Affrontando il discorso sulla lingua etrusca non si può prescindere dal constatare preliminarmente lo straordinario fascino che questo argomento ha sempre esercitato e tuttora esercita sul grande pubblico, sino ad apparire come l’aspetto più popolare e avvincente del cosiddetto «mistero etrusco». Ancora oggi il novanta per cento delle persone di media cultura crede fermamente nella totale oscurità dei testi etruschi e ne aspetta la decifrazione (come si legge spesso anche nella stampa di divulgazione e persino, purtroppo, nei libri scolastici). La lingua continua ad essere per l’opinione corrente l’enigma per eccellenza, il vertice del mistero: una sorta di mistero nel mistero. Ad essa si pensa come a una sfinge impenetrabile e refrattaria ad ogni sforzo; e una cieca fiducia viene riposta nella possibilità che qualcuno, tanto bravo o tanto fortunato, riesca a trovare la «chiave» che apra la porta della decifrazione. Alla ricerca della «chiave» continuano ad accanirsi dilettanti e interpreti improvvisati che ogni tanto, con sconcertante periodicità, annunciano la sospirata scoperta. La quale, rivelandosi dopo un effimero momento di pubblicità del tutto assurda e, di fatto, inesistente, non ottiene altro risultato che quello di perpetuare la convinzione che l’etrusco resta indecifrato.
Che cosa dire di fronte a questa diffusa opinione? Innanzitutto che per l’etrusco è un grossolano errore parlare di «decifrazione» se con ciò s’intende, nel senso etimologico della parola e nella comune accezione, la lettura di segni sconosciuti. La lingua etrusca è infatti espressa in un ben leggibile alfabeto di origine greca e affine all’alfabeto latino. Escluse talune ipotesi più o meno fantasiose su remote e dirette trasmissioni di sistemi grafici dal Vicino Oriente e dall’Egeo, è ormai fuor di dubbio che la scrittura alfabetica fu introdotta nell’Italia centrale tirrenica e particolarmente in Etruria dai colonizzatori greci del mezzogiorno della penisola, con speciale riguardo ai coloni provenienti dall’isola di Eubea (Calcidesi ed Eretrii) installati a Pitecusa e a Cuma: come provano la particolare affinità dell’alfabeto etrusco al modello dell’alfabeto greco occidentale e l’esistenza di affinità formali con la più antica epigrafia pitecusana (confermata tra l’altro dalla scoperta dell’iscrizione vascolare detta della «coppa di Nestore» risalente all'VIII secolo a.C.). Gli Etruschi dunque per scrivere la loro lingua adottarono, salvo pochissime modifiche, le lettere dell’alfabeto greco che fu portato in Italia dai coloni greci.
Il modello ideale dell’alfabeto etrusco è rappresentato da una serie alfabetica, o alfabetario, di 26 lettere incisa sul bordo di una tavoletta scrittoria d’avorio ritrovata a Marsiliana d’Albegna (databile al secondo quarto del VII secolo a.C.) e riprodotta più o meno integralmente su diversi altri oggetti (come la boccettina di Cere o il bucchero a forma di galletto del Viterbese, entrambi del VII secolo a.C.), che contiene l’esatta trascrizione in etrusco di tutte le lettere di un alfabeto greco del gruppo occidentale (dovrebbe trattarsi proprio del citato alfabeto euboico).
La trasmissione dell’alfabeto greco in Etruria è un fatto che rientra in un quadro storico-culturale di notevole ampiezza e cronologicamente può collocarsi alla fine dell’VIII secolo a.C. È infatti nel corso di questo secolo che i rapporti tra il mondo euboico delle colonie di Pitecusa e di Cuma e quello dell’Etruria meridionale si fanno particolarmente intensi: in quest’ultima area arrivano dall’ambiente greco-euboico ceramiche dipinte e maestri ceramisti che diffondono nuove tecniche, un nuovo gusto, nuovi usi. Prodotti dell’artigianato etrusco, databili tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII secolo a.C., sono stati rinvenuti a loro volta in centri euboici: forse un cinturone bronzeo in Eubea, scudi di lamina bronzea a Cuma, anfore di impasto con decorazione a spirale a Pitecusa. Già nell’VIII, ma in maniera massiccia dalla seconda metà dell’VII secolo a.C., arrivano in Etruria da Corinto vasi dipinti e unguentari destinati alla toilette femminile; giungono inoltre pittori e scultori che vi lavoreranno e favoriranno lo sviluppo locale delle forme d’arte che essi esercitano. Questi ultimi, secondo la tradizione, sarebbero arrivati verso la metà del VII secolo a.C. al seguito del ricco commerciante Demarato, al quale una tradizione conservata da Tacito attribuisce l’introduzione della scrittura in Etruria.
