Benché il collezionismo di antichità classiche non fosse sconosciuto nel XIV secolo, esso si sviluppò su larga scala soltanto nel XV: umanisti e artisti furono probabilmente i primi, certamente tra i primi.
Gli artisti non erano certo spinti a raccogliere sculture antiche dal desiderio di trasformare le loro botteghe in musei o da quello di suscitare la meraviglia di mecenati, amici o conoscenti: il loro scopo in realtà era più pratico. Indubbiamente essi erano esteticamente attratti dalla statuaria e dai rilievi classici, ma soprattutto li indusse ad assicurarsi tutti i pezzi di scultura che potessero acquistare, sia rotti che intatti, il desiderio di avere accanto al proprio album di disegni una scelta di modelli da poter copiare, adattare o imitare ogni volta che se ne presentasse la necessità.
Già durante il primo quarto del Quattrocento il celebre scultore Lorenzo Ghiberti (Firenze 1378-1455) era riuscito a raccogliere nel suo studio di Firenze un numero considerevole di sculture antiche. Tra queste c’era un grande vaso di marmo che si credeva proveniente dalla Grecia, che si può pensare si tratti di uno dei due grandi vasi che ancora oggi si conservano a Firenze: il «cratere Medici» agli Uffizi e il «cratere Corsini» a Palazzo Corsini. Di entrambi però conosciamo le vicende solo a partire dal ‘500, per cui non sappiamo con certezza quale dei due sia quello appartenuto al Ghiberti, anche se gli studiosi sono più propensi ad identificarlo con quello Medici. Fra le altre sculture del Ghiberti era un torso di satiro, con insistenza precisato che veniva dalla Grecia, e che sembra da identificarsi con il «torso Gaddi», attualmente conservato agli Uffizi, dove fu collocato all’epoca del Granduca Leopoldo, e databile al periodo neo-attico (I sec. a.C.). Il Ghiberti possedeva anche una gamba in bronzo di grandezza naturale.
> Cratere Medici; > Torso Gaddi
Affascinato dalle antichità al pari del Ghiberti fu Donatello, che, oltre ad esaminare attentamente le rovine romane, studiò a fondo la scultura antica. Non esistono molte prove che egli abbia raccolto una sua collezione, anche se pare che nel suo studio si potessero vedere pezzi di scultura antica. D’altra parte, se dobbiamo accettare la tarda testimonianza del Vasari, proprio Donatello suscitò in Cosimo de’ Medici il Vecchio il desiderio di raccogliere antichità e restaurò alcuni pezzi della collezione medicea.
Raccoglitori ancora più entusiasti di antichità furono gli umanisti, com’è ben logico, dati i loro interessi. Tra di essi il più grande collezionista fu certamente Niccolò Niccoli (1346-1437), la cui ansia di procurarsi oggetti antichi era pari soltanto all’entusiasmo con cui ricercava manoscritti per la sua biblioteca. Oltre a servirsi dei generosi mezzi offertigli da Cosimo de’ Medici, il Niccoli si rivolse insistentemente a amici e conoscenti ai quali richiedeva di procurargli pezzi antichi scelti. Tra questi c’era Ambrogio Traversari; altri erano Leonardo Bruni che, come sappiamo, gli inviò un diaspro inciso trovato a Ostia e raffigurante Narciso, e Andreolo Giustiniani. Il Niccoli fu indubbiamente un collezionista fortunato: come prova la sua scoperta di un famoso intaglio raffigurante il ratto del Palladio ad opera di Diomede di Argo, allora attribuito a Policleto ma oggi datato al 30 a.C., che vide per la prima volta al collo di un ragazzo incontrato casualmente per strada; l’acquistò dal padre per cinque fiorini e lo cedette più tardi a Ludovico Trevisan, patriarca di Aquileia, per duecento ducati. Successivamente la gemma tornò a Firenze nella collezione di Lorenzo il Magnifico.
Dopo il Niccoli, l’umanista fiorentino che rivelò maggior passione per il collezionismo fu Poggio Bracciolini (Terranuova Bracciolini 1380-Firenze 1459)., che si mostrò particolarmente attratto dalla statuaria antica. La sua corrispondenza indica che egli tentò ogni via per procurarsi marmi classici. Sappiamo, ad esempio, che si dedicò particolarmente a questa attività durante gli anni trascorsi presso la curia romana, 1403-1418, 1423-1453; e che uno degli scopi che lo animava era quello di ornare di statue il giardino della sua casa di campagna in Valdarno, come solevano fare gli antichi romani.
Poggio non esitò a chiedere statue ad altri raccoglitori, anche se costoro gli erano del tutto estranei. Così da Roma scriveva, all’incirca nel 1431, a un tale che risiedeva a Rodi, chiamato Suffreto, collezionista d’antichità, domandandogli il dono di qualche pezzo: e la richiesta fu esaudita. Nell’apprendere, verso il 1430, che il francescano Francesco da Pistoia si accingeva a visitare la Grecia, lo incaricò di procurargli tutto quanto fosse possibile. Sfortunatamente però Francesco da Pistoia non si rivelò uomo di cui fidarsi, come aveva sperato Poggio: per lui acquistò, è vero, alcune teste marmoree di divinità, ma non gli fece pervenire in effetti né queste né un’intera statua che pure Poggio aveva pagato; né gli arrivarono alcune gemme che il nobile genovese Andreolo Giustiniani aveva dato a Francesco perché le consegnasse a Poggio. Egli poté nondimeno riempire il suo giardino di oggetti antichi, tra cui una copia romana di originale prassitelico di Dioniso che sembra da identificare con il Dionisus Tauros conservato agli Uffizi. Poggio non riuscì mai ad acquistare pezzi di grande valore a causa delle sue condizioni economiche, tuttavia la sua raccolta fu molto importante perché spostò l’attenzione del collezionismo dalla scultura romana a quella greca, destinata ad avere come grande studioso ed appassionato Johann Joachim Winckelmann.
