I dati storici, archeologici e onomastici sembrano indicare che i villaggi primitivi dell'Etruria e del Lazio del IX secolo a.C., fossero organizzati in gruppi omogenei, la cui consistenza numerica appare costantemente limitata: si tratta di famiglie nucleari allargate dominate dalla figura del paterfamilias. A questo tipo di istituzione, che possiamo avvicinare alla familia dell'antica tradizione latina, vediamo affiancarsi, con il costituirsi delle prime aristocrazie (e quindi anche delle prime disuguaglianze sociali) dagli inizi dell'VIII secolo a.C., una nuova cellula sociale di base, la gens. La trasformazione sociale e la nascita dei gruppi "gentilizi" si riflettono anche nell'onomastica personale con la nascita della cosiddetta formula bimembre, composta dal prenome e dal gentilizio appunto che deriva dal nome personale del capostipite e diventa ereditario di padre in figlio (cfr. § 2). La gens ci appare come una sorta di «famiglia allargata» in cui convivono sia membri legati tra loro da consanguineità che membri di altra origine, cooptati nel gruppo o di loro spontanea volontà o perché schiavi liberati o stranieri. Le aristocrazie etrusche di VII secolo a.C. costituiscono la testimonianza più eloquente di questo organismo di tipo familiare, tant'è che nella terminologia latina, esse sono chiamate costantemente con il nome collettivo di princeps, lo stesso che designa i capi delle gentes.
Di queste "casate", come abbiamo accennato, facevano parte anche persone di condizione subalterna che lavoravano alle strette dipendenze del proprio padrone (dominus). Le fonti classiche, greche e latine, quando si riferiscono all'ordinamento sociale dell'Etruria, tendono a distinguere il ceto dipendente che viveva nelle case (oikétai, familia urbana), descritto anche come insieme di servi "schiavi" o di therápontes "servitori" — il cui lusso nell'abbigliamento e le cui case sorprendevano Posidonio alla fine del II secolo a.C. — da quello che viveva nelle campagne, definito come penéstai (letteralmente "poveri") da Dionisio di Alicarnasso, con specifico riferimento alla condizione dei ceti dipendenti della Tessaglia. Tale definizione appare significativa in quanto individua un rapporto con la classe magnatizia che non coincide con la schiavitù, dal momento che, pur comportando certamente una dipendenza dal lavoro agricolo, vanta anche diritti di possesso sulla terra e la partecipazione alla milizia: anche Tito Livio riferisce di "truppe raccattate dai principi fra i contadini", mentre la profezia di Vegoia sembra prevedere per i servi limitati diritti sulla terra, coltivata comunque per i domini. Si tratta, pertanto, di gruppi di persone che costituiscono una vera e propria multitudo, il cui statuto era a metà fra lo stato di libero e quello di schiavo, assimilabile solo parzialmente a quello dei clientes romani, dipendenti dal patrono ma che, in qualità di liberi, godevano dei diritti civili. Esclusi dalla partecipazione alla cosa pubblica, essi risultano una classe in movimento alla fine del IV secolo a.C., quando ad Arezzo si rivoltano contro i Cilnii , magnati della zona, o quando a Volsinii si impadroniscono del governo cittadino con il placet dei nobili, disinteressati alla politica. A seguito della conquista romana dell'Etruria essi dovettero assumere una sorta di "coscienza di classe". In particolare, dopo altre rivolte del 196 a.C., assistiamo a una serie di affrancamenti di personaggi che assumono come nome gentilizio il nome individuale del patrono, rivelando così la mancanza di un nome di famiglia: questi, probabilmente, vanno identificati con i penéstai, mentre gli oikétai sono forse i lautni, personaggi di basso rango, alcuni anche di origine straniera (greci in particolare), il cui nome, da confrontare con l'etrusco lautn "famiglia", dovrebbe indicare l'ambito domestico di appartenenza.
Come ben si vede nel caso dei servi, le fonti greche, più attente di quelle latine alle situazioni economico-sociali, illustrano la realtà etrusca in maniera ben precisa. Quando leggiamo in un testo greco delle condizioni sociali etrusche, emerge continuamente l'immagine di questa aristocrazia « oziosa », che vive nella tryphé, nella habrótes, ossia nel lusso e nelle mollezze. Giudizi di questo genere espressi per gli Etruschi come per altri popoli antichi, anche quando sono formulati in forma apparentemente moralistica, usano un vocabolario assai circoscritto, in cui tryphé assume un valore specifico, quello di un'oligarchia basata sullo sfruttamento di lavoro dipendente servile o semiservile. Molte sono poi le storie fantasiose sul binomio ozio-crudeltà attribuito agli Etruschi, ma in esse un altro tema è interessante, quello della condizione delle donne.
