Nel 264 a.C. Roma controllava ormai tutta l’Italia peninsulare, fino allo stretto di Messina. In quest’area di fondamentale importanza economica e strategica gli interessi di Roma entrarono per la prima volta in collisione con quelli della vecchia alleata Cartagine. Lo scontro venne precipitato dalla questione dei Mamertini, che costituì il vero e proprio casus belli. I Mamertini, mercenari di origine italica, si erano impadroniti con la forza di Messina, dedicandosi alla redditizia attività di saccheggiare le vicine città. Questo comportamento provocò la reazione dei Siracusani che, guidati dal generale Ierone, inflissero ai Mamertini una severa sconfitta e avanzarono verso Messina. I Mamertini accolsero dunque l’offerta di aiuto di una flotta cartaginese che incrociava nelle acque di Messina e che ovviamente vedeva con preoccupazione la possibilità che i Siracusani si impadronissero della zona dello Stretto: una guarnigione cartaginese si installò in Messina e Ierone fu costretto a far ritorno a Siracusa.
I Mamertini peraltro si stancarono ben presto della tutela cartaginese e decisero di fare appello a Roma, dove iniziò un serrato dibattito a favore o contro l’intervento a Messina.
Questo infatti avrebbe sicuramente significato un grave incidente con Cartagine, con la quale fino a quel momento Roma aveva avuto buoni rapporti, ma d’altra parte far cadere nel vuoto l’appello dei Mamertini significava lasciare ai Cartaginesi il controllo della zona strategica dello Stretto e perdere la migliore delle occasioni per mettere piede nella ricchissima Sicilia. Secondo il racconto di Polibio proprio questa motivazione economica avrebbe indotto l’assemblea popolare, cui il senato, diviso al suo interno, aveva demandato la questione, a votare l’invio di un esercito in soccorso dei Mamertini
Anche se formalmente Roma non aveva dichiarato guerra a Cartagine, di fatto questa decisione aprì la lunghissima prima guerra punica (264-241 a.C.). I primi anni di guerra furono favorevoli ai Romani che riuscirono a respingere da Messina Cartaginesi e Siracusani, che avevano deciso di allearsi; ma già nel 263 a.C. il re Ierone comprese che l’innaturale alleanza con Cartagine era pericolosa per Siracusa: decise quindi di concludere una pace che lo lasciò in possesso di un ampio territorio della Sicilia orientale, e di schierarsi dalla parte di Roma. Il leale sostegno di Ierone si rivelò indispensabile per superare le difficoltà di rifornimento degli eserciti romani impegnati nelle operazioni in Sicilia, già dal 262 a.C., quando, dopo un lungo assedio, cadde nelle mani romane la grande base cartaginese di Agrigento.
Grazie alla sua netta superiorità nelle forze navali, Cartagine conservò tuttavia un saldo controllo su molte località costiere della Sicilia: a Roma si decise quindi per la prima volta la creazione di una grande flotta di quinquiremi, contando anche sull’aiuto dei cosiddetti socii navales, in particolare le città greche dell’Italia meridionale, che fornirono buona parte dei marinai e dei comandanti. Lo sforzo fu premiato nel 260 a.C. da una clamorosa vittoria sulla flotta cartaginese nelle acque di Milazzo.
