un moderno Homo sapiens.
A Dmanisi in Geogia, è stato rinvenuto il cranio di quello che viene considerato il più antico europeo finora ritrovato, datato a 1,8 Ma. Già tre anni fa, nello stesso sito, erano tornati alla luce due teschi che avevano costretto gli studiosi a retrodatare la comparsa dei primi eurasiatici a un milione e 700 mila anni fa, cioè settecentomila anni prima di quanto si credeva.
Ma l'ultimo cranio rinvenuto sembra obbligare i paleontologi a rivedere una convinzione ancora più radicata, vale a dire che l'espansione umana fuori dell'Africa sia associata ad un aumento del volume cerebrale e quindi al passaggio da una specie più primitiva ad una dotata di intelligenza "superiore". Secondo la teoria prevalente, gli Homo habilis, comparsi in Africa intorno ai 2 milioni e mezzo di anni fa, avevano sviluppato capacità intellettuali sufficienti a costruire i primi, rudimentali utensili di pietra, collocandosi sul primo gradino del genere Homo. Ma per spiegare la gigantesca migrazione che nel corso dei millenni si sarebbe spinta fino ai nei territori euroasiatici ci voleva qualcosa di più: un cervello ancora più grande, capace di elaborare tecnologie più raffinate, adattandosi a nuovi ambienti. Ci voleva, insomma, una nuova specie, Homo erectus, dotata di una massa cerebrale tra gli 850 ed i 1.000 centimetri cubici.
Il nuovo cranio di Dmanisi, identificato dai suoi scopritori con la sigla D2700, sembra invece smentire questa tesi. Le sue dimensioni sono infatti molto piccole. Ritrovato in ottime condizioni di conservazione, è il cranio quasi completo di un individuo giovane e gracile, forse una donna, la cui capacità cerebrale era di appena 600 cc. circa: un quarto in meno dei due individui rinvenuti in precedenza in Georgia, e assai meno di quanto fosse lecito attendersi da un ominide ritrovato così lontano dall'Africa.
Anche la forma del volto è primitiva. Il naso corto, l'osso occipitale arrotondato e i due lunghi e grossi canini lo rendono molto simile ad Homo habilis.
Dunque il cranio di Dmanisi sembra indicare che la ragione dell'esodo dall'Africa non abbia molto a che vedere con le dimensioni cerebrali, o perlomeno non sia stata l'unica causa.
L'uomo di Neanderthal era o no un nostro progenitore? In sostanza, ha ragione la teoria Multiregionale o Africana recente? Analisi sul DNA moderno ed antico sembrano supportare quest'ultima ipotesi soprattutto dopo il brillante lavoro dei ricercatori del Laboratorio di Antropologia Molecolare dell'Università di Firenze, con la collaborazione di alcuni colleghi di Ferrara e Pisa, i quali hanno sequenziato il DNA mitocondriale di due individui anatomicamente moderni (Homo sapiens) ritrovati in depositi del Paleolitico Superiore nella grotta Paglicci (Foggia): Paglicci 25 e Paglicci 12 e datati Ê23.000 anni fa, poco dopo l'estinzione degli ultimi Neanderthal se non addirittura coevi.
Il genetista Svante PŠŠbo era stato il primo a estrarre DNA mitocondriale (mtDNA) da resti di Neandertal, ma finora nessuno aveva analizzato il DNA di Homo sapiens di questo periodo detti anche "uomini di Cro Magnon". Il mtDNA viene ereditato inalterato dalla madre e permette agli scienziati di ricostruire il percorso genetico per centinaia di migliaia di anni.
Quando il team guidato da David Caramelli ha confrontato l'mtDNA degli individui di Grotta Paglicci con i dati esistenti provenienti da uomini di Neandertal vissuti fra 29.000 e 42.000 anni fa, non è stata trovata nessuna somiglianza.
Ciò significa che le due specie erano già molto diverse dal punto di vista genetico 24.000 anni fa.
Invece il confronto con l'informazione genetica di quattro europei preistorici vissuti fra 5.500 e 14.000 anni fa e con un database di mtDNA di 2566 abitanti moderni di Europa e Medio Oriente ha invece mostrato la presenza di molte sequenze identiche.
I risultati ottenuti corrispondono dunque a ciò che ci dovremmo aspettare se accettiamo la teoria Africana recente: i Neandertaliani erano un "ramo" dell'evoluzione e non sono stati nostri antenati diretti.
I ricercatori del National Museum of Kenya, nel 2001, hanno scoperto fossili appartenenti ad un nuovo ominide. Il cranio, molto rovinato ma quasi completo ha permesso di stabilire che esso non appartiene a nessuna delle specie già note, ma è il rappresentante non solo di una nuova specie, ma addirittura di un nuovo genere, ed è stato denominato Kenyanthropus platyops.
È stato possibile anche ricostruire la fisionomia del volto del Kenyanthropus. Ed è un volto dai lineamenti così marcatamente appiattiti che il suo nome scientifico significa "Uomo del Kenya dal volto piatto". O meglio "Facciapiatta", come è stato più familiarmente ribattezzato questo lontano parente dell'umanità, vissuto a metà del Pliocene nell'area ad occidente del lago Turkana, in un habitat misto di praterie e terreni boscosi e probabilmente ricco di sorgenti d'acqua.
Lo strato geologico in cui è stato rinvenuto ha permesso di datarlo tra i 3.5 e i 3.2 milioni di anni fa, quindi contemporaneamente alla diffusione di Australopithecus afarensis, anch'esso presente nell'Africa orientale.
Le due specie, dunque, hanno vissuto fianco a fianco? Impossibile dirlo, almeno finché non capitasse di ritrovarne i resti fossili nel medesimo sito, ma l'esame della dentatura del Kenyanthropus fa pensare che i due ominidi si nutrissero di alimenti vegetali diversi, e quindi non fossero in competizione tra loro nella ricerca del cibo.
Di certo questa scoperta ha reso ancora più complessa la ricostruzione dell'albero genealogico dell'umanità, che più che un albero con unico tronco ben definito è ormai un vero e proprio cespuglio, dai rami sempre più fitti. Rami "secchi" che spesso finiscono nel nulla, come è magari accaduto a Facciapiatta.
L'evoluzione, a quanto pare, ha sperimentato parecchio con le forme ominidi, ed il passato remoto di noi uomini moderni si sta sempre più popolando di una tale variabilità di specie che ormai rende difficile stabilire con certezza le varie parentele.