Il V secolo si apre con una gravissima minaccia che sarebbe stata gravida di conseguenze per l'intero mondo greco: l'impero persiano che preme alla periferia dell'Egeo. Questo impero, costruito da Ciro a partire dall'altopiano dell'Iran, raggruppa, dal mar Nero sino alle rive del mar Rosso, l'antica Mesopotamia, l'Anatolia, la costa siro-palestinese e l'Egitto. Dopo una lunga crisi politica seguita all'assassinio di Cambise, successore di Ciro, l'impero è allo scorcio del nuovo secolo, saldamente retto da Dario. Quali ragioni spinsero quest'ultimo ad attaccare la Grecia?
È su questa domanda che si apre la storia del V secolo.
Innanzitutto dobbiamo dire che lo storico che tenti di comprendere che cosa siano veramente state le guerre persiane si scontra con una fondamentale difficoltà: egli deve utilizzare una sola e unica fonte, il racconto di Erodoto, il quale, sin dall'inizio, nel Proemio, non nasconde che si tratti di tramandare il ricordo di un grandioso scontro tra due civiltà, quello della polis greca, simbolo positivo della libertà, e quella dell'impero persiano, simbolo negativo del dispotismo. E il fatto che, da osservatore curioso, egli accordi un'attenzione spesso benevola ai costumi dei popoli che compongono l'impero persiano, non ne contraddice il partito preso originario. Di qui la necessità, per chiunque voglia comprendere i fattori in gioco reali e la vera natura dello scontro tra Greci e «barbari», di sottoporre al giudizio critico il racconto dello storico e, per lo meno, di accettare con prudenza quanto è narrato.
Secondo Erodoto la vera causa di quella che viene generalmente denominata "Prima guerra persiana" fu la partecipazione di Atene alla rivolta degli Ioni d'Asia. Questi, dopo la scomparsa del regno di Lidia, con il quale erano scesi a patti e intrattenevano fruttuosi rapporti di scambio, dovettero subire l'influenza dei Persiani. Sembra che Dario, per riorganizzare un impero molto eterogeneo e per contrastare la minaccia dei suoi vicini Sciti, avesse aumentato il tributo che richiedeva alle città greche, alcune delle quali, come Mileto e Samo che avevano opposto maggiore resistenza, si erano viste addirittura imporre dei tiranni assoldati dai vincitori. Dunque la reazione non attardava a manifestarsi. Aristagora, utilizzando le obbligazioni imposte dai Persiani come pretesti, fece scoppiare una rivolta chiedendo sostegno alla flotta ateniese e a quella eretria che presero il largo nella primavera del 498.
L'unico fatto saliente della campagna condotta dagli Ioni e dai loro alleati fu la presa di Sardi, che venne data alle fiamme. Tale successo non ebbe però alcun seguito, poiché i Greci dovettero quasi immediatamente battere in ritirata e gli Ateniesi non tardarono a reimbarcarsi. La rivolta si estese tuttavia alla regione degli stretti e a Cipro, e le operazioni si conclusero solo quando gli Ioni furono battuti a Lade e Mileto nel 494. Le città greche d'Asia ricaddero dunque sotto il giogo persiano.
Secondo Erodoto sarebbe stato dunque per vendetta, che Dario, nel 490, decise di attaccare Atene che aveva appoggiato la rivolta ionica. Tuttavia gli storici moderni ritengono che all'origine dell'offensiva di Dario vi fossero in realtà dei semplici motivi di espansionismo.
Comunque sia, nell'estate del 490 la spedizione persiana partì. Essa si diresse in un primo momento verso le Cicladi e l'Eubea dove i Persiani si scontrarono con Caristo ed Eretria, della cui resistenza riuscirono infine ad aver ragione.
Quindi, agli inizi di settembre, sbarcarono nella piana di Maratona. Gli Ateniesi, prima ancora dell'arrivo dei Persiani e al comando, sembra, di Milziade, decisero di inviare un'ambasciata a Sparta per chiedere l'aiuto dei Lacedemoni. Questi ultimi, che in quel momento stavano celebrando le feste in onore di Apollo Carneo, opposero agli Ateniesi, se non un rifiuto categorico, quanto meno una risposta ambigua. Fu dunque con il solo aiuto di un contingente di Plateesi, che gli opliti ateniesi si prepararono ad affrontare il nemico. Erodoto ci ha lasciato un racconto dettagliato della battaglia in cui viene esaltato in particolare il ruolo di Milziade. Comunque siano andate le cose, i Persiani furono costretti ad abbandonare il campo e dopo un ulteriore, vano tentativo di sbarco nella baia del Falero, lasciarono definitivamente le coste greche.
Per Atene si trattava di un importante successo, e Maratona sarebbe rimasta nella memoria della città come il simbolo del trionfo della libertà sulla barbarie. In realtà, se la spedizione persiana era fallita e se, come è ipotizzabile, uno dei suoi obiettivi, ormai fallito, era semplicemente quello di reinsediare Ippia (che come sappiamo si era rifugiato alla corte del re persiano) a capo della città, sarebbe tuttavia eccessivo attribuire all'episodio l'importanza accordatagli dalla posterità. Eppure, quella che per i Persiani era una spedizione senza grande importanza sarebbe diventata per gli Ateniesi il simbolo della grandezza della loro città. In realtà fu una vittoria molto importante dal punto di vista psicologico per la fiducia che essa infuse nei Greci.
Per il momento, comunque Atene, era scampata al pericolo. Dobbiamo allora ipotizzare, come vorrebbe Erodoto, che da parte persiana si fosse subito pensato ad una rivincita e che, da parte ateniese, ci si fosse preparati ad una tale eventualità sotto la guida esperta di Temistocle? Anche qui, non abbiamo che il resoconto di una sola campana, quella ateniese, di cui Erodoto e in seguito Tucidide si sono fatti interpreti.
In realtà non sembra che Dario, dopo la sconfitta e fino alla morte, avvenuta nel 486, avesse preparato la rivincita. L'impero persiano era, a quel tempo, scosso da rivolte interne in Egitto e in Babilonia, che impedivano qualunque progetto militare in Occidente. Quando Serse, che era succeduto al padre, ebbe domato le rivolte, trascorsero ancora ben quattro anni prima che egli mettesse a punto il suo progetto di una nuova offensiva contro Atene.
Da parte ateniese, d'altronde, gli anni successivi alla vittoria di Maratona non sembra fossero caratterizzati dal timore di un risveglio della minaccia persiana, quanto piuttosto dalle lotte che opponevano le varie fazioni aristocratiche. È in quest'epoca, infatti, che sembra sia stata adottata per la prima volta la procedura dell'ostracismo ideata da Clistene.
Nel frattempo, in questo decennio che separa le due guerre persiane, emerge in particolare un personaggio, il Licomide Temistocle. Eletto arconte nel 493/2 a.C. concepì, in contrasto con l'indirizzo tradizionalista, il disegno di trasformare Atene in una potenza marittima. Nel 483/2 fece infatti approvare una legge navale che destinava alla costruzione di cento triremi il ricavato di alcune miniere statali del Laurio. In quell'anno, infatti, era stato scoperto un nuovo giacimento a Maroneia. Contro il parere di coloro (tra cui Aristide) che proponevano di dividere il ricavato tra gli Ateniesi, Temistocle fece prevalere l'idea di destinarli alla costruzione della flotta da guerra. Questa avrà notevoli conseguenze sia nello scontro con i Persiani, sia sul piano delle relazioni fra le città, poiché Atene vi avrebbe trovato lo strumento del proprio dominio sull'Egeo, sia sul piano interno, dato che la flotta accordava ai più poveri, che vi sarebbero stati ingaggiati come rematori, un peso politico ormai sottratto alla classe degli opliti.
Ma tornando allo scontro con i Persiani, dobbiamo dire che quali che fossero le vere intenzioni di Serse quando nel 480, preparò l'invasione della Grecia, e pur ridimensionando le forze attribuitegli da Erodoto, resta che i Greci sarebbero stati costretti a fronteggiare una minaccia reale, e tanto più grave in quanto il re aveva organizzato un doppio attacco per mare e per terra. Questa volta, tuttavia, gli Ateniesi non erano soli. Sin dai primi preparativi da parte di Serse e indubbiamente su iniziativa di Atene, durante l'estate del 481 si era tenuta una riunione sull'istmo di Corinto, in occasione della quale i rappresentanti delle città decise a resistere si erano incontrati per pianificare appropriate misure di difesa. Venne dunque stipulata un'alleanza tra Ateniesi, Spartani e i loro alleati peloponnesiaci, cui si aggiunsero un certo numero di Euboici, di Beoti e, non senza resistenze alcuni Tessali, mentre il comando generale dell'esercito e della flotta veniva affidato agli Spartani.