A questo punto a Roma si pensò di poter assestare un colpo mortale a Cartagine attaccandola direttamente nei suoi possedimenti africani: l’invasione iniziò nel 256 a.C. sotto i migliori auspici: la flotta romana sconfisse quella cartaginese al largo di capo Ecnomo, un promontorio ad est di Agrigento, e fece sbarcare l’esercito nella penisola di capo Bon, in Africa. Le prime operazioni furono favorevoli al console Marco Attilio Regolo, che tuttavia non seppe sfruttare i successi: imponendo condizioni durissime, fece fallire le trattative di pace che erano state avviate, rafforzando la determinazione dei Cartaginesi; allo stesso tempo non seppe approfittare del malcontento che serpeggiava contro Cartagine tra i suoi alleati e i sudditi africani per portarli dalla propria parte. Nel 255 a.C. Regolo venne duramente battuto da un esercito cartaginese comandato dal mercenario spartano Santippo. La situazione fu peggiorata da due disastrosi naufragi a capo Pachino (255) e capo Palinuro (253). La logorante guerra si concentrò di nuovo in Sicilia, dove i Cartaginesi si chiusero a Lilibeo (Marsala) e Drepano (Trapani) dopo aver dovuto lasciare Palermo. Esauritosi un ultimo sforzo di resistenza condotto da Amilcare Barca dal 247 al 241 a.C., la flotta romana, riallestita in fretta grazie ad un prestito di guerra da parte dei cittadini più facoltosi, comandata dal console Lutazio Catulo vinse il nemico ormai esausto alle isole Egadi (241 a.C.). A Cartagine si comprese che non vi era più alcuna possibilità di resistere e di domandò la pace: le clausole del trattato prevedevano lo sgombero dell’intera Sicilia e delle isole vicine e il pagamento di una pesante indennità di guerra. La Sicilia, ad eccezione dei territori di Siracusa, divenne la prima provincia romana.
La guerra fu vinta dalla potenza che aveva mostrato maggiore capacità di resistenza e disponeva di risorse più ampie: il potenziale militare degli alleati italici si rivelò decisivo per Roma, contro un nemico che benché ricco di mezzi doveva ricorrere ai mercenari per condurre le proprie guerre.
Il periodo che va dalla fine della I (241 a.C.) allo scoppio della seconda guerra punica (218 a.C.) vede un consolidamento delle posizioni delle due grandi avversarie, Roma e Cartagine, in vista dello scontro decisivo.
Per Cartagine i primi anni dopo la sconfitta furono drammatici: la città, in grave crisi economica, non era in grado di assicurare il pagamento delle numerose truppe mercenarie che avevano combattuto contro i Romani. I mercenari, stanchi di attendere si ribellarono, coinvolgendo alcune delle popolazioni dell’Africa settentrionale soggette a Cartagine (241-237 a.C.). La rivolta fu soffocata a caro prezzo da Amilcare Barca. Quando però i Cartaginesi allestirono una spedizione per recuperare la Sardegna, dove pure le guarnigioni dei mercenari si erano ribellate chiedendo il soccorso dei Romani, si dovettero scontrare con l’opposizione di Roma. Cartagine fu accusata di prepararsi ad aprire le ostilità contro Roma stessa, che si disse pronta a dichiarare guerra. I Cartaginesi, che non avevano alcuna possibilità di affrontare un nuovo conflitto, si piegarono, accettando di pagare un indennizzo supplementare e cedere la Sardegna, che insieme alla Corsica andò formare la seconda provincia romana dopo la Sicilia (237 a.C.).
Pochi anni dopo, Roma intervenne direttamente anche nell’Adriatico, dove prese possesso delle coste dell’Illiria (cioè della Dalmazia), dalla quale partivano spedizioni piratesche contro le coste italiane.
In quegli anni furono anche sottomessi i Galli stanziati nell’Italia settentrionale. Essi, con il contributo di tutte le loro tribù, radunarono un grande esercito e riuscirono a penetrare nel territorio romano: il terrore a Roma, dove si ricordava ancora il sacco del 390 a.C. Ma questa volta i Galli furono sconfitti a Casteggio (222 a.C.) e tutta l’Italia settentrionale venne sottomessa ai Romani.
Sulle terre espropriate ai Galli, per controllare meglio i vinti, furono fondate due grandi colonie: Cremona e Piacenza, lungo il corso del Po, che vennero popolate da coloni-soldati e munite di forti difese; oltre ad assicurare la prosperità a molti soldati-contadini, esse costituivano due importanti piazzeforti nel cuore di un territorio che rimaneva pur sempre ostile.
Mentre Roma guadagnava posizioni nell’Adriatico e nell’Italia settentrionale, Cartagine, ripresasi dalla guerra dei mercenari, cercava di estendere la propria influenza in Spagna che al momento era limitata agli insediamenti fenici della costa sud-orientale, tra i quali è da ricordare Gades, l’odierna Cadice. La conquista della Spagna venne affidata ad Amilcare Barca che riuscì a stabilire buoni rapporti con alcune popolazioni e a sottometterne altre, cosicché in pochi anni Cartagine si trovò padrona di buona parte della Spagna, regione ricchissima di risorse minerarie e nella quale poteva arruolare un forte esercito di mercenari. Di fronte all’inarrestabile avanzata cartaginese, il senato romano si affrettò a concludere un trattato (trattato dell’Ebro) che stabiliva come confine tra le zone di influenza delle due potenze il fiume Ebro.