Tra coloro che aiutarono Poggio nella ricerca di antichità merita di essere nominato Andreolo Giustiniani. Questo nobile genovese stabilito a Chio era infatti appassionato di statue, monete, gemme incise, ed era anche molto generoso. Della sua generosità, oltre a Poggio, che si servì di lui come intermediario nell’acquisto di statue, beneficiarono anche Niccolò Niccoli e Cosimo de’ Medici il Vecchio. Data la sua fama non è strano che un suo concittadino, l’umanista Giacomo Bracelli, gli scrivesse da Genova il 2 luglio 1440 chiedendogli, se possibile, una statua di Fidia o di Prassitele. Tra gli amici di Andreolo Giustiniani era Ciriaco de’ Pizzicolli di Ancona: che, grazie ai suoi lunghi viaggi in Grecia e in Asia Minore, era pure riuscito a mettere insieme un cospicuo numero di minuti oggetti antichi. Oltre che in monete, sembra che Ciriaco fosse specializzato in gemme intagliate e piccole sculture.
Una città in cui già nella prima metà del XV secolo si potevano incontrare parecchi collezionisti era Venezia. Durante uno dei suoi viaggi a Creta nel 1415-18, Cristoforo Buondelmonti fu particolarmente colpito dalle antiche statue greche nel giardino della casa di campagna di Nicolò Corner, un nobile veneziano stabilitosi nell’isola. Tra gli altri veneti che collezionarono antichità dobbiamo ricordare Bernardo Bembo, Francesco Contarini che raccolsero per lo più iscrizioni e monete, e Francesco Squarcioni che si dedicò allo studio di antichità e che si dice abbia fatto un viaggio in Grecia per acquistare sculture: il suo interesse per l’antico sembra lo abbia poi trasmesso al suo allievo, il pittore Andrea Mantegna.
Ma il più grande raccoglitore veneto del tempo fu Pietro Barbo, nipote di papa Eugenio IV, che governò la Chiesa col nome di Paolo II dal 1464 al 1471. Pietro Barbo aveva cominciato in gioventù a raccogliere oggetti antichi e successivamente aveva fatto di tutto per accrescere e migliorare le sue collezioni. Il risultato fu che nel 1457 possedeva già quarantasette bronzi, duecentoventisette cammei e un numero considerevole di antiche gemme incise e monete. Divenuto poi papa, Paolo II continuò ad arricchire le sue collezioni. Come cardinale si era valso ampiamente dell’aiuto dell’arcivescovo Maffeo Valleresco, suo concittadino, che nel 1450-60 era occupato a fornirgli piccoli oggetti antichi, monete e gemme intagliate. Quando si trattava di accrescere le sue collezioni, talvolta il Barbo poteva anche non fare molti scrupoli. Tuttavia rimase sempre fermo nel non volere accettare doni, insistendo anzi per pagare prezzi elevati.
Dopo la sua morte però, nel 1471, le raccolte di Paolo II vennero presto disperse dal successore Sisto IV. Ne acquistò una parte cospicua Lorenzo de’ Medici, che continuava con grande passione le tradizioni del padre e del nonno. Sia stato o no Donatello il primo a indurre Cosimo de’ Medici il Vecchio a occuparsi di antichità, certo Cosimo ne era fortemente attratto. E così ben presto il cortile del suo palazzo fu affollato da antiche statue inviategli da papa Paolo II da Roma. Tra queste, se dobbiamo credere al Vasari, era quella in marmo bianco di Marsia, più tardi restaurata da Donatello, che è stata identificata con il Marsia appeso al tronco prima di essere scorticato per aver attentato alla maestà di Apollo, conservato agli Uffizi. Cosimo raccolse diligentemente anche cammei, intagli e gemme, tra cui un cammeo con la testa di Nerone e la famosa corniola con Apollo e Marsia alla quale Ghiberti creò una cornice in oro.
> Marsia appeso; > Corniola con Apollo e Marsia
Il gusto di Cosimo fu ereditato dai figli; specialmente dal primogenito Piero, che si interessò in modo particolare di piccole antichità, come cammei, intagli e monete, piuttosto che di statue. Vivamente appassionato a queste, sembra invece sia stato il fratello di Cosimo, Giovanni. Ma il momento di gloria le collezioni dei Medici lo raggiunsero con il figlio di Piero, Lorenzo il Magnifico (1449-1492) che divise le sue collezioni tra il palazzo di famiglia (odierno Palazzo Medici-Riccardi) e il giardino di San Marco. Come erede delle raccolte di famiglia, Lorenzo cercò di arricchirle con tutti i mezzi. I suoi agenti da Roma gli mandavano quanto potevano dei reperti di Ostia e Grottaferrata, nonostante le difficoltà opposte all’esportazione dal cardinal Giuliano della Rovere, futuro papa Giulio II. Anche i governatori dei territori fiorentini, ansiosi di compiacerlo, gli fornivano antichità; anzi a quelli di Sarzana chiese di acquistare per lui pezzi rinvenuti a Luni, e in questo compito essi furono efficacemente assistiti dall’umanista del posto Antonio Ivani, che aiutò anche personalmente Lorenzo ad accrescere le sue collezioni.
Diversamente da papa Paolo II, Lorenzo de’ Medici era più propenso a ricevere in dono oggetti antichi. Così nel 1471 ritornò da Roma, dove si era recato per l’incoronazione di papa Sisto IV, portando con sé teste in marmo di Augusto e Agrippa (che attraverso studi recenti sono state rintracciate agli Uffizi: la prima è del 37-42 a.C., l’altra di età claudia) regalategli dal papa e anche, avendola acquistata, una preziosa scelta di tesori di papa Paolo II, formata in gran parte di cammei, intagli, vasi e tazze in pietre dure. Tra quest’ultime vi era quella che successivamente sarà chiamata «Tazza Farnese», perché finirà nella collezione della famiglia omonima, ora conservata al Museo di Napoli. Si tratta di una tazza, opera di Alessandro d’Egitto, in agata sardonica di 20 cm di diametro a due facce: su una è raffigurata una gorgoneion, sull’altra l’allegoria della fertilità del Nilo. L’oggetto divenne famoso nel ‘400 perché ad essa, in particolare a quest’ultima raffigurazione, si ispirò il Botticelli per realizzare la Nascita di Venere (1485).