Tuttavia, l’esistenza di questi intensi scambi non presuppone che la circolazione dei beni e della scrittura interessi tutti i gruppi sociali. Come però i pezzi allotri rinvenuti in Etruria appartengono ai corredi più ricchi e sono pertanto una connotazione del ceto abbiente, così le più antiche iscrizioni etrusche si trovano su oggetti di valore e di alta qualità — ori, argenti, bronzi, vasi dipinti importati e locali, buccheri fini eccetera — e indicano attraverso formule diverse il possesso dell’oggetto: in altre parole, nel contesto sociale etrusco del VII secolo le iscrizioni come i manufatti importati sono status symbol della classe aristocratica. Tuttavia tra la fine del VII e il VI secolo a.C. nella società etrusca si registrano trasformazioni profonde: accanto al ceto aristocratico si affermano il ceto medio e, conseguentemente l’ideologia urbana. I rappresentanti del nuovo ceto si appropriano dei segni che avevano connotato gli aristocratici tra l’VIII e il VII secolo. Così la scrittura, o, se si vuole, la moda di far parlare un oggetto attraverso l’iscrizione, si democratizza e diventa appannaggio di questo nuovo ceto. Nel corso del VI secolo l’alfabeto si evolve ulteriormente: viene introdotta la lettera indicata con il simbolo 8 per indicare il suono della nostra spirante labiodentale f e la consonante gutturale sorda g viene indicata con la già esistente C nell’Etruria meridionale e con K nell’Etruria settentrionale. Proprio quest’ultima differenza distingue due dei tre alfabeti attestati in tutta l’Etruria. Secondo M. Cristofani infatti le zone con diversità alfabetiche sono tre: una più meridionale con le città di Cere e di Veio, una centrale con Tarquinia, Vulci e Orvieto ed una settentrionale con il resto dell’Etruria e la val Padana; per l’Etruria campana troviamo una distinzione fra area costiera ed interna, i cui alfabeti, coerentemente con le lontane origini delle due colonizzazioni della regione, dipendono rispettivamente da quelli di Tarquinia e Veio.
Ben presto, forse sempre nel corso del VII secolo, prese avvio il processo di adattamento dell’alfabeto greco alle esigenze fonetiche della lingua etrusca: dalle originarie 26 lettere della tavoletta di Marsiliana d’Albegna si passò alle 22 lettere usate in Etruria eliminando le consonanti sonore B (β, b) e D (δ, d), in quanto segni corrispondenti a suoni assenti nel sistema fonologico etrusco, e la vocale velare O (/o/) non pronunciata come suono distinto da u. Inoltre il segno γ che ha valore fonetico di g, che è un suono assente nel sistema fonologico etrusco, nella forma semilunata C, passa a rappresentare la velare sorda c in concorrenza con k (k) e con q (q). Nell’Etruria meridionale la differenziazione d’impiego è di regola determinata, in età arcaica, dalla vocale che segue: ka, ce, ci, qu; più tardi resta in uso solo c (come si può vedere dall’alfabetario di Nola del V secolo a.C.); mentre nell’Etruria settentrionale prevale e perdura più a lungo k (vedi alfabetario di Perugia del VI secolo a.C.), poi sostituito attorno al IV secolo anch’esso da c. Sopravvisse a lungo il digamma V = v prestissimo scomparso invece negli alfabeti greci. Del tutto estraneo alla fonetica greca era anche il suono della spirante labiodentale f, per la cui notazione si dovette originariamente ricorrere al gruppo di due lettere VH = vh; mentre a partire dal VI secolo si inventò addirittura un segno nuovo, in forma di 8 che apparirà introdotto all'ultimo posto delle serie alfabetiche. Un problema particolare e complesso è infine quello delle sibilanti. Chi doveva adattare la scrittura greca alla lingua etrusca si trovò di fronte a due suoni articolati diversamente che occorreva distinguere; a tal fine vennero utilizzati, simultaneamente e in opposizione funzionale tra loro, due dei segni disponibili nel repertorio alfabetico greco – quello appunto che conosciamo da Marsiliana –, cioè X presumibilmente derivato dal fenicio sade e s derivato dal fenicio sin (che rispettivamente trascriviamo s’ e s), i quali nei singoli alfabeti locali greci appaiono sempre isolatamente e con impiego alternativo per rappresentare l’unico suono della sibilante greca. Va tuttavia rilevato che a questa soluzione si pervenne dopo vari e mal definibili tentativi iniziali, nei quali ebbe gioco anche la concorrenza del segno × e della variante di s con più di tre tratti, e che la rispondenza dei segni X e s alle due sibilanti etrusche si stabilirà in modo decisamente inverso nell’Etruria meridionale e nell’Etruria settentrionale; mentre a Cere in luogo di X, prevarrà la variante di s con quattro tratti.