Quando Amilcare morì, il comando dell’esercito passò al suo genero Asdrubale e infine al figlio di Amilcare, il celebre Annibale, che sarebbe diventato il più pericoloso nemico di Roma. La sconfitta del 241 a.C. e soprattutto l’umiliazione subita quattro anni dopo, quando Roma si era impadronita della Sardegna, avevano creato a Cartagine un forte sentimento di rivincita contro Roma, che trovò espressione proprio in Annibale.
Il piano di Annibale era rischioso, ma per poco non lo condusse alla vittoria finale. Roma doveva la vittoria nella prima guerra punica non tanto al genio dei suoi generali quanto all’immenso potenziale umano e finanziario assicurato dal suo controllo sulle popolazioni italiche; era dunque necessario colpire il nemico nella base della sua potenza, cercando di staccare da Roma i suoi alleati, convincedoli che i Cartaginesi sarebbe stati i loro liberatori Tuttavia, poiché solo la presenza di un esercito cartaginese vittorioso avrebbe potuto incoraggiare i popoli italici alla ribellione e dal momento che a seguito del trattato di pace i Cartaginesi avevano un’assoluta inferiorità nelle forze navali, l’invasione dell’Italia poteva avvenire solo via terra, attraverso le sue frontiere settentrionali dove Annibale sperava di guadagnare anche l’appoggio delle tribù galliche da poco sottomesse da Roma.
Su queste premesse, Annibale iniziò una serie di provocazioni allo scopo di costringere Roma a dichiarare guerra. I patti tra Roma e Cartagine prevedevano, come si è già detto, che tutto il territorio a sud dell’Ebro fosse cartaginese, ma nel 219 a.C. Annibale decise di aggredire la città di Sagunto che, pur trovandosi a sud dell’Ebro (e quindi in zona cartaginese), era una città alleata di Roma. Dal punto di vista giuridico dunque il caso era dubbio; questo provocò a Roma una lunga serie di discussioni, mentre la città assalita, veniva conquistata dopo un assedio di otto mesi («mentre a Roma si discuteva, Sagunto veniva espugnata», è la famosa frase di Livio). Roma non potette attendere oltre senza intervenire e così fu dichiarata guerra a Cartagine e il console Scipione fu spedito con un esercito per bloccare Annibale in Spagna.
Senza attendere oltre, però, Annibale si diresse verso l’Italia. La sua marcia fu così rapida che i Romani non riuscirono a intercettare l’esercito cartaginese prima che questo giungesse in prossimità delle Alpi, che furono valicate superando giganteschi ostacoli, e ottenne il sostegno dei Boi e degli Insubri.
Il primo scontro con l’avanguardia romana avvenne nel 218 a.C. presso il fiume Trebbia e fu una vittoria cartaginese: durante il combattimento lo stesso console Scipione fu ferito e fu salvato da suo figlio, il futuro Scipione l’Africano. Poco dopo sulle rive del Ticino l’esercito romano al completo fu nuovamente sconfitto (con gravissime perdite).
All’inizio del 217 a.C. si verificò un altro tentativo di sbarrare ad Annibale la strada verso sud, impedendogli di oltrepassare gli Appennini; ma presso il lago Trasimeno l’esercito romano, imprudentemente condotto dal console Caio Flaminio, finì in un’imboscata; stretto tra i monti e le rive del lago, esso venne completamente distrutto e lo stesso Flaminio fu tra le vittime.