Sempre secondo Erodoto, i Greci avrebbero stabilito di resistere in terra al passo delle Termopili, e in mare nello stretto passaggio del canale di Oreo, vicino al capo Artemisio.
Nella primavera del 480 ebbe inizio quella che è stata definita come Seconda guerra persiana. Le truppe di terra persiane, attraverso l'Ellesponto, la Tracia e la Macedonia arrivarono nei pressi delle Termopili senza incontrare molta resistenza, mentre la flotta, dopo aver costeggiato l'Egeo, si attestava al largo del promontorio dell'Artemisio. Le due battaglie, terrestre e navale, si svolsero quasi contemporaneamente. Alle Termopili, il re spartano Leonida non poté, malgrado un'eroica resistenza, impedire ai Persiani, forse informati da un fuoriuscito, di accerchiarlo e di eludere lo sbarramento sul quale contavano i Greci. In compenso, all'Artemisio lo scontro rimase incerto e le navi greche poterono ripiegare prima di essere distrutte dalla flotta persiana.
Da quel momento in poi, la via per la Grecia centrale era aperta, e per gli Ateniesi la situazione diventava tanto più drammatica, poiché i popoli vicini, Locresi, Dori, Beoti, si stavano unendo ai vincitori e i Peloponnesiaci, da parte loro, avevano ripiegato sull'istmo di Corinto, decisi a difendere il Peloponneso, «senza preoccuparsi del resto», secondo le parole di Erodoto.
I Persiani riuscirono dunque a penetrare in Attica e a raggiungere Atene e l'Acropoli – dove era rimasto soltanto un piccolo presidio giacché Temistocle aveva fatto in precedenza riparare la popolazione a Salamina, a Trezene o a Egina – e che, per vendicare l'incendio di Sardi vennero date alle fiamme.
Nel frattempo però la flotta persiana fu attirata da Temistocle negli angusti spazi dello stretto di Salamina, dove venne sconfitta. La distruzione di gran parte delle navi rese impossibile per Serse l'attacco contro il Peloponneso: il re allora tornò a Sardi, facendo presidiare dalla flotta l'Ellesponto e lasciando in Grecia le forze di terra al comando di Mardonio. Dopo aver svernato in Tessaglia, nell'agosto seguente l'armata persiana fu sbaragliata nella grande battaglia di Platea dalle truppe greche coalizzate sotto il comando supremo dello spartano Pausania (settembre 479). Lo stesso giorno, secondo una tradizione da accettare con prudenza, la flotta greca (sotto il comando nominale dello spartano Leotichida, di fatto condotta dallo spartano Santippo) avrebbe distrutto al largo di capo Micale quel che restava della flotta persiana, sottraendo così le isole al controllo del nemico. Nella primavera del 478 gli ateniesi conquistarono Sesto sull'Ellesponto, l'ultima posizione persiana in Europa assicurandosi così il definitivo controllo dell'Egeo.
Le guerre persiane divennero nell'immaginario collettivo dei Greci il simbolo della vittoria della civiltà e della ragione contro la barbarie: loro, uomini liberi, con forze infinitamente inferiori ma più disciplinate, avevano avuto ragione dei barbari, schiavi asserviti ad un despota. Se molti studiosi moderni hanno adottato per lungo tempo il punto di vista greco vedendo nelle guerre persiane una vittoria dell'Occidente sull'Oriente, oggi si tende piuttosto a relativizzare la portata del successo greco, ovvero a svelarne i pericoli, nella misura in cui la vittoria, che fu una vittoria soprattutto di Atene che per ben tre volte (a Maratona, a Salamina e a Platea) ebbe la meglio sui Persiani, preluse all'egemonia di questa città, egemonia che avrebbe creato di lì a poco in seno al mondo greco una «frattura ancor più fatale di quanto non avrebbe forse fatto una vittoria persiana a lungo termine» (Ed. Will) portando addirittura allo scoppio della disastrosa guerra del Peloponneso.
I cinquant'anni successivi alle guerre persiane (definiti da Tucidide pentecontaetia) furono gli anni dell'apogeo di Atene e del suo imperialismo. La democrazia si affermò mentre, sotto la guida illuminata di Pericle, Atene divenne la «scuola» della Grecia. Ma fu proprio questa potenza ateniese in opposizione all'egemonia spartana che costituì, a parere di Tucidide, la ragione della successiva guerra del Peloponneso. Già all'indomani delle battaglie di Platea e Micale, combattute fianco a fianco, la rottura tra Atene e Sparta si rese palese. Secondo Tucidide i motivi di questa rottura derivarono essenzialmente dal problema persiano: mentre infatti gli Ateniesi erano favorevoli a continuare ad oltranza la guerra contro la Persia per liberare definitivamente le città ioniche dell'Asia Minore, gli Spartani, dal canto loro, si dichiaravano contrari. O meglio, la maggior parte degli Spartani si dichiarava contraria. A non accettare tale atteggiamento era infatti Pausania che non era disposto a lasciare ad Atene tutta l'iniziativa. Così egli si mise al comando della flotta greca volgendo contro Bisanzio, che era ancora in mano persiana e la espugnò. Tuttavia fu proprio a Bisanzio, nel corso del 478 o del 477 che si manifestarono le prime lamentele degli alleati, specialmente degli Ioni, contro la durezza del comandante spartano e dei suoi atteggiamenti troppo autoritari che ricalcavano modi orientalizzanti. Gli alleati si lagnavano di tutto ciò con Atene e pregavano gli ateniesi di assumere essi stessi il comando navale e gli ateniesi – afferma Tucidide – mostravano di gradire queste offerte. Gli spartani informati, richiamarono Pausania con l'accusa di aspirare alla tirannide e di intese con la Persia. E probabilmente, visto che erano già propensi a farla finita con la guerra con la Persia, si ritirarono dall'alleanza lasciando campo libero alle ambizioni ateniesi. Gli ateniesi assumevano così pacificamente l'egemonia offerta dagli alleati.
Nacque così, da questi fatti, secondo Tucidide, la lega delio-attica (il nome è moderno: gli antichi dicevano «gli Ateniesi e i loro alleati»): non si conosce esattamente quale fosse la natura di questa alleanza, se una confederazione o una semplice simmachia (ovvero un'alleanza di tipo militare). Quel che è certo è che Atene da subito vi aveva una supremazia incontestabile a causa, come abbiamo visto, della propria forza e del gran numero di piccole città che ponevano in essa la loro unica speranza di salvezza. Un altro fatto certo è l'esistenza di un tesoro comune, depositato a Delo e alimentato dal phoros, il tributo richiesto agli alleati che non erano in grado di contribuire con uomini e navi per la continuazione della guerra. Fine, infatti, dichiarato della lega era ovviamente la prosecuzione della lotta ai Persiani anche se essa si trasformò presto in uno strumento mediante il quale Atene, sfruttando la propria supremazia, esercitava il proprio dominio sull'Egeo e sulle stesse città confederate.
Tornando alla politica interna ateniese, dobbiamo dire che gli anni successivi alle riforme di Clistene sono assai poco conosciuti. Quel che sappiamo è che nel decennio che separa le due guerre persiane, si afferma la figura di Temistocle. Temistocle ebbe il merito, oltre a quello, come abbiamo visto, di trasformare Atene in un potenza marittima, di prevedere che la nuova condizione egemone di Atene avrebbe condotto la città, presto o tardi, ad uno scontro con Sparta. Così Temistocle convinse gli Ateniesi a costruire un tracciato di mura che univa la città al suo porto, il Pireo, che fu a sua volta fortificato e munito di un arsenale per la costruzione e la manutenzione della flotta. In questo modo si cercava di rendere impossibile, nel momento in cui ve ne fosse stato bisogno, per gli Spartani (che erano più forti sulla terraferma) bloccare la città, la quale, grazie a a questo tracciato di mura, poteva ricevere provviste alimentari anche in caso di assedio.
La realizzazione di quest'opera, che fu fatta contro il parere contrario dei Lacedemoni, compromise ulteriormente i rapporti con Sparta.
Ma essa non fu priva di conseguenze nemmeno sul piano della politica interna ateniese. Infatti in Atene i fautori di una politica di accordo con Sparta erano ancora numerosi: si creò dunque una contrapposizione tra due «partiti» (il termine «partito», veramente, è alquanto improprio applicato agli antichi, che non conobbero niente di simile ai moderni «partiti», organizzazioni permanenti fondate su una ideologia ad un programma politico preciso, ma solo delle correnti di opinione, delle tendenze politiche facenti capo a individui o gruppi particolari) o fazioni politiche (che forse però nascondeva una contrapposizione tra famiglie aristocratiche) che avrebbero condizionato la vita politica della città per tutto il secolo: uno moderato, conservatore (di indirizzo oligarchico) favorevole ad una politica di pace e di equilibrio con gli altri stati; uno radicale (di indirizzo democratico) con interessi rivolti al mare e a una politica di espansione sia verso la Persia che verso le altre città greche.