Una evidente trasformazione evolutiva interna dell’alfabeto etrusco si avverte tra la fine del V e il principio del IV secolo: come è logico partendo dalle zone centrali e dagli ambienti più evoluti, per raggiungere più lentamente la periferia (si pensi al persistente uso del k nel settentrione). Si riduce ulteriormente il numero dei segni: scompaiono appunto il k e il q, sostituiti indistintamente dal già esistente c, oltreché il segno × e l’s con più tratti (tranne che a Cere). Soprattutto mutano le forme e per così dire lo stile paleografico di alcune lettere: cioè generalmente e coerentemente si riducono i «codini» inferiori delle aste verticali di E (e), V (v), m (m), n (n), r (r), u (u), π (φ = ph), ç (χ = kh); si incrociano con le aste verticali le barrette trasversali di Z (z) e t (t); infine TH (ϑ = th) perde la crocetta interna per ridursi ad un cerchio con punto o ad un semplice cerchio.
Evoluzione dell'alfabeto etrusco dal periodo arcaico (VII - V secolo a.C.) al periodo finale (IV - I secolo a.C.). Ad ogni segno etrusco abbiamo affiancato la trascrizione moderna, quale è ormai entrata in uso con caratteri latini e caratteri greci, ma è importante sottolineare che tale trascrizione riproduce solo in maniera convenzionale e approssimativa il relativo valore fonetico.
Riconosciute quindi vocali e consonanti, si riconoscono i pronomi personali (es. mi = io, mini = me), i pronomi e gli aggettivi dimostrativi (es. ca o eca = questo). Qualcosa si può dire per gli avverbi (es. thui = qui, ich = come), le congiunzioni e le particelle di congiunzione anche di tipo enclitico (come -c = e, equivalente al latino -que di senatus populusque). Per quanto riguarda il verbo, anche se le cognizioni non sono molte e spesso controverse, si individuano tuttavia numerose radici e diverse forme verbali, sempre caratterizzate da suffissi che, con sfumature a volte imprecisabili, specificano funzioni diverse, specialmente del passato (es. svalce = visse, ha vissuto; svalthas = avendo vissuto, dalla radice sval- = vivere) e anche in senso passivo (zichuche = è stato scritto, rispetto a zichunce = scrisse, ha scritto). Una conoscenza ormai acquisita con notevole margine di sicurezza riguarda il sistema numerale che appare di tipo decimale, simile al latino, e con le cifre indicate, pure come in latino e greco, con segni tratti almeno in parte dall’alfabeto. Lo stesso si può dire per i nomi delle prime sei unità (thu = uno, zal = due, ci = tre, huth = quattro, mach = cinque, sa = sei), mentre per le restanti unità e per le decine, accanto a relative certezze, permangono lacune e incertezze.
L’andamento della scrittura e il verso delle lettere, dopo una prima fase di oscillazioni, si stabilizzano nella direzione da destra a sinistra, contraria a quella della scrittura greca e latina. Il sistema detto bustrofedico, cioè l’alternanza di righe in senso opposto, è eccezionale. Nelle iscrizioni più antiche le parole sono generalmente indivise: ciò che costituisce, come è ovvio, una grossa difficoltà per la lettura e conseguentemente per la comprensione di molti testi, soprattutto dei più lunghi; quando c’è una punteggiatura, il suo impiego è sporadico.