> Ritratto di Agrippa; > Tazza Farnese
Lorenzo, come il nonno Cosimo che possedeva due anfore apule, era interessato anche a ceramiche antiche. Lo vediamo infatti nel 1490 accogliere con piacere l’omaggio di alcuni «vasi fictili», sui quali il donatore, per essere ricordato, aveva inciso il suo stemma. Sappiamo anche che certi altri vasi dissotterrati ad Arezzo, senza dubbio ceramiche aretine, furono donati a Lorenzo in visita alla città da colui che li aveva trovati, e cioè da Giorgio Vasari, il nonno del famoso pittore. Dobbiamo ricordare che, anche se oggi può sembrare alquanto di cattivo gusto, Lorenzo aveva fatto incidere su questi vasi e tazze, LAVR. MED. perché non sorgessero dubbi sulla loro appartenenza.
Nel 1471 Lorenzo donò al conte Diomede Carafa di Napoli una colossale testa di cavallo in bronzo, di cui però si creò subito un sostituto visto che nell’atto di confisca dei beni della famiglia Medici del 1495, ne è elencata una simile, che oggi si trova al Museo Archeologico di Firenze. Questo dono mette Lorenzo in buoni rapporti con l’ambiente napoletano: infatti, Baccio Valori, che più tardi compose una biografia di Lorenzo ritornando a Firenze, dopo una visita a Napoli, gli portò varie antichità, tra cui i busti di Scipione l’Africano e di Faustina. Giuliano da Sangallo nel 1488 fece avere a Lorenzo un ritratto di Adriano, una statua di Venere e un cupido dormiente. Ma indubbiamente gli procurò la massima gioia il dono da parte di Girolamo da Pistoia, di un busto di Platone che dicevano trovato proprio tra le rovine dell’Accademia; oggi sappiamo invece che si tratta di una copia di età romana del II sec. d.C. (Uffizi).
Mentre la Venere (probabilmente andata distrutta nell'incendio degli Uffizi del 1762) e il Cupido (identificato in un esemplare degli Uffizi) furono collocati nel giardino di San Marco, il busto di Adriano e quello di Platone furono sistemati nel palazzo di famiglia, dove Lorenzo aveva riunito la serie degli imperatori e dei personaggi famosi dell’antichità. Con questa serie, Lorenzo inaugurò un’usanza che diventerà poi il principale scopo di ogni successivo collezionista di antichità.
Oltre a questa serie, nel palazzo di famiglia Lorenzo possedeva anche alcuni bassorilievi, di cui il Vasari ne ricorda quattro: «un’Adone bellissimo», forse da identificarsi con Antinoo, ancora a Palazzo Medici; «due nudi che parlano», probabilmente frammento di sarcofago, ancora a Palazzo Medici; due putti con il fulmine di Giove conservati agli Uffizi; un vecchio nudo, probabilmente finito in Francia insieme ad altri pezzi della collezione medicea.
Questi rilievi avevano tutti un valore simbolico, così come lo avevano le varie figure di Marsia, conservate nella collezione medicea: come Marsia, avendo attentato alla maestà di Apollo, era stato ucciso, così chiunque avesse attentato alla maestà dei Medici avrebbe avuto la stessa fine. Il Vasari ricorda due statue del satiro Marsia, poste in Palazzo Medici ai lati della porta del giardino che si apre su Via Ginori: una, in marmo bianco, che raffigurava il satiro appeso ad un tronco di albero, l’altra in marmo rossastro con la rappresentazione di Marsia seduto e con le braccia legate. La prima (copia romana del II secolo d.C.), già appartenuta a Cosimo, è stata identificata in un esemplare degli Uffizi, la seconda invece non è ancora stata rintracciata.
Quando Lorenzo morì nel 1492, la sua raccolta era la più ricca mai messa insieme nell'Italia rinascimentale. La maggior parte delle statue in marmo era stata collocata nei giardini, ai quali – e per questo egli è da considerarsi un innovatore – permise libero accesso ai giovani artisti promettenti, così che potessero studiare da vicino i capolavori ivi raccolti. La fine della signoria dei Medici nel 1494 segnò anche la fine delle collezioni medicee. Confiscati dai nuovi governatori, i tesori di Lorenzo venero presto messi in vendita e iniziò quindi la loro dispersione: la maggior parte di essi furono acquistate dal duca di Milano. Alcune statue fortunatamente però furono sistemate a Palazzo Vecchio, altri tesori medicei rimasero nelle mani della famiglia, mentre altri ancora vennero recuperati quando Firenze tornò sotto i Medici nel 1512. Così il palazzo del cardinale Giovanni de’ Medici, più tardi papa Leone X, a Roma – oggi palazzo Madama – poteva esibire un numero considerevole di statue. Ma per tornare a Lorenzo, anche se veramente concedeva a giovani artisti di accostarsi alle statue dei suoi giardini, si tratterebbe soltanto in parte di una innovazione, poiché già papa Sisto IV aveva avuto l’idea di esporre al pubblico capolavori dell’arte antica. Così proprio il pontefice che disperse le collezioni del suo predecessore fu colui che istituì ciò che si potrebbe definire il primo museo all’aperto.
È nella seconda metà del secolo XVI, con i Medici ormai indiscussi padroni della Toscana, che abbiamo le prime notizie di acquisizioni di sculture significative. Cosimo I, che nel 1537 assunse il controllo di Firenze, si trasformò rapidamente in un collezionista appassionato di pezzi antichi: sul principio, di pezzi etruschi trovati nella regione, che appagavano lo spirito nazionalistico del suo nuovo Stato, tra cui vi erano la Minerva recuperata ad Arezzo nel 1541 ed acquistata da Cosimo nel 1552, la Chimera anch'essa trovata ad Arezzo nel 1553 e acquistata subito dopo e l’Arringatore scoperta vicino a Perugia nel 1556 e trafugata nottetempo da Domenico Sistini per Cosimo. Successivamente acquisì anche sculture che riuscì a procurarsi da Roma. Già nel 1550 aveva ottenuto in dono da papa Giulio III una figura di Mercurio, ma è qualche anno più tardi, dopo la conquista di Siena, nel corso di due trionfali viaggi a Roma, che Cosimo riuscì ad acquistare molte altre sculture, alcune delle quali destinate a diventare tra le antichità più famose d’Italia.