Anche questo della « libertà » delle donne etrusche è un topos della tradizione greca, che ha un fondo di verità espresso sia dalle raffigurazioni di pitture e rilievi dall'epoca arcaica a quella ellenistica, ove compaiono donne certamente di alto rango impegnate in danze e banchetti consumati insieme a uomini, come dice Aristotele, «sotto lo stesso manto». Questa libertà, di gran lunga maggiore di quella di quella goduta dalle donne di Atene o di Roma, insieme all'uso di apporre nelle iscrizioni non solo il patronimico, ma anche il matronimico, ha fatto spesso parlare di un «matriarcato» etrusco. Ma in realtà nelle iscrizioni etrusche l'elemento prevalente è il patronimico, anche se in molti epitaffi sono riportati il gentilizio e il prenome della madre. Non vi è dubbio che la donna abbia nella società etrusca un posto particolarmente elevato e certamente diverso da quello della donna di età classica. Tuttavia la partecipazione ai banchetti con gli uomini – lungi dall'essere segno di dissolutezza, come malignamente affermarono alcuni scrittori greci meravigliati e scandalizzati da una usanza rifiutata dal mondo ellenico – è indizio di una parità sociale, che ricollega anche per questo aspetto la società degli antichi Etruschi a costumi propri del mondo occidentale e moderno.
Il particolare tipo di documentazione della lingua etrusca giunta fino a noi, costituita in prevalenza da iscrizioni funerarie, spesso con la sola formula onomastica del defunto, da iscrizioni di possesso, di dono o di dedica fa sì che i nomi propri siano le parole di gran lunga più attestate. Presenti nei testi durante tutti i secoli in cui si svolge la civiltà, essi forniscono informazioni non solo di carattere linguistico, ma anche socio-politico. In età più antica, la designazione dell'individuo doveva essere limitata ad un nome singolo, elemento sufficiente di individuazione in una comunità di modeste proporzioni. Sicure attestazioni di tale uso, che precede l'adozione di un secondo membro, il gentilizio, ci sono rimaste in alcune iscrizioni del VII secolo iniziale. Nel corso dei secoli il nome unico è impiegato per designare persone al di fuori del sistema gentilizio e pertanto di classe inferiore, sia servile che avente limitati diritti (stranieri). A spiegare l'introduzione del gentilizio tuttavia non è sufficiente addurre la crescita di popolazione, avvenuta con la formazione delle città storiche, o l'aprirsi della comunità verso il mondo esterno, a seguito dei contatti con i coloni greci dell'Italia meridionale, tanto è vero che il sistema onomastico greco, dimostratosi valido in analoghe situazioni e rimasto immutato per secoli, si fondava sul nome individuale, seguito dal nome del padre. La nascita del gentilizio va piuttosto ricercata nel bisogno di un segno distintivo di interi gruppi familiari emergenti, quali possono ben essere le aristocrazie, che in epoca orientalizzante detenevano il potere e soprattutto la ricchezza. In epoca storica la formula onomastica del cittadino avente pieni diritti è quindi la cosiddetta formula onomastica bimembre che si compone di un prenome e di un gentilizio: nel nome latino Marcus Tullius o in quello etrusco Avle Marcenas, Marcus e Avle hanno la funzione di prenome ossia di designativo (non trasmissibile) di un individuo all'interno di un gruppo, e Tullius e Marcenas hanno la funzione di gentilizio ossia di designativo (trasmissibile) di un gruppo all'interno di una comunità. In sostanza, in epoca storica, quasi tutte le società dell'Italia antica (con la sola eccezione dell'area venetica) presentano un sistema di designazione degli individui come appartenenti a gruppi familiari, i quali nel loro insieme costituiscono il corpo sociale. Il gentilizio, come si è da tempo riconosciuto, è un aggettivo che rappresenta un antico patronimico: Tullius vuol dire « figlio di Tullus », Marcena « figlio di Marce ». L'innovazione di queste lingue rispetto al greco (o al venetico), consiste nel fatto di aver reso fisso e trasmissibile il patronimico, che in greco (e in venetico) muta invece in ragione della genealogia: la successione genealogica del tipo Cleante-Cleonimo-Cleandro darà in greco «Cleonimo figlio di Cleante» e « Cleandro figlio di Cleonimo », laddove in latino la successione genealogica Tullus-Marcus-Titus darà « Marcus Tullius » e «Titus Tullius».