Sgominato il campo dalla questione della «decifrazione», resta da dire l’essenziale: il vero problema della lingua etrusca si presenta quando, una volta letti i testi, si passa a cercare di capire il loro significato. Il problema sta nel fatto che della lingua etrusca ignoriamo almeno in parte il vocabolario, e soprattutto la struttura e il modo di funzionare (è probabile che la lingua etrusca fosse molto simile alle lingue agglutinanti, cioè che funzionasse con la giustapposizione di suffissi all’interno di una stessa parola, tuttavia non siamo in grado di individuare e capire il valore dei singoli suffissi). Né purtroppo c’è alcuna possibilità di ricorrere a confronti con altri idiomi del mondo antico, come invece fu fatto senza esiti fin dagli inizi della ricerca etruscologica (((e come continuano a fare, ingenuamente e non senza una certa dose di presunzione, tutti i dilettanti che si affannano a ripercorrere strade già battute in passato e da tempo abbandonate dagli studiosi seri))). Il primo metodo utilizzato dagli studiosi per comprendere l’etrusco fu il cosiddetto «metodo etimologico», ovvero quella procedura comparativa che, ipotizzando un legame genealogico dell’etrusco con altra lingua nota, pretendeva di derivare i significati (ignoti) delle parole etrusche da quelli di parole della lingua nota, simili per la forma. Il metodo è corretto in sé, ma sbagliato nella sua applicazione all’etrusco: per l’ovvio motivo che l’etrusco è una lingua genealogicamente isolata rispetto a qualsiasi altra lingua, come già sapevano gli antichi e come esplicitamente dichiarava Dionigi di Alicarnasso quando scriveva che gli Etruschi parlavano un idioma «non simile a quello di alcun altro popolo». Quindi i supposti rapporti di parentela con questa o quella lingua (ebraico, basco, caucasico, dravidico, lingue ugro-finniche, lingue italiche, greco, armeno) risultarono con tutta evidenza del tutto illusori. L’isolamento dell’etrusco non è comunque assoluto, giacché non mancano somiglianze e correlazioni con altre lingue del mondo mediterraneo (comprese quelle indoeuropee): in particolare con il greco, alla cui influenza sono da ricondurre diversi «arricchimenti» del vocabolario etrusco, e con il latino e le lingue del gruppo umbro-sabellico, con le quali si notano certe comunanze che riguardano ancora il vocabolario e i nomi propri. In realtà dobbiamo pensare che si tratti di semplici prestiti linguistici, che si sono avuti visti gli stretti contatti anche culturali che vi erano fra gli Etruschi e gli altri popoli che abitavano la penisola italiana. Rimane dunque il fatto che l’etrusco non rientra, per la sua struttura e per il suo modo di essere, in nessuno dei gruppi linguistici a noi noti; non ha rapporti di parentela o di affinità con altre lingue; in definitiva, non ha alcuna possibilità di essere inquadrato entro uno schema a noi familiare che valga a chiarirne il sistema e il funzionamento.
Visti i risultati fallimentari dei tentativi di comparazione etimologica per i motivi che abbiamo ampiamente spiegato, gli studiosi tentarono di formulare un nuovo metodo, il cosiddetto «metodo comparativo». Tale metodo – all’origine nato in polemica con quanto sostenuto dai fautori del «metodo etimologico» – si propone come basato esclusivamente sull’identificazione, il confronto e la catalogazione delle parole e delle forme presenti nei testi. È abbastanza ovvio che una procedura del genere è comunque indispensabile e preliminare all’analisi di un testo in una lingua sconosciuta o alla ricostruzione dei caratteri della lingua. Ma va detto che, trattandosi di un tipo di analisi che opera esclusivamente ((con delle forme)) all’interno dei testi, essa non sarebbe in grado di per sé, di fornire informazioni né sul senso globale di un testo, né sul significato delle parole, né sul valore delle forme grammaticali. Per attingere questo tipo di dati, è necessario integrare tale tipo di analisi con informazioni di tipo diverso: richiamando, per esempio, i contesti delle iscrizioni, la tipologia dell’oggetto su cui l’iscrizione compare, la referenza dei nomi propri, e così via.