> Chimera di Arezzo; > Arringatore; > Minerva di Arezzo
Durante il primo viaggio a Roma, avvenuto nel 1560, riesce ad ottenere tre importanti opere: l’Alessandro morente, il Cinghiale e l’Ercole e Anteo (soggetto di particolare significato per Firenze e per i Medici) che proveniva anch'esso dal Belvedere e che egli trasferì in Palazzo Pitti, recentemente acquistato dalla moglie. E proprio con questo palazzo, Cosimo apporta una novità importante nell'allestimento dei pezzi antichi: questi non sono più sistemati alla rinfusa nelle stanze dei palazzi o nei giardini, ma in una sala apposita dove egli fa realizzare dieci nicchie alte circa 2 metri, rivestite in marmo nero per inserirvi «anticaglie di quelle venute da Roma» (Vasari). Nel corso del secondo viaggio a Roma, Cosimo acquista altre due sculture: un Ercole in riposo simile a quello Farnese e il gruppo con Achille e Patroclo.
> Alessandro morente; > Cinghiale; > Ercole e Anteo
Benché tuttavia, al tempo della sua morte come granduca di Toscana nel 1574, Cosimo avesse così reso Firenze una delle pochissime città, eccettuata Roma, che potessero vantare il possesso di pezzi antichi fondamentali, e benché la sua politica venisse poi entusiasticamente seguita dal figlio maggiore, granduca Francesco I, nondimeno per la maggior parte le sculture ancor più famose acquistate dai Medici restavano a Roma (ove erano state rinvenute), esposte nella loro splendida villa sul Pincio dal figlio minore, Ferdinando.
Comunque pochi anni dopo esser salito al trono di granduca di Toscana nel 1574, Francesco riprese il progetto del padre di convertire tre gallerie soprastanti gli uffici della città (Uffizi), per accogliere sculture che, come faceva a Roma Ferdinando, suo fratello minore, andava attivamente raccogliendo. Iniziata nel 1560 dall'architetto Giorgio Vasari, la fabbrica degli Uffizi, nacque, infatti, inizialmente come sede degli uffici cittadini. Alla morte di Vasari e di Cosimo I nel 1574, avvenne il cambiamento di destinazione: Francesco I e l’architetto Buontalenti lavorarono inizialmente in gran segreto per trasformare in gallerie gli ultimi corridoi della costruzione vasariana. A tali gallerie aggiunse nel 1584 un ambiente ottagono, la Tribuna, destinato a rivestire, un centinaio d’anni dopo, un ruolo fondamentale per esaltare la fama della scultura antica.
Nella sua essenza la Tribuna era una versione alquanto più grandiosa della complessa e squisita stanzetta (denominata più tardi lo Studiolo) che Francesco si era costruito per sé in palazzo Vecchio prima di divenir granduca; ed egli trasferì ora i suoi bronzetti ed altri tesori da quella stanza a questa sistemazione nuova ed assai più opulenta. La tribuna venne pensata come immagine dell’ordine cosmico, con allusioni ai quattro elementi: l’aria rappresentata dalla lanterna con banderuola segnavento; l’acqua, dalla cupola incrostata di conchiglie di madreperla; il fuoco dalle pareti di velluto rosso su cui erano appesi gli splendidi dipinti che Francesco aveva ereditato, in ordine di dimensione: i grandi al di sopra ed i piccoli al di sotto di un ripiano in ebano dal quale si traevano cassetti colmi di gioielli ed oggetti preziosi.; la terra, dal pavimento di marmi diversi, al centro del quale si trovava un banco di noce sul quale era posato uno scrigno ottagonale in ebano per gioielli, le cui proporzioni riecheggiavano quelle della stanza stessa. Correva tutt'intorno alla base del muro una zoccolatura in legno dipinta da Jacopo Ligozzi, con un fregio di uccelli, pesci, acque e piante.
I pezzi più famosi raccolti dai Medici restavano tuttavia nella villa di famiglia a Roma, forse a causa della scarsa simpatia del cardinal Ferdinando per il suo fratello maggiore, forse a causa della riluttanza del pontefice a concedere licenze di esportazione, ma più probabilmente perché i Medici comprendevano quale prestigio sarebbe loro venuto dal tenere una collezione tanto magnifica nella città cosmopolita, il cui significato europeo sovrastava di gran lunga quello della loro capitale. Persino quando nel 1587 Ferdinando, che tanta energia e tanta spesa aveva dedicato alla raccolta di antichità, rinunciò alla carriera ecclesiastica per succedere al fratello nel granducato, si lasciò dietro queste sculture a Roma, quantunque facesse inviare a Firenze calchi in gesso del Gruppo di Niobe.
I Medici dispiegarono le loro antichità, quasi egualmente splendide, anche in cornici assai meno cittadine come quelle della villa di Pratolino e della villa di Poggio Imperiale, che come scrivono le fonti, fecero spesso da «serbatoi» per arricchire le gallerie degli Uffizi.
È giunto ora il momento di parlare di una delle collezioni veneziane più ricche e famose del secolo, in gran parte conservata, grazie al munifico dono con il quale i proprietari l’assicurarono alla loro città.
Il ramo dei Grimani aveva remote origini, ma si era di recente arricchito grazie alle attività di Antonio, personaggio dal passato tumultuoso: nel 1499 infatti, al comando dell’armata navale veneziana, aveva perduto la battaglia dello Zonchio contro i Turchi, incorrendo così nella condanna a morte, che gli venne però commutata con l’esilio a vita ad Ossero nell’isola di Cherso.
Trascorsi due anni, Antonio riuscì ad abbandonare Ossero e si rifugiò a Roma, dove, dopo la nomina a cardinale, risiedeva il figlio primogenito Domenico. Questi aveva acquistato una «vigna» sul versante nord del Quirinale per costruirvi una residenza. Durante i lavori di costruzione in questa vigna che sorgeva sul luogo di antiche terme romane, vennero ritrovate alcune sculture che formarono così il primo nucleo della collezione di Domenico.