A prevalere in un primo momento fu il partito conservatore sotto la guida di Aristide: nel 470 infatti Temistocle fu ostracizzato e fu costretto a riparare ad Argo. Successivamente accusato di accordi segreti con i Persiani dovette rifugiarsi in Persia dove fu accolto amichevolmente e dove morì nel 461.
Dell'attività politica di Aristide conosciamo ben poco. Alla sua morte gli successe alla guida del partito moderato Cimone, figlio di Milziade, il quale seguì un indirizzo decisamente filospartano ed antipersiano.
Cimone indirizzò le sue mire di potenza verso l'avversario tradizionale del suo popolo, vale a dire i Persiani, e proseguì con vigore operazioni militari contro di loro. Nel 468 a.C. presso la foce del fiume Eurimedonte, in Asia Minore, le forze della lega delio-attica sotto il comando di Cimone sconfissero i Persiani in una duplice battaglia, per terra e per mare. In conseguenza di ciò nuove città ioniche confluirono nella lega: Atene ottenne di fatto il controllo di tutto il mare Egeo consolidando definitivamente la propria potenza marittima.
Tuttavia Cimone commise un fatale errore nel portare aiuto a Sparta durante lo svolgimento della III guerra messenica. Gli Iloti della Messenia avevano approfittato di un terremoto per ribellarsi ai loro dominatori (464 a.C.) e si erano arroccati sul monte Itome, nel cuore della Laconia, da cui risultò difficile snidarli. Gli Spartani chiesero allora soccorso agli Ateniesi e questi, per consiglio di Cimone, inviarono un loro contingente; tuttavia, poiché le operazioni andavano per le lunghe e le spese per il mantenimento dell'esercito alleato stavano diventando troppo gravose, le truppe ateniesi furono congedate senza troppi riguardi. Questo atteggiamento arrogante ferì l'orgoglio degli Ateniesi; il partito radicale, capeggiato da Efialte e Pericle, ne approfittò per prendere nuovamente il sopravvento chiedendo e ottenendo l'ostracismo di Cimone, motivato col fatto che egli aveva preferito l'utile degli Spartani alla grandezza della sua città (secondo Pericle infatti Cimone, dopo la vittoria su Taso, non volle attaccare la Macedonia, perché corrotto dal suo re Alessandro).
Di Efialte conosciamo molto poco. Sappiamo però che subito dopo l'ostracismo di Cimone fu autore di un'importante riforma costituzionale: con essa fu quasi del tutto esautorato il tribunale dell'Areopago, principale organo del potere oligarchico, la cui competenza venne limitata ai delitti di sangue e alla sfera religiosa. Gli altri compiti, fino ad allora propri dell'Areopago, vennero spartiti tra la bulé dei Cinquecento, l'assemblea del popolo e i tribunali dell'Eliea. Il successo di questi provvedimenti segnò il definitivo prevalere in Atene della linea democratica (poi continuata da Pericle), ma costò la vita al suo autore, che fu assassinato subito dopo. Questo assassinio è indicativo del fatto che i conflitti politico-aristocratici diventavano sempre più forti.
Ad Efialte successe Pericle, l'uomo allora più in vista dei democratici. Egli era figlio di Santippo, che aveva comandato la flotta nella battaglia di Micale, e, per parte di madre, discendeva dalla famiglia degli Alcmeonidi, la più nobile di Atene, e quindi dal fondatore stesso della democrazia, Clistene.
In linea con i suoi ideali volle portare a compimento la politica iniziata da Temistocle e continuata da Efialte, favorendo l'emergere del demos che costituiva il nerbo della flotta e facendo di Atene, attraverso la direzione della lotta contro la Persia, il centro della vita politica greca. Questo vasto disegno comportava inevitabilmente lo scontro anche con il blocco spartano: e in effetti si acuì in questo periodo il contrasto tra Atene democratica e Sparta conservatrice.
Partiamo dalla politica interna: Pericle effettivamente sviluppò una politica pienamente democratica istituendo un compenso in denaro per gli eliasti, i buleuti e gli altri magistrati compresi gli arconti fra i quali, dal 457/6 furono ammessi gli zeugiti e più tardi, anche i teti! Con tale provvedimento, denominato misthoforia, totalmente nuovo nel mondo antico, nel quale le cariche pubbliche erano gratuite ed esigevano semmai dispendiose prestazioni da coloro che le esercitavano, Pericle rendeva effettivamente accessibili ai ceti più poveri le funzioni politiche a loro aperte dalla legge: l'esercizio della funzione di eliaste o di buleuta o di magistrato esigeva infatti da parte dell'individuo ad essa designato l'abbandono integrale o parziale per la durata di un anno delle proprie attività private. Se le funzioni pubbliche non fossero state soggette ad un'indennità, sarebbero stati pertanto illusori i progressi democratici sanciti dalla legge e le cariche politiche sarebbero rimaste appannaggio esclusivo di coloro che potevano permettersi di vivere di rendita per un intero anno; con l'istituzione della mistoforia, invece, tutti gli Ateniesi, anche i più poveri, potevano aspirare ad una partecipazione diretta ed attiva alla direzione dello stato.
Ovviamente però la democrazia periclea ebbe dei limiti. Il demos infatti rivestiva più un forte potere di controllo che grandi possibilità di iniziativa politica. Ad esempio gli strateghi continuavano a essere eletti e scelti tra le classi più elevate. E non era una cosa di poco conto, visto che essi rappresentavano la carica più importante nella democrazia ateniese, avendo non solo grandi poteri militari, ma anche e soprattutto forti prerogative politiche. Pericle, consapevole di ciò, rivestirà la carica di stratega per ben trenta anni.
Inoltre non dobbiamo dimenticare che, la partecipazione alla politica era riservata ai soli cittadini e che nel 451 a.C., Pericle fece passare una legge secondo la quale venivano ammessi al diritto di cittadinanza ateniese solo i cittadini che avessero entrambi i genitori ateniesi. Così le conquiste della democrazia diventavano un privilegio di nascita e di «razza», dal quale erano rigorosamente esclusi gli stranieri residenti (meteci) e i discendenti di matrimoni misti.
In politica estera Pericle concepì un disegno con finalità imperialistiche che esigevano il predominio in Grecia e sull'Egeo. Può sembrare una contraddizione che il massimo esponente della democrazia ateniese fosse imperialista, eppure non c'è dubbio che la città più democratica della storia fu anche una città tyrannos, imperialista ed accentratrice. Inevitabilmente ciò lo portava allo scontro con Sparta e la Persia.
Nei riguardi di quest'ultima il conflitto si concretizzò essenzialmente con l'intervento in Egitto. Dopo la morte di Serse, avvenuta nel 465 a.C., l'Egitto tentò di ribellarsi sotto la guida di Inaro, un principe locale. Costui chiese l'aiuto di Atene e Pericle glielo accordò. Ma al termine della lunga lotta che ne seguì, Atene dovette registrare una durissima sconfitta: nel 452 a.C. la sua flotta, che era accorsa in aiuto di Inaro, fu distrutta lungo le coste egiziane e la stessa sorte subì una spedizione di soccorso che era giunta troppo tardi. Per qualche tempo sembrò che il pericolo persiano stesse per riaffacciarsi visto anche un secondo tentativo di Atene su Cipro e sull'Egitto; ma i due rivali alla fine trovarono più conveniente giungere ad un accordo e di conseguenza nel 449 a.C. fu stipulata la pace (pace di Callia) che chiuse ufficialmente lo stato di belligeranza fra Greci e Persiani. Atene ottenne che la Persia riconoscesse l'autonomia delle città greche sulle coste asiatiche e quindi il proprio dominio sul mare Egeo.
Tale pace che metteva fine alle guerre persiane, vanificava così la ragione d'essere della lega di Delo. Tuttavia Pericle riuscì a trasformare la lega in impero. All'inizio la lega era nata come una simmachia, ovvero un'alleanza di tipo militare tra stati, che pur ammettendo la supremazia di Atene, erano comunque autonomi. Ben presto però, come afferma Tucidide, tale supremazia si trasformò in arché, cioè in dominio. E questo avvenne tramite tutta una serie di provvedimenti attuati dallo stesso Pericle. Innanzitutto venne trasferito da Delo ad Atene (454 a.C.) il tesoro federale di cui Atene non rendeva nessun conto agli alleati. Il consiglio della lega non venne più convocato: a prendere decisioni fu da allora in poi soltanto la bulé ateniese. Inoltre Atene proibì alle città alleate di coniare moneta e impose l'adozione di quella ateniese come moneta comune: decisione che poneva l'economia delle altre città sotto il suo controllo. Non solo gli ateniesi si intromisero perfino negli affari interni delle città alleate e favorirono, ovunque lo poterono, dei regimi democratici; inoltre costituirono numerose cleruchie, ovvero assegnazioni di terre, stabilite già in Atene, a cittadini ateniesi, il cui scopo era quello di prevenire rivolte, di garantire punti di appoggio per la flotta ecc. Ovviamente tutto ciò creò malcontento e provocò ribellioni che furono spesso stroncate con durezza, ma che si generalizzeranno durante la guerra del Peloponneso contribuendo alla caduta di Atene nel 404 e quindi alla dissoluzione della lega.