Questo tipo di integrazione è alla base del terzo dei metodi tradizionalmente riconosciuti, il cosiddetto «metodo bilinguistico» o «dei testi paralleli» di cui era sostenitore anche Massimo Pallottino. Esso parte dall’idea che la ben nota comunanza di cultura tra le diverse popolazioni dell’Italia antica abbia comportato, tra l’altro, l’impiego di impostazioni testuali analoghe, per cui la struttura e il senso di un testo in una lingua nota, poniamo l’umbro, ci darà indicazioni sul senso e la struttura di un testo etrusco. Di fatto, la nostra sia pur parziale conoscenza del contenuto dei rituali del Liber linteus e della Tavola di Capua riposa in buona misura sul parallelismo del testo con quello dell’altro grande rituale dell’Italia antica, le Tavole di Gubbio.
Purtroppo i documenti etruschi a cui si affidano tutte le nostre possibilità di conoscenza si presentano con caratteristiche piuttosto negative, non tanto sul piano della quantità quanto su quello della qualità. Andati infatti perduti tutti i testi di carattere letterario, da quando la lingua etrusca non fu più parlata né compresa, ci restano solo le iscrizioni. Esse sono certamente rilevanti quanto al numero (circa diecimila), al punto da costituire il gruppo di gran lunga più ingente di testimonianze scritte delle lingue dell’Italia antica prima della latinizzazione; ma estremamente scarse quanto alla lunghezza e al contenuto. Nella stragrande maggioranza, infatti, si tratta di brevi e monotone iscrizioni di carattere funerario, votivo e dedicatorio. Sicché, a parte l’abbondanza (e si potrebbe dire la prevalenza) di nomi propri, di persone o di divinità, esse si limitano ad alcune formule e a piccole frasi, ripetute con un linguaggio o stereotipo e con un repertorio lessicale circoscritto ad alcuni aspetti del mondo religioso e di quello dei morti e a pochi fatti riguardanti la vita privata e familiare. Molte di queste iscrizioni sono costituite sul modulo delle cosiddette «iscrizioni parlanti», basato sulla finzione stilistica che sia l’oggetto stesso sul quale si trova l’iscrizione a dichiararne l’appartenenza o la destinazione ad un certo personaggio. Queste si traducono in genere senza eccessive difficoltà, anche perché spesso le formule che vi si trovano sono analoghe a quelle in uso presso i Greci e i Romani. Alcuni esempi possono essere: mi lartθia «io (sott: sono) di Larth»; mini usile muluvanice «me donò Usil» (iscrizione su anforetta in bucchero da Cere); mi mamarces velθienas «io (appartengo) a Mamarce Veltiena» (iscrizione su tomba della Necropoli di Crocifisso del Tufo).
Questa situazione, mentre fa sì che la maggior parte dei testi in nostro possesso sia comprensibile, impedisce di andare più a fondo nella conoscenza della lingua. Com’è stato giustamente osservato, sarebbe come se, per comprendere una qualsiasi lingua moderna altrimenti sconosciuta, non avessimo a disposizione altro che le formulette degli ex-voto o le epigrafi delle lapidi mortuarie. Infatti, quando si ha a che fare con i pochi testi appena un po’ più lunghi e complessi, anche se quasi sempre si riesce in qualche modo ad afferrarne il senso, ci sfugge il significato preciso di molte parole del contenuto.
Nelle iscrizioni funerarie, ad esempio, queste difficoltà si incontrano quando, al di là delle indicazioni essenziali come nell'ultima iscrizione che abbiamo appena visto, ci sono parti che ricordano episodi specifici della vita e della «carriera» del defunto oppure riferimenti alla realizzazione del sepolcro, al suo arricchimento, a collocazione di supellettili, ecc. Una delle più significative iscrizioni di questo tipo, per la sua importanza storica della presenza di una famiglia dei Claudii a Cere tra la fine del IV e il principio del III secolo a.C., è stata scoperta sulla fronte del pilastro centrale di una tomba della necropoli ceretana (vedi).
Ancor più difficile e discussa rimane la comprensione dei testi etruschi più lunghi e complessi tra i quali i frammenti del libro della mummia di Zagabria e la Tavola di Cortona.