Un’ondata di terrore investì Roma. Furono rotti i ponti sul Tevere e venne nominato un dittatore nella persona di Quinto Fabio Massimo, un ex console. Costui sosteneva che fosse impossibile sconfiggere Annibale in campo aperto. Per cui riteneva di dover evitare le battaglie campali e di limitarsi a controllare le mosse di Annibale e ad impedire che da Cartagine o dalla Spagna gli giungessero degli aiuti: prima o poi la scarsità di mezzi e di uomini a sua disposizione lo avrebbe costretto ad arrendersi alle superiori forze romane o ad abbandonare l’Italia. Per questo motivo Quinto Fabio Massimo fu detto Cunctator («il temporeggiatore»).
La strategia di Fabio Massimo alla lunga avrebbe portato alla vittoria, ma a breve termine significava che Roma avrebbe dovuto assistere impotente alla devastazione dell’Italia da parte dell’esercito cartaginese, che incontrastato raggiunse la Puglia, dove stabilì i suoi quartieri d’inverno. Per questo motivo, scaduti i sei mesi della dittatura di Fabio Massimo, a Roma si decise di passare nuovamente all’offensiva, sperando di poter schiacciare Annibale con la semplice superiorità numerica: ma nel 216 a.C. Annibale riuscì ad annientare, con uno straordinario accerchiamento, gli eserciti congiunti dei consoli Marco Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo nella piana di Canne, in Puglia.
La guerra pareva ormai perduta per Roma. Numerose comunità dell’Italia meridionale, tra le quali Capua, Siracusa e Taranto defezionarono. Ad Annibale si unì anche Filippo V di Macedonia.
Tuttavia, grazie all’atteggiamento esitante di Annibale, Roma riuscì a riorganizzarsi. Innanzitutto allestì un esercito e lo inviò subito contro Siracusa; un altro esercito fu inviato in Spagna, mentre il resto delle forze rimase a controllare Annibale, senza tuttavia rischiare una nuova battaglia.
Roma inoltre strinse un’alleanza con alcune comunità greche (Etoli, Elidi, Spartani e Messeni) e Attalo I di Pergamo che contrastarono Filippo V e in tal modo impedirono che i Macedoni sbarcassero in Italia per dare man forte ad Annibale (I guerra macedone).
Ma fu soprattutto la fedeltà degli alleati italici dell’Italia centrale, che compresero che un dominatore straniero sarebbe stato certo un padrone molto peggiore, a dare la salvezza a Roma.
Così il momento peggiore passò; Annibale era ormai ridotto alla difensiva anche perché l’esercito romano inviato in Spagna gli impediva i rifornimenti. Negli anni successivi la situazione si ribaltò: Siracusa fu assediata e infine presa (212 a.C.) e saccheggiata dai Romani. Successivamente anche Capua venne riconquistata (211 a.C.).
La svolta decisiva della guerra si ebbe però in Spagna, che era la base della potenza e dei rifornimenti di Annibale; quando il comando fu assunto dal giovane Publio Cornelio Scipione, i Romani presero decisamente il sopravvento: la stessa capitale della Spagna cartaginese, Nova Carthago, fu conquistata (210 a.C.). Pochi anni dopo, una parte dell’esercito cartaginese, comandata da Asdrubale, fratello minore di Annibale, riuscì però a sganciarsi e a penetrare in Italia. Il pericolo sarebbe stato grave se queste forze fossero riuscite a unirsi ad Annibale; furono però intercettate e sconfitte nelle Marche, presso il fiume Metauro (207 a.C.). Disperando di poter ottenere soccorsi dalla madrepatria, Annibale, ormai ridotto praticamente all’impotenza, si ritirò nel Bruzio.
La fase finale del conflitto si ebbe quando Roma preparò un esercito da inviare in Africa, sotto il comando di Scipione. L’impresa fu accolta con diffidenza dal Senato, nel quale era ancora vivo il ricordo della disfatta di Regolo cinquanta anni prima. Scipione, che era stato eletto console, fu comunque autorizzato ad arruolare un esercito composto soprattutto da italici, con cui sbarcò in Africa e iniziò le operazioni.
Di fondamentale importanza si rivelò l’alleanza con Massinissa, re dei Numidi (un popolo in rivolta contro Cartagine), al quale fu promesso, in caso di vittoria, un regno autonomo. Ormai alle strette, Cartagine so vide costretta a richiamara Annibale, che abbandonò l’Italia dove si trovava da più di quindici anni e dove era giunto ad un passo dalla vittoria finale.