Successivamente Domenico continuò ad accresce la sua raccolta con monete, medaglie, cammei e anche con grandi statue, tra cui quelle di Marco Agrippa e di Augusto che si diceva provenissero dal Pantheon, che inizialmente sistemò nella sua nuova dimora romana e che, trasportate più tardi a Venezia, rimasero a lungo nel cortile del palazzo di Santa Maria Formosa.
Il mecenatismo di Domenico, il suo amore per l’arte e la consapevolezza dell’importanza della collezione da lui raccolta, gli fecero maturare nel tempo la decisione di lasciare una cospicua parte di questa alla Repubblica di Venezia. Decisione che, oltre che manifestare gratitudine per la riabilitazione del padre, esprimeva l’auspicio che il dono si ponesse come monumento insigne per sé e la propria famiglia.
Domenico aveva steso testamento due volte: nel primo testamento aveva indicato come erede universale il fratello Vincenzo, nel secondo invece lasciò alla Repubblica le sculture antiche e al nipote cardinale Marino, figlio del fratello Girolamo, medaglie, monete d’oro e d’argento e cammei.
Vincenzo Grimani ovviamente impugnò il secondo testamento, sostenendo la validità del primo, l’unico steso entro i confini veneti. La Repubblica però fece immediatamente valere i suoi diritti di erede, ritirando tutte le sculture, ma restituendole poi in parte alcuni anni più tardi; alla fine restarono alla famiglia solo sedici sculture, tra statue e teste, oltre ad un numero imprecisato di quadri, bronzetti e cammei.
Nel 1525 le sculture ereditate dalla Repubblica vennero disposte «a memoria» di Domenico in una sala di Palazzo Ducale, che venne chiamata Sala delle Teste (dove rimasero fino al 1586) in quanto esse comprendevano ben undici teste, quasi tutti ritratti di imperatori romani, e solo cinque statue tra cui tre Galati, un torso di Nereide con delfino e un Apollo citaredo; tutti comunque provenienti da Roma e forse proprio, almeno in parte, da quelle terme che si trovavano sotto la «vigna» dei Grimani.
Il nipote di Domenico, Giovanni, nonostante fosse stato ignorato dal testamento dello zio, si adoperò per tutta la vita per mantenere ed accrescere il patrimonio artistico, giungendo a raccogliere nel palazzo di Santa Maria Formosa una enorme collezione di antichità.
Nel 1587, Giovanni, per continuare l’opera dello zio, offrì in dono alla Repubblica la maggior parte delle sue sculture, il cui numero si aggirava intorno ai duecento pezzi. Chiese però che esse venissero collocate in un luogo «proportionato a tale effetto» e dove i visitatori che giungevano a Venezia le potessero osservare liberamente, anche perché aveva visto che il dono dello zio Domenico era stato tolto dalla Sala delle Teste e sistemato, trascurato da tutti, in una sala adiacente.
La Repubblica accettò sia il dono di Giovanni che le sue condizioni. Il «luogo proporzionato» venne stabilito di comune accordo e apparve indiscutibilmente adatto: l'antisala della Biblioteca Marciana, un grande ambiente con tre finestre lungo la Piazzetta.
Ad allestire la sala venne chiamato Vincenzo Scamozzi, ma fu lo stesso Giovanni a seguire i lavori, a suggerire l’alternanza delle nicchie coronate da frontoni, la larghezza delle mensole e la forma dei piedistalli per le statue, come già aveva fatto nel palazzo di Santa Maria Formosa. Fino a pochi giorni prima della morte vennero infatti registrate le sue visite al cantiere: Giovanni morì il 3 ottobre 1593 alla veneranda età di novantadue anni senza poter vedere completata la sua opera.
Sarà Federico Contarini, a continuare nel 1596 lo Statuario secondo il desiderio di Giovanni, collocando finalmente nella sala i duecento marmi provenienti dalle due donazioni Grimani, ai quali egli volle aggiungerne diciotto della sua stessa collezione.
I pronipoti di Giovanni e in particolare Antonio, vescovo di Torcello, videro con disappunto il palazzo di Santa Maria Formosa spogliarsi dei suoi tesori d’arte antica e si appellarono a più riprese al collegio dei Procuratori, ottenendo infine che almeno restasse, oltre alle due statue di Marco Agrippa e di Augusto nel cortile, quanto era infisso nei muri di casa. Tuttavia altre sculture dovettero sfuggire all'occhio attento di Federico Contarini, tanto è vero che il palazzo di Santa Maria Formosa continuò ad essere ammirato nel tempo per la sua raccolta di antichità.
I numerosi studi recenti che hanno sottoposto ad accurata analisi i marmi Grimani e tutto lo Statuario Pubblico, divenuto in questo secolo Museo Archeologico Nazionale, hanno permesso di stabilire con certezza le provenienze di molte delle sculture.
Roma e i suoi dintorni continuarono indubbiamente ad essere una delle «fonti» da cui provenivano marmi antichi a Giovanni Grimani, grazie alle proprietà della famiglia nell’Urbe e alle sue stesse conoscenze. Oltre ai già citati pezzi del dono di Domenico, quasi tutti di provenienza «romana», da Roma venivano le ricordate statue di Agrippa e di Augusto, rimaste nel cortile del palazzo di Santa Maria Formosa fino allo scorso secolo.
Da Aquileia poi, sede del Patriarcato retto da Giovanni, giunsero al palazzo di Santa Maria Formosa numerose iscrizioni e sculture di tarda età ellenistica, come l’ara Eupor, la quale però attraverso vicende tornò poi al Museo di Aquileia.
Dall’Attica, dal Peloponneso e dalle isole greche venivano ovviamente le sculture più prestigiose: tra le statue più belle che Giovanni donò allo Statuario vi è fuor di dubbio il gruppo delle peplophoroi, le statuette femminili di età classica per le quali si è recentemente proposta, come per altri pezzi dello Statuario, la provenienza da Creta.
Alcune sculture, come accadeva spesso, venivano infine da altre collezioni poste in vendita all’epoca di Giovanni.