Il libro della mummia di Zagabria, conservato attualmente nel Museo archeologico di Zagabria, che è fino ad oggi il più lungo testo scritto in etrusco, fu acquistato nel 1848 da un collezionista croato, forse in Egitto o da un antiquario di New York, e donato al Museo. Si tratta di un libro di lino (e per questo detto anche Liber linteus) che aveva originariamente la forma di un panno ripiegato che veniva collocato vicino al defunto in una posizione riconoscibile in alcuni monumenti funerari etruschi. Successivamente venne riutilizzato e tagliato in bende per avvolgere la mummia di una donna egiziana di età tolemaica o romana portata in Egitto nel I secolo a.C. al seguito di una comunità etrusca, che si trasferì in un’Africa ormai romanizzata. Solo nel 1892 il Krall riconobbe la scrittura sulle fasce come etrusca. Il libro, purtroppo incompleto, scritto in inchiostro nero su dodici colonne di circa 35 righe (comprese entro una impaginatura di linee rosse) era diviso in paragrafi ed è oggi ricomponibile per circa 13 metri e mezzo di lunghezza e 39 centimetri di altezza, su cui sono scritte circa 1200 parole più o meno leggibili. Il contenuto, importantissimo, concerne prescrizioni rituali per cerimonie di culto strutturate in forma di calendario, precedute da formule di datazioni indicanti il giorno e il mese dell'anno; le cerimonie comprendono offerte in natura (cereali, vino, animali) e preghiere e si rivolgono a tutte le divinità del pantheon etrusco (aiser = dei), fra cui Tinia, Uni, Nethuns, a protezione di una comunità non meglio specificata («a favore della santità dell'arce, della città e del popolo»). I tentativi fatti fin qui per una interpretazione del testo si sono basati sul confronto con testi di natura analoga e sulla presenza di parole conosciute attraverso altre iscrizioni.Dal punto di vista della grafia dell'alfabeto con cui il testo è stato redatto, si può stabilire che esso provenisse da un ambiente riconducibile all'Etruria settentrionale interna; inoltre esso utilizza una lingua mista composta di elementi arcaici e recenti, ben comprensibili in un antico testo sacro accresciutosi nel tempo.
Di grande importanza è poi la recente scoperta della «Tabula cortonensis», una tavoletta bronzea con una lunga iscrizione ritrovata nel 1992 a Cortona e ancora sotto studio; essa infatti, pur incompleta, presenta ben 27 nuove parole mai incontrate nelle altre iscrizioni: un vero e proprio Eldorado per gli studiosi, i cui esiti però saranno noti solo in futuro.
Esisteva nella regione alpina, intorno al lago di Garda e verso il passo del Brennero (zona popolata dai Reti), una parlata detta retico. È conosciuta attraverso meno d’un centinaio di brevi iscrizioni, le più antiche delle quali possono rimontare al V secolo a. C., mentre le più recenti sono del I secolo. Come esempio, possiamo citare le serie di dediche su corni votivi di Magrè, o gli ex voto in bronzo di San Zeno, che tra l’altro presentano due alfabeti differenti. Questo ha fatto spesso postulare l’esistenza di due lingue; in realtà forse è più giusto pensare ad un unica lingua rappresentata da una scrittura con locali varianti grafiche e fonetiche. È comunque una lingua abbastanza vicina all’etrusco – come l’etrusco ad esempio manca della o che viene notata con il segno per u – da poter essere definita «etruscoide»: d’altronde gli antichi consideravano questi Reti come Etruschi respinti verso le Alpi dai Galli, quando questi ultimi avevano invaso la pianura del Po.
Esisteva inoltre sull’Adriatico, all’estremo nord del Piceno, una zona linguistica non indoeuropea, rappresentata soprattutto dalla stele di Novilara, con la sua iscrizione di dodici righe, del VI secolo a. C. Le stele di Novilara sono un gruppo di stele in pietra arenaria rinvenute presso la necropoli dell'età del ferro di Novilara, nella provincia di Pesaro e Urbino. Le stele presentano delle incisioni che raffigurano decorazioni geometriche e scene figurate di guerrieri e battaglie navali, nonché iscrizioni. In questo caso si tratta di una lingua che presenta differenze notevoli dall’etrusco: conosce infatti la vocale o e le occlusive sonore, sconosciute tanto all'etrusco che al retico.