Nel 202 a.C. gli eserciti di Annibale e Scipione (che pochi giorni prima si erano invano incontrati per giungere a un accordo) si affrontarono a Zama. Nonostante tutti gli sforzi di Annibale e delle sue truppe, la vittoria fu dei Romani grazie soprattutto alla cavalleria numida; a Cartagine non restava altro che chiedere la pace, con la quale dovette rinunciare a ogni possesso al di fuori dell’Africa (in particolare in Spagna), consegnare la flotta e pagare una pesantissima indennità di guerra. Inoltre, le fu vietato di dichiarare guerra senza il consenso dello Stato romano e le fu imposto di riconoscere un potente regno di Numidia governato da Massinissa, una sorta di gendarme di Roma in Africa. Scipione rientrò a Roma, dove celebrò un grandioso trionfo e per la vittoria riportata ricevette il soprannome di «Africano».
Pochi anni dopo la conclusione della guerra con Cartagine, Roma si impegnò in un altro conflitto di grandi proporzioni contro Filippo V di Macedonia. Causa immediata della guerra fu soprattutto l’attivismo del re macedone nell’area dell’Egeo e sulle coste dell’Asia Minore, che lo portarono a scontrarsi con le due maggiori potenze dell’area, il regno di Pergamo e la repubblica di Rodi, che chiesero soccorso a Roma, in particolare la prima il cui re Attalo I aveva da tempo relazioni di amicizia con i Romani.
A Roma, dopo un acceso dibattito, si decise per la guerra. Così, sotto la guida del console Tito Quinzio Flaminino, nel 200 a.C. l’esercito romano sbarcò nella città amica di Apollonia, in Illiria, e trascorsi due anni senza azioni decisive, nel 197 a.C. a Cinocefale, in Tessaglia, ebbe luogo lo scontro decisivo, nel corso del quale i Romani, anche grazie all’aiuto delle città greche riunite nella Lega Etolica, che si era schierata al loro fianco, inflissero al nemico pesantissime perdite.
Filippo V fu costretto a consegnare la flotta, a pagare una pesante indennità di guerra, a rinunciare a ogni pretesa sui territori al di fuori della Macedonia e a riconoscere la libertà e l’autonomia di tutte le città greche. Nel corso dello stesso anno (196 a.C.), durante l’inaugurazione dei Giochi Istmici di Corinto, Tito Quinzio Flaminino dichiarava che Roma aveva restituito la libertà alla Grecia. Si trattava, invero, di una mascherata sottomissione, poiché i Romani non avevano certo intenzione di abbandonare le prospettive di conquista che le divisioni tra i Greci potevano aprire.
Così nella Grecia «liberata» cresceva l’ostilità contro i vincitori che si intromettevano continuamente nelle questioni interne delle diverse città, intervenendo militarmente in favore dell’una o dell’altra fazione, sostenendo regolarmente le classi aristocratiche e conservatrici, a scapito degli interessi dei più poveri e dei partiti democratici. Uno scontento particolare dominava la Lega etolica, che in cambio dell’aiuto dato ai Romani si aspettava un trattamento di privilegio, e che quando vide deluse le sue speranze decise di rivolgersi ad Antioco III, re di Siria.
Come tutti i sovrani Seleucidi, Antioco da tempo conduceva una politica aggressiva, e aveva già occupato i possedimenti egiziani in Asia Minore e le città costiere della Tracia. La richiesta d’aiuto delle città greche fu l’occasione che gli consentì di sbarcare una parte del suo esercito in Grecia. Qui però non trovò il sostegno dei Greci di cui pensava di poter godere: gli unici aiuti concreti gli vennero dagli Etoli. Quindi, in grave inferiorità numerica, il re di Siria venne duramente battuto l’anno seguente (191 a.C.) alle Termopili. La partita non era tuttavia chiusa per Roma, decisa ad allontanare una volta per tutte la minaccia siriaca dall’area dell’Egeo e dunque a colpire Antioco nel suo stesso regno.
Così, dopo essere sbarcate in Asia, le legioni romane comandate da Publio Cornelio Scipione (fratello dell’Africano, che partecipò a sua volta alla spedizione), nel 190 a.C. sconfissero le truppe di Antioco presso la città di Magnesia (oggi in Turchia).