L'ambizione egemonica di Pericle che cercava il controllo della Grecia centrale portò Atene e i suoi alleati a fronteggiarsi, per alcuni anni, con Sparta e i suoi alleati. Ne scaturì così una serie di conflitti dall'esito alterno che si concluse nel 445 a.C. quando le due potenze greche siglarono la pace detta dei Trent'anni, la quale riconosceva le due egemonie, quella di Sparta sul continente e quella di Atene sull'Egeo.
Gli anni che seguirono gli accordi con i Persiani e con Sparta sino all'inizio della rovinosa guerra del Peloponneso furono relativamente pacifici e prosperi e perciò particolarmente favorevoli agli sviluppi civili e culturali. Grazie alle ricchezze derivate dal commercio Pericle diede alla città un aspetto architettonico in tutto degno del suo prestigio politico: fu ricostruita l'Acropoli che i Persiani avevano distrutto; come simbolo di grandezza fu costruito il più grande tempio del mondo greco, il Partenone, dedicato ad Atene, per realizzare il quale venne chiamato il massimo artista greco: Fidia. I monumentali lavori eseguiti sull'Acropoli rimasero come l'esempio più grande e significativo dell'arte greca. Malgrado le grandi spese, le finanze ateniesi erano floridissime: il tesoro dello stato, conservato all'interno del Partenone, ammontava alla straordinaria somma di mille talenti che, per decreto proposto da Pericle, si vietò di spendere: era la riserva strategica, da utilizzare solo in casi di estrema emergenza, quando fosse stata in gioco la salvezza stessa della città.
Ma questo periodo d'oro era destinato a volgere al termine a causa della ripresa delle ostilità con Sparta che portarono alo scoppio di quella che è passata alla storia come guerra del Peloponneso.
Le origini della guerra del Peloponneso (comunque in embrione già da tempo) vanno ricollegate – secondo Tucidide – all'imperialismo ateniese e all'affermazione, all'indomani delle guerre persiane, della potenza navale di Atene: Tucidide afferma che «la vera ragione di essa, anche se non dichiarata a parole» fu la grande potenza degli Ateniesi e la paura che essa suscitava presso gli Spartani. Egli espone poi, con una certa ampiezza (I, 24 ss.), quegli incidenti che misero gli uni di fronte agli altri Ateniesi e alleati di Sparta e che furono indotti come pretesti (aitìai) per rompere, prima del termine fissato, la tregua trentennale e per dare inizio alle ostilità. Questi pretesti furono principalmente tre. Il primo fu la «questione di Corcira», ovvero l'intervento di Atene a favore di Corcira nel suo conflitto contro Corinto, alleata di Sparta. Il secondo fu la «questione di Potidea», ossia la pretesa che Potidea, alleata di Atene, ma colonia di Corinto, troncasse i rapporti con la madrepatria. Il terzo fu il «decreto di Megara», cioè l'approvazione da parte di Pericle di un decreto che escludeva Megara, alleata di Sparta, dai porti e dai mercati della lega.
Alla richiesta spartana di ritirare il decreto Atene oppose un deciso rifiuto: era la guerra (431 a.C.). Lo scontro fra Atene e Sparta non fu semplicemente uno scontro tra due poleis, ma fu anche lo scontro tra due ideologie differenti: ionica la prima, dorica la seconda, da sempre avevano rappresentato due concezioni politiche differenti, democrazia e oligarchia (con tutte le contrapposizioni che ne possono derivare), tanto da essere considerate dagli stessi Greci come modelli antitetici.
La prima fase del conflitto (431-421) è nota come «guerra decennale» o «guerra archidamica», dal re spartano Archidamo che, per sei anni, con numerose invasioni saccheggiò e devastò le campagne dell'Attica, la cui popolazione riparava, durante le incursioni nemiche nella regione, all'interno delle Lunghe mura, secondo il piano difensivo di Pericle. Il quale cercava di evitare ad ogni costo una battaglia campale (era nota la superiorità di Sparta in terraferma) e di sfruttare il dominio del mare, assicurato dalla flotta ateniese, per l'approvvigionamento della città e per incursioni contro il territorio nemico, sino a logorare le forze dell'avversario. In effetti, la ricchezza di Atene non dipendeva dalla sua campagna, che era povera e arida, ma dal mare, mentre per gli Spartani, che erano assai più deboli economicamente, il mantenimento della guerra a lungo andare sarebbe risultato insostenibile. Forse il piano di Pericle avrebbe potuto avere avuto successo; ma dopo il primo anno di guerra, nel 430 a.C. scoppiò un'epidemia, la «peste di Atene», tra la popolazione che viveva in condizioni igieniche precarie in una città sovrappopolata dai profughi, di cui Tucidide ci ha lasciato una drammatica descrizione. Moltissimi Ateniesi morirono e fra loro lo stesso Pericle. La sua scomparsa rappresentò una grave perdita perché venne a mancare la guida che per tanti anni aveva indirizzato con successo la politica ateniese. Dopo di lui la guida del partito democratico fu presa da Cleone, fautore di una politica di guerra e più volte criticato dalle fonti dell'epoca per il suo atteggiamento spregiudicato e rozzo.
Negli anni successivi le operazioni militari non registrarono grandi eventi: ogni estate l'esercito spartano saccheggiava la campagna attica e poi si ritirava, mentre Atene conservava il dominio dei mari.
Nel 425 a.C. gli Ateniesi, sotto il diretto controllo di Cleone, ottennero un notevole successo: riuscirono ad occupare Sfacteria e quindi Pilo, dove fu stabilito un presidio composto da Ateniesi e Messeni che rappresentava una minaccia costante per la Laconia. Ma Sparta reagì mandando il migliore generale, Brasida, contro le colonie ateniesi della Grecia settentrionale che erano raggiungibili via terra; egli riuscì abilmente a impadronirsene ma nel 422 a.C. cadde in una battaglia contro l'esercito ateniese ad Anfipoli: nella stessa battaglia morì anche Cleone. Eliminati i maggiori fautori della guerra, «i pestelli dei Greci» come li definiva Aristofane, prevalse dalle due parti un atteggiamento più conciliante: si giunse così ad una tregua, la cosiddetta pace di Nicia (421 a.C.).
Nonostante questa pace, che in realtà fu una tregua armata, la situazione rimase assai confusa: da una parte i principali alleati di Sparta, Corinzi, Megaresi, Beoti, Elei, non solo rifiutarono la pace che ritenevano dannosa, ma si dettero subito da fare, specialmente i Corinzi, per organizzare, d'accordo con gli Argivi, una coalizione che si ponesse come «terza forza» fra i due blocchi; dall'altra l'incapacità di Sparta di restituire Anfipoli, che non si voleva consegnare agli Ateniesi, irritò quest'ultimi che si rifiutarono a loro volta di restituire Pilo. Inoltre non mancarono da parte di Atene delle provocazioni contro Sparta: l'episodio più significativo fu la spedizione contro la piccola isola di Melo, l'unica delle Cicladi, insieme a Tera, che, essendo colonia spartana, aveva sempre rifiutato di entrare nell'alleanza ateniese e che intendeva mantenere la propria neutralità. Tuttavia gli Ateniesi la costrinsero ad unirsi a loro; quando i Meli si rifiutarono e non vollero piegarsi all'ultimatum ateniese, l'isola fu espugnata militarmente e gli abitanti massacrati o fatti schiavi (415 a.C.). Sparta non intervenne e la pace non fu rotta formalmente. Ma l'intesa auspicata da Nicia era definitivamente tramontata.