Morto Giovanni e passati i suoi marmi più preziosi nello Statuario Pubblico, nel palazzo di Santa Maria Formosa tuttavia rimase qualcosa del passato splendore perché, come si è detto, le sale non restarono del tutto vuote di sculture, anzi tornarono nel tempo a riempirsi di opere antiche, seppure di livello qualitativamente inferiore alle precedenti, grazie agli acquisti di Antonio, vescovo di Torcello e poi patriarca di Aquileia e di un discendente, Giovanni Carlo, vissuto nella seconda metà del Settecento. La dispersione di questa seconda collezione Grimani non iniziò che nel XIX secolo, quando molte vendite successive e qualche donazione di Michele Grimani, figlio di Giovanni Carlo, decretarono la fine della parte privata della raccolta.
Sembra che Sisto IV fosse pochissimo interessato ai pezzi antichi in se stessi, ma comprendesse talvolta l’immensa importanza storica che essi rivestivano per la città sulla quale regnava. Fu presumibilmente questa consapevolezza ad indurlo, qualche mese dopo la sua elezione, a donare al Palazzo dei Conservatori (vale a dire alle autorità civiche di Roma) sul Campidoglio un certo numero di bronzi antichi, che in precedenza potevano vedersi, per la maggior parte issati su colonne, nel palazzo pontificio del Laterano o in vicinanza di esso. Il suo atto di donazione «al popolo romano» chiarisce che egli concepiva tali sculture come facenti parte dell’inalienabile eredità di quel popolo stesso. I bronzi erano stati noti a precedenti visitatori di Roma, ma fu soltanto dopo il loro spostamento in Campidoglio, ove li potevano a proprio agio sia gli artisti che i normali cittadini, che cominciarono a conseguire ampia fama: fama destinata ad essere ulteriormente esaltata dalla recente invenzione dell’incisione e (quasi simultaneamente) dalla ripresa della moda della statuetta in bronzo, quanto mai adatta alla riproduzione dei bronzi inclusi nella donazione di Sisto IV. Vi erano tra essi opere destinate ad un durevole prestigio nei secoli: la Lupa, il Camillo e lo Spinario. Verso la fine del XV secolo, queste e poche altre, vennero a costituire il gruppo di sculture antiche di gran lunga più imponente che si potesse vedere in tutta Roma. Nonostante Sisto IV le avesse probabilmente considerate d’interesse soprattutto emblematico e storico, il rango che acquisirono deve avere giocato un suo ruolo per stimolare non soltanto i collezionisti privati della città, che crebbero rapidamente di numero alla svolta del secolo, ma anche la creazione, da parte di suo nipote Giulio II (1503-13), di un museo rivale nel cortile del Belvedere in Vaticano, che ospitasse sculture di bellezza suprema.
Lo stimolo ad impegnarsi in una raccolta di statue antiche, sembra che sia stato offerto a Giulio II, oltre che dalla concorrenza del Campidoglio, anche dal ritrovamento – probabilmente su una delle sue proprietà – del famoso Apollo, che acquistò rapidamente una grandissima fama. A differenza della maggior parte dei suoi successori, era suo intendimento che i capolavori che acquistava dovessero restare parte del patrimonio della Chiesa, anziché arricchire le raccolte di famiglia. Così, nel 1506, il papa riuscì a battere un’aspra concorrenza per poter acquistare il Laocoonte; dal 1509 ottenne, o da nuovi scavi o da collezioni esistenti, il Commodo a mo’ di Ercole, l’Ercole e Anteo, la Cleopatra (successivamente detta Arianna dormiente), la Venere felice ed il Tevere.
> Laocoonte; > Venere felice
Morto Giulio II, il suo successore, papa Leone X (1513-21) trasferì nel Cortile del Belvedere la figura giacente del Nilo, probabilmente scavata un anno circa dopo la sua elezione e destinata ad accompagnarsi alla figura del Tevere. Peraltro Leone X, in generale, badò assai di più ad incrementare le sue raccolte di famiglia (che certamente aveva cominciato a costituire mentre era ancora cardinale) che ad arricchire il Vaticano, e le poche modifiche da lui introdotte nel cortile ebbero scarso rilievo. Clemente VII (1523-34), suo cugino e (dopo il breve pontificato di Adriano VI) suo successore, era parimenti determinato ad incrementare i possedimenti medicei; nondimeno egli aggiunse al Belvedere tanto il Torso quanto un terzo dio fluviale giacente conosciuto col nome sia di Tigri che di Arno.
Il Cortile delle statue era già celebre, ma la simmetria del progetto bramantesco esigeva l’acquisizione di ulteriori figure di rango superiore; quindi, quando, poco prima del 1536, il governatore di Roma donò a papa Farnese, Paolo III (1534-49) una Venere stante, questa fu collocata in una nicchia della parete sud. Sette anni più tardi il papa acquistava per il Belvedere l’ultima tra le figure che vi si dovevano installare, e che ebbe immediata e durevole popolarità: l’Antinoo. Ogni nicchia era ormai degnamente occupata, ed il papa si sentì in diritto, assolti in tal modo tutti i suoi obblighi verso il Vaticano – per la città di Roma aveva fatto trasferire dal Laterano la statua equestre in bronzo di Marco Aurelio, cui Michelangelo diede nobile assetto sul Campidoglio – di dedicarsi all’amore per le antichità che egli stesso e la sua famiglia nutrivano. Nei pochi anni che gli restarono dopo l’acquisto dell’Antinoo per il Cortile delle statue, Paolo III ed i suoi nipoti costituirono la prima raccolta privata di scultura classica a Roma che attraesse l’attenzione quanto lo stesso Belvedere: esattamente come l’architettura, e più tardi la decorazione del loro palazzo rivaleggiava, se non superava, quella delle residenze pontificie ufficiali. Così facendo essi inaugurarono un costume che sopravvisse fino alla metà del secolo XVIII.