Il trattato di pace (pace di Apamea) che il re siriano fu costretto a concludere nel 188 a.C., stabiliva che tutti i territori conquistati dai Seleucidi fuori della Siria (in Asia Minore e in Tracia) venissero dati a Rodi e a Pergamo, alleate di Roma; che Antioco distruggesse la sua flotta; che egli pagasse una pesante indennità di guerra, e che consegnasse ai Romani Annibale, il quale dal 195 a.C. si trovava presso la sua corte, in veste di ospite consigliere. Annibale tentò di salvarsi recandosi presso Prusia, re di Bitinia, ma poiché i Romani chiedevano anche a questi la sua consegna, nel 183 a.C. egli preferì uccidersi piuttosto che cadere nelle loro mani.
Eliminata la Siria, Roma rivolse di nuovo la sua attenzione alla Macedonia, uno stato ancora abbastanza potente da poter coltivare qualche ambizione di riscossa contro Roma. Le classi meno abbienti e i partiti democratici di molte città, grazie all’abile politica di Filippo V, guardavano a costui come al loro naturale alleato e difensore contro le ingerenze dei Romani. La Macedonia poteva così diventare il principale punto di riferimento e di unione dei sentimenti e dei movimenti antiromani e Roma se ne rese subito conto.
Tuttavia Filippo V morì e gli successe il figlio maggiore Perseo che era riuscito precedentemente a sbarazzarsi del fratello, il filoromano Demetrio. Perseo volle continuare la politica del padre ma non riuscì a sfruttare il diffuso odio che i Greci provavano per i Romani. Nel 171 a.C., prima che egli riuscisse a riunire forze sufficienti a combatterli, i Romani gli dichiararono guerra, e nel 168 a.C. fu sconfitto a Pidna dal console Lucio Emilio Paolo (figlio del console morto a Canne).
La Macedonia venne smembrata in in quattro repubbliche assoggettate a Roma e costrette a pagarle un tributo. Le miniere d’oro e d’argento divennero proprietà dei Romani. Perseo e i suoi figli furono condotti a Roma, e costreti a sfilare in catene dietro il carro di Lucio Emilio Paolo. La lega delle città achee, colpevole solodi essere rimasta neutrale, fu costretta a consegnare mille ostaggi, tra i quali figurava lo storico Polibio. Altre repressioni toccarono altre città città greche.
La repressione romana dopo la terza guerra macedonica fu durissima, ma i tentativi di sottrarsi alla sua dominazione proseguirono. Nel 149 a.C. in Macedonia un avventuriero di nome Andrisco, che si spacciava per figlio di Perseo, riuscì a raccogliere un forte contingente di truppe e attaccò di sorpresa i Romani. Ma anche quest’ultimo tentativo di ribellarsi al giogo dei dominatori fallì, e nel 148 a.C. Andrisco venne annientato dalle truppe romane comandate da Quinto Cecilio Metello. La Macedonia venne ridotta a provincia romana.
Scongiurata la minaccia di Andrisco, il senato si occupò delle questioni concernenti gli Achei, ordinando che fosse staccata dalla Lega non solo la riottosa Sparta, ma anche altre importanti città, tra le quali Argo e Corinto. Ciò avrebbe significato in pratica la fine della Lega achea come organismo di una qualche rilevanza politica. L’assemblea della Lega decise la guerra, che fu brevissima. Gli Achei non poterono impedire l’invasione del Peloponneso da parte di Metello che era calato dal nord; qui il comando venne rilevato dal console Lucio Mummio che sconfisse definitivamente l’ultimo esercito acheo. Corinto, principale città della Lega, venne saccheggiata e distrutta (146 a.C.).
In Grecia vennero sciolte tutte le leghe e ovunque furono imposti regimi aristocratici di provata fedeltà.