Nel frattempo ad Atene, la guida del bellicoso partito democratico era passata nelle mani di Alcibiade, un giovane parente di Pericle che in quegli anni divenne l'astro nascente della politica ateniese. Sotto certi aspetti Alcibiade fu un tipico prodotto della nuova generazione, sensibile all'influsso culturale dei sofisti: intelligente, colto, energico, ma individualista e spregiudicato, portato a seguire una politica di potere personale più che di interesse comune. Egli sostenne anche una nuova fiammata di imperialismo che di nuovo aveva riacceso gli animi degli Ateniesi, puntando le proprie ambizioni verso l'Occidente. Così nel 415 convinse l'assemblea ad accogliere la richiesta d'aiuto rivoltagli da Segesta, una città siciliana alleata di Atene e in lotta contro Siracusa. Gli Ateniesi si lasciarono sedurre dalla prospettiva di trarre vantaggio dai conflitti tra le città siciliane. Atene avrebbe così messo le mani sulle regioni più ricche di tutto il mondo greco e avrebbe avuto le risorse per sconfiggere definitivamente Sparta. Malgrado l'opposizione di Nicia e dei moderati, l'entusiasmo del popolo fu grande e venne decisa la spedizione: da Atene salpò una flotta di centotrenta navi con cinquemila opliti e migliaia di marinai, al comando di tre strateghi, Nicia (che accettò la nomina controvoglia), Alcibiade e Lamaco. Ma dopo l'arrivo in Sicilia le operazioni militari si dimostrarono assai più difficili del previsto. Siracusa era una città potente e ben difesa, determinata a resistere ad ogni costo; inoltre un episodio imprevisto tolse agli Ateniesi il loro migliore generale, Alcibiade. Infatti, pochi giorni prima della partenza molte immagini sacre di Ermes, le cosiddette erme, che venivano sistemate dinanzi alle case e ai crocicchi, furono trovate mutile; lo scandalo fu grande, e a esso si aggiunse nella folla la superstiziosa angoscia che questo sacrilegio avrebbe attirato sulla città l'ira degli dèi. Inoltre in un regime così sensibile alla fobia della congiura, che temeva sopra ogni altra cosa gli intrighi degli oligarchi, questo fatto apparve come la prova evidente di occulte trame antidemocratiche. L'inchiesta portò alla luce altri sacrilegi, fra cui la parodia dei misteri eleusini: per sospetti e rivelazioni seguirono numerosi arresti. Gli avversari politici di Alcibiade sfruttarono questa confusione e lo accusarono, riuscendo probabilmente a persuadere, con la promessa dell'impunità, qualcuno a fare il suo nome. L'accusa trovò un certo credito e Alcibiade, che già si trovava in Sicilia, fu convocato a discolparsi davanti al tribunale. Temendo di essere condannato egli preferì disertare e si rifugiò presso gli Spartani, dove si mise a svolgere un'attiva campagna antiateniese.
Nel frattempo l'assedio di Siracusa procedeva con lentezza sotto la guida cauta di Nicia; nel 414 a.C. tuttavia gli Ateniesi riuscirono a bloccare la città sia per terra che per mare. Sembrava ormai che la sorte di Siracusa fosse segnata, quando un contingente spartano (al comando di Gilippo), sembra su consiglio dello stesso Alcibiade, riuscì a penetrare in città e a rianimare la resistenza. Una spedizione di soccorso ateniese non riuscì a modificare la situazione: anzi i Siracusani passarono al contrattacco e riuscirono ad imbottigliare la flotta ateniese in un luogo dal quale era impossibile prendere il largo. Bloccata ogni via di fuga attraverso il mare, gli Ateniesi, ormai esausti e a corto di viveri, tentarono di ritirarsi nella notte per via di terra. La ritirata fu però disastrosa: presso il fiume Assinaro, a pochi chilometri da Siracusa, furono raggiunti e circondati dall'esercito siracusano e gettarono le armi (413 a.C.). La maggior parte degli Ateniesi venne massacrata, mentre i superstiti furono venduti come schiavi o rinchiusi nelle Latomie (cave di pietra siracusane) dove morirono di sete. Quanto ai due strateghi, vennero giustiziati.
Con un simile disastro si concluse la spedizione di Sicilia, iniziata con grande entusiasmo e si preparò la sconfitta con cui si risolse per Atene l'ultima fase della guerra del Peloponneso (413-404) detta «guerra deceleica».
La disfatta in Sicilia infatti causò enormi perdite di uomini e di risorse e incoraggiò gli Spartani a riprendere la guerra in vista di una vittoria che sembrava ormai vicina.
Essi fortificarono una località dell'Attica, Decelea, dove mantennero un presidio fisso: così Atene era ormai costantemente sotto assedio, le comunicazioni terrestri erano bloccate e l'estrazione dell'argento dalle miniere del Lauro resa impossibile. Nello stesso tempo si verificarono due fatti determinanti per l'esito del conflitto: la ribellione da parte di molti degli alleati-sudditi di Atene che, approfittando della situazione, cercarono di abbattere finalmente il dominio e l'alleanza della Persia, desiderosa di recuperare le città ioniche che aveva perduto dopo le guerre persiane, con Sparta (l'intesa fra Lisandro e Ciro il Giovane sarà determinante per la vittoria degli Spartani sostenuti dall'oro persiano). In questa situazione disperata gli Ateniesi trovarono però la forza per reagire; il démos comprendeva bene che la fine dell'impero ateniese sarebbe stata la fine del regime democratico, e che senza i tributi degli alleati il livello di vita delle masse popolari sarebbe stato gravemente compromesso. Si optò quindi per la prosecuzione della guerra decidendo di ricorrere ai mille talenti che Pericle aveva fatto depositare nel Partenone come riserva per le situazioni di emergenza; tra lo sbigottimento dei nemici, Atene riuscì ad allestire una nuova flotta e riuscì a prolungare la resistenza per quasi dieci anni.
Gli ultimi anni della guerra videro all'interno di Atene un confuso susseguirsi di eventi. Nel 411 a.C. i fautori dell'oligarchia presero il potere ad Atene grazie ad un colpo di stato abolendo la costituzione democratica: furono sciolte la bulè dei Cinquecento e l'ecclesia, furono abolite le misthòi, cioè le retribuzioni delle cariche politiche, e furono attribuiti tutti i poteri ad un consiglio di Quattrocento membri (oligarchi) anche se teoricamente i diritti politici vennero riconosciuti a 5000 cittadini, con l'esclusione dei teti e di parte degli zeugiti. Tuttavia questo nuovo regime non venne accettato dalla flotta ateniese stanziata a Samo (una delle poche isole dell'Egeo che non era insorta contro Atene), dove tra l'altro, in seguito ad una sventata congiura oligarchica si era rafforzato il regime democratico che aveva fatto solenne giuramento a favore della continuazione della guerra. I soldati destituirono dalla carica gli strateghi e i trierarchi che avevano partecipato alla congiura ed elessero al loro posto Trasibulo e Trasillo. Il primo, personalmente legato ad Alcibiade, seppe impedire che i soldati si precipitassero su Atene, convincendoli allo stesso tempo della necessità di proseguire le operazioni contro il nemico, pur richiamando in patria Alcibiade. Così l'uomo che era stato all'origine del complotto oligarchico ritornava paradossalmente in auge con l'appoggio dei democratici.
Intanto ad Atene la divisione era presente fra gli stessi rivoluzionari: Teramene in particolare, che pure aveva avuto una parte notevole dell'istituzione del nuovo regime, manifestava le sue preoccupazioni, sia per la reazione dei democratici di Samo, sia per i negoziati che gli oligarchici della città avevano avviato con gli Spartani. Così Teramene riuscì a far insorgere gli opliti che assicuravano la difesa della città contro i Quattrocento, ormai screditati dai vari insuccessi militari e a conferire l'autorità ai Cinquemila, sancendo di fatto il ritorno alla democrazia (411 a.C.). Atene in questo periodo si rese protagonista di una sorprendente ripresa (411-408 a.C.): tanto Alcibiade quanto Trasibulo otterranno considerevoli successi negli scontri navali di Cinossema, Abido e Cizico. L'ultima grande vittoria ateniese fu quella riportata nella battaglia navale svoltasi presso le isole Arginuse (406 a.C.). Qui però affondarono anche venticinque navi ateniesi e i naufraghi, a causa di una tempesta, non poterono essere raccolti. Questo mancato salvataggio provocò in Atene un processo capitale contro gli strateghi, che furono tutti condannati a morte. Privata dunque dei suo comandanti migliori, la flotta ateniese subì, contro la flotta persiana ben allestita grazie all'oro persiano, una catastrofica sconfitta ad Egospotami (405 a.C.). Il comandante spartano Lisandro bloccò Atene sia per terra che per mare e la città fu costretta ad arrendersi. Contro la volontà di Corinto e Tebe, Sparta non volle la distruzione di Atene, la più splendida delle città greche che nel passato tanto aveva dato al mondo greco. Le condizione di pace furono però molto dure: distruzione delle Lunghe Mura e del Pireo, consegna di tutte le navi salvo dodici, richiamo di tutti i fuoriusciti oligarchici, alleanza offensiva e difensiva con Sparta.
Era l'aprile-maggio del 404. Tutti ritenevano – ricorda Senofonte – che in quel giorno cominciasse, per la Grecia, la libertà.