Fu nell’agosto del 1545 che i Farnese compirono questo nuovo passo. In quel mese, operai dipendenti dai sovrintendenti ai lavori della fabbrica di San Pietro scoprirono, scavando sulla proprietà Farnese nelle Terme di Caracalla, «un tauro, tre ancille, un pastor quali tutti erano intagliati in un sol pezzo di marmo». Questo gruppo (che divenne noto come il Toro) doveva essere identificato come la statua di Dirce e dei suoi figliastri, ricordata da Plinio; il pontefice ordinò che venisse portata nel palazzo di famiglia. Non molto tempo dopo un gigantesco Ercole decapitato che si appoggia alla clava, firmato in lingua greca, venne rinvenuto nella medesima zona, e pur esso portato in palazzo Farnese, e così pure accadde a numerose altre statue antiche trovate in questo luogo e altrove, alcune delle quali, come la Flora e la Venere callipigia (o dai bei fianchi), destinate a suscitare l’universale ammirazione. All'epoca della morte di Paolo III, nel 1549, la collezione di pezzi antichi della sua famiglia poteva, così, pretendere il medesimo livello di quelle appartenenti alla Chiesa ed alla città.
Benché tuttavia le sculture Farnese di gran lunga distanziassero quelle di ogni altro competitore privato in termini di qualità, numerosi erano i singoli in possesso di un gran numero di statue, alcune delle quali pur esse di larga fama. Fin dai primissimi anni del secolo XVI, diversi membri della famiglia della Valle avevano goduto della reputazione di essere i collezionisti privati più notevoli di Roma. I loro due Satiri privi di braccia, recanti sul capo cesti di frutta, erano tra le antichità più frequentemente disegnate, e vennero esposti al pubblico durante la processione che celebrò l’incoronazione di papa Leone X nel 1513. Anche la famiglia Cesi, che in un periodo di centocinquant’anni diede alla Chiesa cinque cardinali, ma nessun papa, possedeva molte statue grandemente ammirate che costituirono il primo antiquarium della storia. La casa di campagna ed i giardini sul Quirinale del cardinale Rodolfo Pio da Carpi erano adornati di un immenso numero di sculture antiche, tra le quali vi era una testa in bronzo di Lucio Giunio Bruto, che nel 1564 passò in Campidoglio. Uomo di rango inferiore era il medico del Pontefice, Francesco Fusconi, che abitava proprio di fronte a palazzo Farnese. Ma, tra le poche statue in suo possesso, c’era un Adone (o Meleagro) che fu probabilmente l’opera singola più famosa di tutta Roma a restar fuori dalla portata dei potenti collezionisti che dominavano il mercato.
Sotto i successori immediati di Paolo III la compagine del Belvedere subì una serie di alterazioni importanti. Verso il 1550 Giulio III donò il Mercurio al granduca Cosimo I di Firenze; un decennio più tardi Pirro Ligorio, architetto di Pio IV, alterava in misura fondamentale il progetto bramantesco demolendo la loggia ad ovest del cortile e distruggendo il giardino naturale dietro di essa, che tanto aveva affascinato i precedenti visitatori. Tale giardino fu vittima anche di una sottrazione ulteriore, quando un’altra ancora tra le figure più ammirate della raccolta venne inviata a Firenze: si trattava questa volta dell’Ercole e Anteo, donata a Cosimo I.
Poche settimane dopo la sua elezione, Pio V annunciò che la raccolta del Belvedere sarebbe stata dispersa, perché «non conveniva a chi era successore di Pietro tener simili idoli in casa». In realtà, dobbiamo dire, che non tutte le sculture abbandonarono il Belvedere, anzi molte non furono toccate, e comunque, anche quelle che furono prelevate, non lasciarono la città, ma furono trasferite in Campidoglio. In questo Pio V seguì, in qualche misura, la tendenza dei suoi predecessori. Abbiamo veduto, infatti, che un centinaio di anni prima Sisto IV aveva inaugurato le raccolte capitoline con una donazione di bronzi provenienti dal Palazzo lateranense, e già, nel 1538, Paolo III aveva fatto trasferire la statua equestre del Marco Aurelio dal Laterano al Campidoglio.
Abbiamo già parlato del ruolo svolto da papa Paolo III e dalla sua famiglia, i Farnese, nel collezionismo privato a Roma. Ma in questo un grande contributo venne anche da un’altra importante famiglia, i Medici.
Nel 1564 il Campidoglio si arricchì di un altro importante monumento della grandezza di Roma: il cardinale Rodolfo Pio da Carpi, con un suo lascito, donò la testa in bronzo (cui abbiamo già accennato) che si pretendeva fosse quella di Lucio Giunio Bruto.
Quantunque, come vedremo, numerose sculture importanti venissero da loro trasferite a Firenze, fin dal tempo in cui Giovanni (più tardi papa Leone X) aveva ottenuto il cappello cardinalizio nel 1492 era stata politica dei Medici di restare nel più stretto contatto, tanto fisico che politico e culturale col papato: contatto che sopravvisse fino all’estinzione della dinastia e che si intensificò attorno alla metà del XVI secolo. Vi era quasi sempre un membro della famiglia nel Collegio dei Cardinali; e, a Roma, essi erano proprietari di un certo numero di possedimenti importanti, che davano espressione visibile allo loro influenza e ne attestavano l’ininterrotta presenza nella città. Tra essi, di gran lunga il più importante, nel contesto dei nostri studi, era la bella villa sul Pincio originariamente costruita dal cardinal Ricci di Montepulciano (egli stesso collezionista di rilievo), e comperata nel 1576 dal cardinal Ferdinando de’ Medici, figlio minore del granduca Cosimo, per sé e per i suoi eredi. Egli colmò sia la villa che il giardino di una serie notevolissima di sculture classiche, centosettanta delle quali da lui acquistate presso due fra le più celebri collezioni romane, quelle dei Capranica e dei della Valle, assommatesi per via di matrimonio. Ma, soprattutto, il ventennio circa da lui trascorso a Roma assistette all’arrivo in villa Medici di tre opere che contavano tra le più famose della città: l’Arrotino, il Gruppo di Niobe e i Lottatori.
Nella prima metà del XVII secolo era da lunga data pratica comune, per i nipoti e i parenti stretti del papa, essere investiti di ricchezze immense, ampia parte delle quali essi devolvevano all'architettura, al mecenatismo e al collezionismo, sul modello fissato dai Farnese. I Borghese (con papa Paolo V, 1605-21) ed i Ludovisi (con papa Gregorio XV, 1621-23) furono tra i principali collezionisti della Roma barocca; essi scelsero di combinare l’esempio dei Farnese (tenendo cioè per sé le sculture classiche anziché inviarle al Belvedere) con quello dei Medici (preferendole esporle in ambiente agreste): le ville che costruirono giunsero ad ospitare statue di splendore quasi uguale a quelle che potevano trovarsi in Vaticano, in palazzo Farnese e in villa Medici.