Dopo la fine della seconda guerra punica, Cartagine aveva cessato di rappresentare un pericolo per Roma. Tuttavia la prosperità commerciale di questa città, che si era ripresa rapidamente dai danni del conflitto, non mancava di impensierire l’opinione pubblica romana. Fu così progettata e portata a compimento la distruzione completa di Cartagine. Le ragioni che indussero Roma ad annientare l’antica rivale, con un atto inconsueto nella sua storia politica e diplomatica, sono varie. Fra queste l’irrazionale timore che Cartagine potesse diventare ancora una volta un grave pericolo, forse coalizzando le forze antiromane ancora presenti nel Mediterraneo, sia la più realistica constatazione che la vittoria su Cartagine avrebbe fruttato un bottino immenso, un territorio fertilissimo e una grande fetta del commercio mediterraneo. Tra i grandi sostenitori della guerra dobbiamo ricordare Catone, che terminava ogni suo discorso in Senato con la celebre frase: «Carthago delenda est».
Il pretesto dell’aggressione fu offerto da una contesa di confine tra Cartagine e il re dei Numidi Massinissa, l’antico alleato di Scipione che, ancora a novant’anni governava energicamente il proprio popolo. Poiché il trattato di pace stipulato alla fine della seconda guerra punica impediva a Cartagine di dichiarare guerra senza il consenso di Roma, quando i Cartaginesi, stanchi delle continue provocazioni di Massinissa, risposero con le armi in pugno, il Senato decise che si era verificato il casus belli (149 a.C.). Così un imponente esercito sbarcò in Africa. Nel disperato tentativo di evitare una guerra perduta in partenza, i Cartaginesi, che avevano già consegnato ostaggi, acconsentirono a cedere una notevole quantità di armamenti. Quando tuttavia i consoli che comandavano l’esercito romano chiesero loro di abbandonare la città e di trasferirsi ad una distanza di almento 10 miglia dalla costa, decisero di resistere ad oltranza. Quella che si pensava potesse essere una facile azione si trasformò in un lungo e difficile assedio, risolto solamente nel 146 a.C., sotto il comando di Publio Cornelio Scipione Emiliano, figlio del vincitore di Pidna, Lucio Emilio Paolo, ma entrato per adozione nella famiglia degli Scipioni. La città fu saccheggiata e rasa al suolo, il suo territorio (limitato all’attuale Tunisia nord-orientale, dopo le conquiste di Massinissa) trasformato nella nuova provincia d’Africa.
Nello stesso tempo in cui aveva annientato le due potenti monarchie di Macedonia e di Siria, ridotto all’obbedienza tutti gli stati dell’Oriente ellenistico e distrutto la grande Cartagine, Roma non era riuscita a venire a capo della situazione in Spagna.
All’indomani della seconda guerra punica i Romani si erano saldamente stabiliti in due distinte zone della penisola iberica: nel meridione intorno all’importante città di Cadice e alla vallata del Guadalquivir, a settentrione nella zona costiera a nord dell’Ebro. Nel 197 a.C. le due aree vennero stabilmente organizzate nelle nuove province di Spagna Citeriore a nord e Spagna Ulteriore a sud, governate da due nuovi pretori appositamente eletti. Le comunità spagnole soggette a Roma dovevano pagare un tributo, detto stipendium, e fornire truppe ausiliarie.
Le due provincie comprendevano solamente le regioni costiere della Spagna meridionale del Levante. Queste si ampliarono nel corso di campagne contro ribelli e coalizioni di popolazioni locali, ma la penetrazione verso l’interno si rivelò lenta e difficile, tanto che la sottomissione della penisola iberica venne completata solo con Augusto.
La resistenza spagnola in effetti pesò sulla storia della repubblica romana e, generali romani, spesso incompetenti e corrotti, insieme a soldati malcontenti per una guerra «sporca», senza gloria, senza bottino, senza fine, subirono una serie di disastri. Per questo venne nominato un tribunale speciale e permanente, incaricato di giudicare il reato di concussione, la quaestio perpetua de repetundis.
La rivolta più pericolosa per Roma fu quella dei Celtiberi, che iniziò nel 153 e si concluse solo nel 134 a.C., quando Scipione Emiliano riuscì a conquistare e distruggere la loro capitale Numanzia.
Nel 133 a.C. Attalo III, ultimo re di Pergamo, lascia il suo stato in eredità a Roma, che ne farà la provincia d’Asia (129 a.C.).