In realtà cominciava l'imperialismo spartano, che doveva rivelarsi per i soggetti molto più duro e oppressivo di quello ateniese. Infatti Sparta, che era scesa in guerra contro Atene agitando gli ideali dell'autonomia e della libertà per tutte le poleis, si affrettò a violarli nel modo più palese nei confronti degli ex nemici, delle città liberate dal giogo ateniese e dei suoi stessi alleati, non appena ebbe la vittoria nelle mani. Divenuta arbitra della Grecia Sparta instaurò infatti nelle città liberate governi oligarchici, affidati a collegi di dieci o trenta uomini (le decarchie e le triacontarchie di cui parlano le fonti) fedelissimi alla sua politica e pronti ad usare metodi tirannici; rinforzò questi governi, che non tardavano a divenire invisi alle popolazioni, con guarnigioni ed armosti (governatori) spartani, al cui mantenimento le città stesse dovevano provvedere; costrinse le città a concludere con lei alleanze difensive e offensive e a rinunciare così a qualsiasi autonomia nella politica estera. Di questa politica imperialistica fu ispiratore Lisandro, il vincitore di Egospotami, che, insofferente dei limiti imposti dalla costituzione ai magistrati spartani, cercò di costruire sul proprio prestigio e sulla nuova posizione di Sparta nel mondo greco le basi di una potenza personale. La politica di Lisandro incontrò pertanto ostacoli e suscitò reazioni nella stessa Sparta, ma soprattutto in colui che era il principale avversario e cioè il re Pausania II, figlio di quel Pleistonatte che nel 445 e nel 421 era stato autore della pace con Atene. Il conflitto fra Lisandro e Pausania, delineatosi fin dal 403 proprio a proposito della politica da adottare nei confronti di Atene, fu uno dei fattori della rapida rinascita ateniese dopo la terribile sconfitta del 404 e dell'altrettanto rapida decadenza del sistema imperialistico creato da Lisandro.
Dopo aver dettato ad Atene le condizioni della resa, Lisandro, d'accordo con Teramene e con gli altri fuoriusciti oligarchici, di cui, come abbiamo detto, il trattato di pace prevedeva il ritorno, aveva imposto agli Ateniesi l'abolizione della democrazia, e l'elezione di trenta uomini incaricati di elaborare una nuova costituzione. I più influenti fra i membri di tale collegio furono Teramene e Crizia, un aristocratico filo-spartano che nella democrazia aveva cercato in passato, come ora cercava nella oligarchia, la via per raggiungere il potere personale. Col dominio dei Trenta cominciò in Atene il terrore: vennero limitati i diritti politici non più a cinquemila ma a tremila persone, vennero conferiti i poteri dell'Eliea ad una commissione di cinquecento, le condanne a morte, le confische, gli esili colpirono con un crescendo spaventoso coloro nei quali i Trenta vedevano un ostacolo reale o possibile al loro predominio.
Questi metodi spietati applicati soprattutto da Crizia, allora il più potente fra gli oligarchi, suscitavano intanto opposizioni fra gli stessi Trenta: Teramene, che, nelle numerose evoluzioni politiche da lui eseguite in questi anni, aveva perseguito con una ostinazione ed una coerenza formale pari solo all'ambiguità della condotta reale, l'ideale del tutto utopistico di un'oligarchia democratica e l'obiettivo concreto del potere personale, deluso ora da una tirannide che seminava terrore e morte, tentò contro Crizia il suo ultimo colpo di stato. Ma Crizia lo prevenne, e dopo averlo cancellato dalla lista dei Tremila, lo fece arrestare ed uccidere.
Nel frattempo i democratici che erano riusciti a fuggire si erano stretti attorno a Trasibulo, lo stratega del 411, il quale era riuscito a fuggire a Tebe e auspicava a restaurare la democrazia. Così nel 403 si mise a capo di una spedizione riuscendo ad impossessarsi della fortezza di File, che proteggeva uno degli accessi all'Attica. Marciò quindi su Atene ed occupò il Pireo respingendo l'esercito inviato dai Trenta.
Durante un assalto Crizia venne ucciso. Così, privi del loro capo, divisi sulla linea di condotta da seguire, i Trenta furono ben presto costretti a fuggire ad Eleusi. Gli oligarchi chiamarono in loro aiuto Lisandro (che, come detto, favoriva l'instaurazione di regimi oligarchici nelle città assoggettate da Sparta), ma prima che questi potesse intervenire, il re Pausania – non scontento di indebolire la posizione di Lisandro – si offrì come mediatore. I democratici poterono così rientrare in Atene e ristabilire la democrazia.
La rinascita della democrazia segnò anche l'inizio della faticosa e lenta rinascita della potenza ateniese: la situazione in cui Atene si trovava nel 403, dopo la guerra del Peloponneso e la guerra civile, era durissima: il territorio nazionale era ridotto alla sola Attica, devastata e immiserita dalla lunghissima invasione; le finanze dello stato erano esaurite; la popolazione impoverita e decimata dalla guerra e dalle stragi dei Trenta. Bisognava riordinare le leggi, risanare le finanze, riorganizzare i tribunali.
Mentre Atene, faticosamente, ricostituiva se stessa dopo la sconfitta, Sparta era costretta ad assumere la responsabilità che la sua nuova condizione di egemone le aveva affidato. L'egemonia ateniese aveva avuto la sua giustificazione morale, di fronte all'opinione pubblica panellenica, nella lotta contro la Persia e nella libertà assicurata ai Greci d'Asia; Sparta, vittoriosa su Atene grazie all'alleanza con la Persia, si trovava ora di fronte ad un'alternativa pericolosa: o conservare l'amicizia persiana rinunciando stabilmente alla libertà dei Greci d'Asia e alla più valida giustificazione ideale della sua egemonia panellenica, o accettare integralmente l'eredità spirituale di Atene e rivendicare contro la Persia l'indipendenza dei Greci asiatici. Determinante nella scelta spartana fu il conflitto scoppiato tra Ciro e il fratello Artaserse per la successione al trono all'indomani della morte del padre Dario II (nel 404 a.C.). Gli Spartani favorirono la partenza di un contingente di mercenari a sostegno di Ciro che tanto li aveva aiutati durante la guerra contro Atene; questi però morì combattendo contro l'esercito del fratello nella battaglia di Cunassa (401 a.C.), nel cuore dell'Asia. I mercenari greci dovettero rientrare in patria aprendosi la via con le armi; la loro spedizione, attraverso tutta l'Asia, dimostrò ancora la superiorità dell'ordinamento militare greco e rivelò la debolezza di quello persiano.
Una volta salito sul trono Artaserse, Sparta si trovò, in conseguenza del suo atteggiamento, inevitabilmente in urto con la Persia. Quindi fu obbligata a scegliere la seconda delle opzioni prima esaminate: ovvero scontrarsi con i Persiani per rendere libertà ai Greci d'Asia giustificando così la sua egemonia. Inviò vari corpi di spedizione, l'ultimo dei quali (396 a.C.) fu guidato dallo stesso re Agesilao che conseguì alcuni successi militari e penetrò profondamente in Asia Minore. Ma Artaserse ricorse alla collaudata politica di mettere le città greche l'una contro l'altra: come precedentemente la Persia aveva favorito Sparta contro Atene, così ora si rivolse ad Atene contro Sparta.
Sembra infatti che attorno al 396 egli inviasse in Grecia Timocrate per far sapere agli avversari di Sparta cioè, agli Ateniesi, che aspettavano solo il momento della riscossa, agli Argivi, che di Sparta rimanevano gli ostinati rivali, ai Corinzi e ai Tebani, delusi dalla vittoria e insofferenti dell'egemonia spartana, che la Persia era disposta a finanziare un loro eventuale conflitto contro Sparta.
Dunque coalizzate, queste quattro città diedero inizio alla guerra contro Sparta che, per la località in cui si svolsero le principali operazioni, prese il nome di guerra di Corinto (395-386 a.C.). Questa obbligò Agesilao ad abbandonare le operazioni militari in Asia e a tornare in Grecia, dove ottenne contro la coalizione nemica un'importante vittoria a Coronea nel 394. Ma negli stessi giorni una flotta persiana al comando dell'ateniese Conone, distrusse quella spartana a Cnido (sulle coste dell'Asia); la conseguenza di essa fu l'espulsione delle guarnigioni spartane dalle città greche della costa asiatica e dalle isole che furono riconosciute autonome e alcune delle quali strinsero nuovamente alleanza con Atene. Conone ricevette inoltre grandi finanziamenti in oro con i quali poté ricostruire le Lunghe Mura. Per opera di Conone dunque l'impero ateniese risorgeva così sulla scia della politica di Pericle non senza trovare, però, opposizioni all'interno della stessa Atene.
Nel frattempo un altro generale ateniese, Ificrate, ottenne importanti vittorie contro l'esercito spartano.