Per di più sia il potere sia la ricchezza a disposizione di tali famiglie papali rendevano quasi impossibile che un qualsiasi cittadino privato fosse in grado di acquistare scultura di massimo livello. Quindi Roma assistette alla crescente concentrazione entro poche mani della scultura più importante che si rendesse disponibile, quantunque opere meno significative si distribuissero su un assai vasto raggio.
Due tra le sculture più famose appartenenti al cardinal Borghese erano, certamente, scoperte nuove: il Gladiatore, che venne rinvenuto a Nettuno nel 1611, e l’Ermafrodito, scavato o poco prima o poco dopo tale data, durante le operazioni edilizie connesse alla chiesa di Santa Maria della Vittoria. D’altra parte, alcune altre opere assai ammirate – come il Vaso (in marmo e senza anse) e il Sileno con Bacco bambino – vennero acquistate presso precedenti proprietari, e in molti casi non possiamo essere certi della provenienza di sculture che acquistarono celebrità nella loro villa, perché spesso i Borghese comperavano in blocco e perché molte di esse subivano ingenti «restauri» e integrazioni, così che un frammento insignificante e malconcio appartenente a qualche precedente collezione può benissimo essere stato alterato, quando venne esposto in villa Borghese, in maniera del tutto irriconoscibile. Tale sembra sia stato il caso per la Zingara, tronco marmoreo acefalo, «vestita alla moresca», notata dall’Aldovrandi, senza particolare entusiasmo in una collezione privata, e alla quale successivamente – tra l’indignazione degli archeologi dell’epoca – vennero adattate una piacevole testa, mani e piedi, il tutto in bronzo, onde sottolinearne l’aspetto orientale. Il Seneca (di cui però oggi non si accetta l’identificazione), pur esso in marmo nero, non è registrato con certezza finché appartenne ai Borghese, ma la testa e il torso originari erano noti, benché non troppo considerati. Furono l’aggiunta di membra emaciate e di una vasca, e l’uso del porfido a rappresentare il sangue del filosofo stoico, che in realtà resero famosa la statua. E, nonostante il Centauro con Cupido debba essere stato presumibilmente scavato in un qualche momento tra il 1605 (quando il cardinal Borghese acquistò ricchezza e potere) e il 1613 (quando viene per la prima volta registrato con certezza nella sua raccolta), perché non è alterato in modo così drastico e perché è certamente troppo notevole per essere in precedenza sfuggito all'attenzione, il Curzio (nell'atto di gettarsi nell'abisso col suo cavallo per salvare Roma) sembrerebbe costituire un rifacimento assai riuscito, per gran parte moderno, di qualche frammento antico che potrebbe benissimo essere stato scavato oltre un secolo prima.
Come il cardinal Borghese, il cardinal Ludovisi, suo successore nel ruolo di nipote del papa, comperò (o più frequentemente) ricevette in dono un certo numero di collezioni esistenti: fu dai Cesi, ad esempio, che acquistò il Pan e Apollo, ben noto fin dalla metà del Cinquecento; ed entrò pure in possesso di un certo numero di sculture antiche che avevano adornato i giardini dei Cesarini. Il cardinal Ludovisi era, all'occasione pronto a far «restaurare» i pezzi antichi in misura altrettanto radicale quanto ai suoi tempi il cardinal Borghese; nessuno, tuttavia, di quelli tra i pezzi della sua raccolta che venivano di regola inclusi tra le statue più belle – il Marte, il Pan e Apollo, il Castore e Polluce e il Gladiatore morente – esigette un trattamento tanto radicale da trasformarlo in una creazione virtualmente nuova. Essendo tutte, queste, statue di grande taglia, spesso gruppi, è quanto mai improbabile che abbiano potuto passare inosservate agli occhi di spettatori precedenti. Dovremo pertanto presumere che la maggior parte di esse venisse scavata per lo stesso cardinal Ludovisi durante la costruzione della sua villa, situata su parte di quelli che erano stati i famosi Orti, prima Sallustiani, poi degli Imperatori, e pertanto ricca fonte d’importanti opere d’arte. Le sculture Ludovisi rappresentarono pertanto un’aggiunta genuina, del massimo significato, al novero delle statue più ammirate di Roma.
Le grandi ville e giardini che questi cardinali si costruirono, siti immediatamente al di fuori o talvolta persino entro le mura di Roma (quelle dei Medici, dei Borghese e dei Ludovisi erano tutte fra loro adiacenti), venivano spesso concepiti come «musei» semi-pubblici, di gran lunga più accessibili di palazzi, più formali, al centro della città. Fu in tali proprietà che vennero esposte tutte le sculture più importanti, sia negli interni – ove potevano aversi stanze che prendevano nome da pezzi particolarmente famosi (come la Stanza dell’Ermafrodito e la Stanza della Zingara in villa Borghese) – o all'esterno, come nel «bosco delle statue» appositamente progettato per villa Ludovisi.
Le collezioni di scultura dei Borghese e dei Ludovisi furono certamente le più ammirate che si formassero a Roma nel secolo XVII, ma i nipoti dei successivi pontefici erano naturalmente smaniosi di rivaleggiare con esse. Eppure, sotto Urbano VIII (1623-44) i Barberini, dotati di risorse e di tempo disponibile in misura maggiore di ambedue le precedenti famiglie messe insieme, non riuscirono a trovare che un’opera sola, un Fauno dormiente, che venisse universalmente accettata come opera di eccellenza suprema.
Un’altra raccolta importante di statue antiche a Roma era quello dei Giustiniani, voluta da Vincenzo (1564-1638), la quale doveva essere la più ampia dell’Urbe. Essa poté vantare il primo catalogo in due volumi illustrato dal Sandrart e pubblicato fra il 1628 e il 1631. Della collezione Giustiniani sappiamo che facevano parte due vasi in marmo a soggetto dionisiaco, simili al vaso Borghese, che però non compaiono nel catalogo e quindi probabilmente furono acquistati successivamente alla sua redazione.