I successi navali e terrestri di Atene indussero Sparta a correre ai ripari e a riprendere le trattative diplomatiche con la Persia, anch'essa minacciata e preoccupata dell'astro rinascente di Atene. Così, di nuovo insieme, Sparta e la Persia imposero, agli stati greci impegnati nella guerra, la cosiddetta pace del Gran Re o di Antalcida (386 a.C.) minacciando altrimenti un intervento bellico congiunto. Ormai stanchi di una guerra che sembrava protrarsi all'infinito e timorosi della minaccia persiana, gli stati greci accettarono. Le clausole del trattato prevedevano l'autonomia di tutte le città d'Europa e delle isole, in modo da sciogliere le varie e minacciose leghe che si erano formate (quella di Atene, la lega beotica e quella fra Argo e Corinto che si era formata durante la guerra di Corinto), ad esclusione di quella del Peloponneso che, formalmente (e solo formalmente ormai), era fondata sull'autonomia dei suoi membri. Infine la cessione incondizionata di tutte le città ioniche alla Persia.
La pace segnava dunque la fine di un primo tentativo ateniese di rioccupare le antiche posizioni nell'Egeo. Atene, infatti, aveva dovuto cedere di fronte alla minaccia di un intervento persiano, anche perché i sostenitori dell'impero avevano incontrato una forte opposizione.
Sparta, in compenso, usciva rafforzata da una guerra in cui era stata quasi per soccombere. La pace infatti non fu altro che il tentativo, peraltro riuscito, di Sparta di rovesciare con un abile atto diplomatico l'esito delle operazioni militari e di riconquistare, con l'appoggio della Persia, l'egemonia sulla Grecia, che aveva perduto nel corso della guerra. Sciogliendo tutte le leghe, la pace aveva infatti frazionato le forze degli avversari e Sparta riuscì così ad imporre, per qualche anno ancora, la sua supremazia.
Non solo, alleata del Gran re, Sparta diveniva in Grecia anche la garante della pace e l'arbitra delle eventuali violazioni di essa. Ma paradossalmente, fu Sparta stessa a violare il trattato, quando nel 382 il generale spartano Febida, con l'accordo degli oligarchi tebani, di impossessò della Cadmea, la rocca di Tebe, dette il governo della città ai fautori di Sparta e della oligarchia e vi lasciò un presidio spartano. Il gesto di Febida destò un'enorme impressione in Grecia, tanto che il governo spartano sconfessò ufficialmente il generale e dette a lui solo la responsabilità dell'accaduto. In realtà Febida aveva agito con l'approvazione di Agesilao, ispiratore del nuovo imperialismo spartano, e il governo di Sparta, nonostante la sconfessione formale, si guardò bene dal rinunciare all'occupazione della Cadmea e al controllo dell'importante città beotica. Ma la riscossa contro la prepotenza spartana partì questa volta proprio da Tebe. Nel 379 un gruppo di fuoriusciti beotici, alla cui testa si trovavano Pelopida ed Epaminonda mossero travestiti da Atene, dove avevno trovato rifugio; entrati in Tebe di notte, massacrarono i magistrati che stavano banchettando, sollecitarono il popolo a prendere le armi per la libertà, espulsero la guarnigione spartana e restaurarono la democrazia. La liberazione della città beotica era stata possibile grazie all'appoggio ateniese ed uno degli armosti spartani della Beozia, Sfodria, tentò, per rappresaglia, nella primavera del 378, di impadronirsi del Pireo. Gli Ateniesi non si lasciarono cogliere alla sprovvista e fecero fallire l'impresa di Sfodria. L'episodio rafforzò i rapporti tra Atene e Tebe i quali conclusero una regolare alleanza e concesse ai sostenitori di una restaurazione dell'impero ateniese, strettisi intorno a Callistrato e agli strateghi Ificrate e Timoteo, una buona occasione per rompere con Sparta, denunciare le mire spartane e costituire una nuova alleanza ai suoi danni.
Nacque così la «Seconda lega marittima» (377), le cui clausole sono note grazie ad un decreto giunto sino a noi. Scopo dell'alleanza, della simmachia, era quello di costringere gli Spartani a «lasciare che i Greci vivessero in pace, nella libertà e nell'indipendenza». Gli Ateniesi riaffermavano solennemente la propria fedeltà alla pace del Re e al principio dell'autonomia e della libertà delle città che Sparta aveva violato. Per questo motivo si impegnavano a non stanziare guarnigioni né colonie nel territorio degli alleati, a non intervenire nei loro affari interni e a non esigere tributi.
Naturalmente tutte queste clausole avevano lo scopo di impedire a qualunque costo un ritorno alle pratiche che avevano trasformato la lega di Delo in un impero.
Grazie a questa alleanza, Atene riuscì ad allestire in pochi anni una flotta poderosa con la quale sconfisse ripetutamente la flotta peloponnesiaca. Queste vittorie provocarono l'adesione di nuovi membri: così la lega, che al momento della fondazione era stata di soli sei membri, arrivò a comprenderne settantacinque. Con spirito e basi ben diversi da quelli del V secolo Atene aveva ricostituito il suo impero.
Nel frattempo però anche Tebe estendeva e consolidava la sua potenza espellendo ad uno ad uno i presidi spartani, sottomettendo con la forza le città della Beozia che ancora non accettavano la sua autorità e ricostituendo la lega beotica.
Le mire tebane, non preoccupavano solamente Sparta, che aveva dovuto subire varie sconfitte, ma anche Atene. Queste si fecero dunque promotrice di una pace per bloccare l'espansionismo tebano. La nuova pace non doveva essere altro che un rinnovamento della vecchia pace del Re, ovvero un riconoscimento dell'autonomia delle poleis, ma di fatto era il tentativo da parte di Atene e Sparta di una spartizione dell'egemonia in Grecia. Infatti il riconoscimento dell'autonomia delle singole città avrebbe permesso lo scioglimento della lega beotica – e quindi un indebolimento di Tebe –, ma non quello della lega marittima e di quella peloponnesiaca perché formalmente fondate sull'autonomia dei loro membri.
Epaminonda che aveva giustamente sospettato le intenzioni dei Lacedemoni e degli Ateniesi non accettò le condizioni e il congresso generale tenutosi a Sparta nel 371 per la stipulazione della pace fallì. Allora gli Spartani, sicuri di un facile successo, inviarono immediatamente in Beozia un forte esercito di opliti per ridurre alla ragione i Tebani. Ma Epaminonda aveva in serbo un'innovazione militare che avrebbe sorpreso e scompaginato il tradizionale ordinamento oplitico dei Lacedemoni. L'«arma segreta» consisteva sostanzialmente in un massiccio rafforzamento dell'ala sinistra della falange mediante un reparto di 300 combattenti scelti, il cosiddetto «battaglione sacro», e nell'imprimere all'esercito un andamento obliquo in modo che questa parte più forte cozzasse per prima contro la falange spartana. Nel luglio del 371 l'esercito spartano sperimentò a suo danno sui campi di Leuttra l'eccellenza della falange tebana. Di solito l'attacco dell'ala destra spartana, dove prendevano posizione le truppe scelte comandate dallo stesso re, risultava sempre vittorioso; ma in questo caso si infranse contro la fitta ala sinistra tebana: gli Spartani furono sconfitti, subirono gravissime perdite e lo stesso re Cleombroto morì durante lo scontro.
Fra lo sbalordimento di tutti i Greci la formidabile fanteria oplitica spartana era stata battuta in una battaglia campale da un esercito inferiore nel numero e privo fino a quel momento di qualsiasi prestigio militare: per questo la battaglia di Leuttra fu qualcosa di più che un battagli perduta: essa segnò il crollo della potenza spartana e dell'egemonia di Sparta sulla Grecia; segnò soprattutto la fine del mito dell'invincibilità spartana nei combattimenti terrestri.
Gli effetti più immediati della sconfitta spartana di Leuttra si manifestarono nel Peloponneso, da troppo tempo sottoposto al duro giogo dei Lacedemoni: l'Arcadia, la Messenia, l'Elide ne approfittarono per dar vita ad una violenta ondata di ribellioni contro gli Spartani e contro gli oligarchi da loro protetti. Epaminonda scese nel Peloponneso nel 369, invase la stessa Laconia, contribuì alla costituzione della lega arcadica, aiutò i Messeni a rivendicare la propria libertà.
Ma le ambizioni di Tebe non riguardavano solo il Peloponneso: esse si estendevano a tutta la Grecia, suscitando la diffidenza di Atene che passò perciò all'alleanza con Sparta. Tebe intervenne nelle contese dinastiche che agitavano la Macedonia assicurandosi la fedeltà di quel paese facendosi consegnare degli ostaggi (fra i quali si trovava anche il giovane Filippo, futuro dominatore di tutta la Grecia); Pelopida tentò di estendere alla Tessaglia l'egemonia tebana, che venne poi imposta da Epaminonda nel 367 con la forza delle armi.
Nello stesso anno Epaminonda fu anche costretto a intervenire di nuovo nel Peloponneso, dove la recente liberazione non ebbe esiti soddisfacenti, ma aprì anzi un periodo di caos: infatti tra Sparta e la Messenia era in corso una continua guerriglia devastatrice, ed anche fra le varie poleis della Lega arcadica l'accordo era tutt'altro che solido; perciò il condottiero tebano tentò, con risultati assai modesti, di conciliare i sempre risorgenti contrasti.
Negli anni che seguirono Epaminonda si convinse che, per assicurare il primato di Tebe sul mondo greco e per contrastare la rivalità di Atene, era assolutamente necessario disporre di una flotta adeguata: pertanto, a costo di gravare Tebe con spese eccessiva e non conformi alle sue tradizioni militari prevalentemente terrestri, fece deliberare la costruzione di cento triremi. Con queste egli mirò ad impadronirsi delle vie di comunicazione del Mar Nero, mettendo in difficoltà Atene sugli stretti e riuscì effettivamente ad occupare Bisanzio (364 a.C.), una delle più antiche e potenti alleate di Atene.
Contemporaneamente Pelopida aggrediva di nuovo la Tessaglia, ribelle all'egemonia tebana, e – vinta la battaglia di Cinocefale (364 a.C.) – pose le premesse per l'assoggettamento di quella regione. Egli morì in combattimento, ma la sua opera fu poi portata a buon fine.
Malgrado i numerosi successi, l'egemonia tebana era comunque fragile e artificiosa, perché non era fondata su solide basi economiche, politiche e culturali ma richiedeva continui interventi militari, che ne allontanavano il tramonto senza peraltro ottenere risultati duraturi. Infatti non era ancora trascorso un anno dalla sottomissione della Tessaglia e già Epaminonda era costretto a scendere nel Peloponneso, dove la situazione stava precipitando per un contrasto scoppiato in seno alla lega arcadica. Mentre Tegea e Magapoli si schieravano a fianco di Tebe, Mantinea tornò all'alleanza spartana, insieme agli Elei. Lo scontro decisivo avvenne in prossimità della stessa Mantinea nel luglio del 362 e mise di fronte l'esercito dei Beoti e dei loro alleati e gli eserciti spartano e ateniese, in una delle battaglie più importanti, per gli effettivi messi in campo da ambo le parti, della storia greca. Epaminonda adottò la tattica che aveva trionfato a Leuttra e vinse nuovamente (l'ala spartana dello schieramento nemico fu sconfitta pienamente, mentre l'ala tenuta dagli Ateniesi resistette), ma morì nella battaglia e i Tebani non seppero approfittare della vittoria. Così, osserva Senofonte, nella desolata conclusione delle sue Elleniche, la battaglia che avrebbe dovuto decidere del destino della Grecia lasciò solo turbamento e disordine: essa sanzionò la decadenza irreparabile di Sparta, ma pose fine anche all'effimera egemonia di Tebe, la cui classe dirigente, privata dei suoi grandi capi, Pelopida ed Epaminonda, mostrò la sua immaturità e la sua incapacità connaturata a condurre una politica di vasto respiro. Atene sola manteneva apparentemente intatta la sua potenza, ma, di fatto, la fedeltà della sua lega era stata minata dall'azione navale di Epaminonda e stava per essere travolta nella dura «guerra degli alleati» (357-355/4). La lega aveva esaurito la sua ragione d'essere, prima quando la potenza spartana crollò, poi quando Atene era divenuta alleata di Sparta, ed aveva perduto la sua giustificazione morale da quando Atene, cercando di rimediare, aveva ripreso i suoi metodi imperialistici.
Così, attorno alla metà del secolo IV a.C. questo confuso periodo di conflitti portò a uno stallo; né il sistema democratico né quello aristocratico avevano assicurato la stabilità politica alla Grecia e reso possibile il superamento del frazionamento territoriale, o per lo meno una pace duratura. La lotta per l'egemonia aveva logorato la Grecia distruggendo enormi risorse umane e materiali: come Sparta aveva infranto l'imperialismo ateniese, così Tebe aveva distrutto la supremazia spartana, ma in entrambi i casi al momento negativo non era seguito un adeguato processo di ricostruzione e di unione.
E ad uscirne sconfitto fu soprattutto il sistema stesso delle poleis che aveva denunciato i suoi limiti storici, vale a dire, sostanzialmente, l'incapacità a trasformarsi in stato nel senso più ampio del termine.
Nel frattempo, sul trono di Macedonia, stava per salire Filippo II.
CRONOLOGIA DEI PRINCIPALI EVENTI DI ETA' CLASSICA
4.1. Le guerre persiane
498 a.C.: rivolta ionica e presa di Sardi
494 a.C.: i Persiani distruggono Lade e Mileto
493-492 a.C.: arcontato di Temistocle
490 a.C.: prima guerra persiana:
vittoria ateniese a Maratona
483-482 a.C.: legge navale di Temistocle
480 a.C.: seconda guerra persiana:
scontri fra Greci e Persiani alle Termopili e a Capo Artemisio
i Greci vincono a Salamina
480 a.C.: i coloni greci della Sicilia sconfiggono i Cartaginesi (al comando di Amilcare) vicino alla città di Imera
479 a.C.: i Greci vincono contro i Persiani a Platea e a Micale
4.2. La Pentecontaetia
478-477 a.C.: Pausania espugna Bisanzio in mano persiana
477 a.C.: nasce la Lega delio-attica
470 a.C.: Temistocle viene ostracizzato –> Aristide –> Cimone
468 a.C.: Cimone sconfigge i Persiani all'Eurimedonte
464 a.C.: rivolta degli Iloti contro Sparta
461 a.C.: Cimone viene ostracizzato
460 a.C.: alla morte di Efialte Pericle prende il potere
452 a.C.: la flotta ateniese viene sconfitta in Egitto dai Persiani
449 a.C.: pace di Callia fra Greci e Persiani: autonomia delle città greche
445 a.C.: pace Trentennale fra Atene e Sparta
4.3. La guerra del Peloponneso
431 a.C.: decreto di Megara: inizia la prima fase della guerra del Peloponneso detta "guerra decennale" o " guerra archidamica"
430 a.C.: la peste in Atene: Pericle muore –> Cleone
425 a.C.: gli Ateniesi conquistano Sfacteria e Pilo
422 a.C.: battaglia di Anfipoli: morte di Cleone e Brasida
421 a.C.: pace di Nicia pone fine alla prima fase del conflitto
415 a.C.: gli Ateniesi conquistano Melo
415 a.C.: il contingente ateniese parte per la Sicilia sotto la guida di Alcibiade, Nicia e Lamaco
414 a.C.: gli Ateniesi, guidati da Nicia, assediano Siracusa
413 a..C.: gli Ateniesi vengono sconfitti in una battaglia presso il fiume Assinaro
413 a.C.: inizia la seconda fase della guerra del Peloponneso: "guerra deceleica"
411 a.C.: colpo di stato ad Atene: gli oligarchi prendono il potere
411 a.C.: restaurazione della democrazia grazie a Teramene
406 a.C.: gli Ateniesi vincono in una battaglia navale presso le isole Arginuse
404 a.C. gli Spartani sconfiggono gli Ateniesi a Egospotami: Atene si arrende. Fine della guerra
403 a.C.: abolizione ad Atene della democrazia e elezione dei "Trenta Tiranni"
403 a.C.: Trasibulo restaura ad Atene la democrazia
401 a.C. Ciro il Giovane viene ucciso in una battaglia a Cunassa contro l'esercito del fratello Artaserse
396 a.C.: ultima spedizione del re spartano Agesilao contro i Persiani
395 a.C.: inizia la Guerra di Corinto
394 a.C.: il re Agesilao vince le città greche coalizzate nella battaglia di Coronea
394 a.C.: una flotta persiana guidata dall'ateniese Conone sconfigge quella spartana a Cnido
386 a.C.: Pace del Gran Re o di Antalcida
382 a.C.: Sparta occupa la Cadmea
379 a.C.: Pelopida ed Epaminonda liberano Tebe
378 a.C.: Sfodria tenta, ma non riesce ad impossessarsi del Pireo
377 a.C.: nasce la seconda lega marittima ateniese
371 a.C.: battaglia di Leuttra: Tebe sconfigge Sparta
364 a.C.: battaglia di Cinocefale: Tebe conquista la Tessaglia
362 a.C.: battaglia di Mantinea: vittoria tebana su Sparta e Atene e morte di Epaminonda
Il trattato non prevedeva il rovesciamento della democrazia, ma coloro che avevano cercato già una prima volta di insediare l'oligarchia nel 411, avrebbero fatto un'altro tentativo, forti della presenza di una guarnigione spartana nel Pireo e della flotta di Lisandro.
Secondo le intenzioni di Sparta e degli Alcmeonidi la caduta dei Pisistratidi doveva comportare la restaurazione di un regime aristocratico. Ma la notevole forza economica e politica conseguita nel VI secolo a.C. dalle classi medie e dai piccoli proprietari agricoli rendeva praticamente impossibile la restaurazione del dominio nobiliare: se ne rese conto