Per quanto riguarda la vita pubblica e l'assetto istituzionale degli Etruschi, la documentazione diretta in nostro possesso comincia ad essere soddisfacente quasi soltanto a partire dal IV secolo a. C. Tuttavia per i periodi precedenti, accanto alle frammentarie, episodiche e talvolta confuse informazioni degli autori antichi, ci soccorrono per via indiretta le verosimili analogie e i parallelismi con il mondo greco e con quello romano.
Certamente, al tempo delle aggregazioni proto urbane dei villaggi e delle nascenti città, la massima carica politica era quella del re, espressione dell'aristocrazia agraria. Non sappiamo però con esattezza se tale carica fasse a vita oppure temporanea, in modo da configurare il personaggio che la rivestiva come una sorta di "magistrato supremo" dotato dei pieni poteri politici, militari e religiosi, anche se quasi certamente assistito da un "senato", formato dai capi delle famiglie aristocratiche e forse anche da un"'assemblea" costituita da tutti i cittadini aventi diritti politici.
Il re etrusco, secondo gli scrittori antichi, si sarebbe chiamato "lucumone" e avrebbe avuto come simbolo del suo potere particolari "insegne" quali la veste di porpora intessuta d'oro e il mantello pure di porpora ornato di ricami, la corona d'oro e lo scettro sormontato da un'aquila, il trono d'avorio. Gli stessi autori ci dicono che era nell'uso etrusco «far precedere il re da un littore che portava una scure tenuta insieme da un fascio di verghe» e che tutte le insegne e i simboli regali erano poi passati ai Romani (si può pensare durante il periodo della "dinastia etrusca" dei re Tarquini). Particolarmente interessante è il problema delle origini del fascio littorio. La più antica rappresentazione dei fasci senza scure si incontra in un rilievo chiusino, conservato al Museo di Palermo, che si data nella prima metà del V secolo a.C.: cade quindi ogni ipotesi che i littori e i fasci al seguito dei magistrati etruschi nelle città federate — quali appaiono ad esempio nei sarcofagi tarquiniesi — siano un'imitazione delle costumanze di Roma. Ora il caso ha voluto che, scavandosi in una tomba arcaica della necropoli di Vetulonia, venisse alla luce un oggetto composto di più elementi di ferro ossidato, nel quale I. Falchi ha riconosciuto un fascio formato da piccole verghe cave e di un'ascia a doppia lama. Il reperto (della seconda metà del VII secolo a.C.), disgregato nella rimozione e nel trasporto, fu ricomposto nel Museo Archeologico di Firenze dove è tuttora visibile ed è stato interpretato come un fascio. Ma la coincidenza più singolare sta nel fatto che Silio Italico attribuisce proprio ai Vetuloniesi l'invenzione dei fasci: abbiamo in questo caso un fortunato esempio di corrispondenza tra tradizioni letterarie e scoperte archeologiche.
Nella seconda metà del secolo VI a.C., in coincidenza con il definitivo assetto della città-stato, il regime monarchico potrebbe essersi almeno in parte modificato. Sulla scorta di quanto sappiamo a proposito del mondo greco, sia della madre patria sia delle colonie d'Italia, è molto probabile, infatti, che in alcune città etrusche alla figura del re tradizionale si sia sostituita quella del "signore". Questi, come il "tiranno" greco, potrebbe aver esercitato un potere di tipo personale eventualmente raggiunto, anche dall'esterno, con la forza e in contrasto con l'aristocrazia. Infatti è proprio nel corso del VI sec. a.C. che nelle città etrusche assistiamo alla nacita, documentata dal carattere egualitario delle tombe e dall'impiego generalizzato del gentilizio, di una fascia di popolazione apparentemente dotata di parità di diritti e relativamente abbiente che possiamo assimilare al demos greco. È possibile quindi che, nella sua ascesa al potere, il "tiranno" abbia trovato l'appoggiodi questo "ceto medio" che aveva la necesità di opporsi alle aristocrazie.
Tra il VI e il V secolo a.C., nel contesto di un fenomeno internazionale che con sviluppi e soluzioni sostanzialmente analoghi riguarda il mondo etrusco e quello greco, il mondo latino e quello fenicio-cartaginese, gli ordinamenti delle città etrusche subiscono una crisi sfociata nella costituzione di nuove forme di governo di tipo repubblicano. Gli studiosi discutono se ciò possa essersi verificato attraverso un'innovazione improvvisa, come attesterebbe la tradizione per Roma con la "cacciata" dell'ultimo re Tarquinio il Superbo, nel 510/9 a.C., e l'instaurazione della repubblica; o piuttosto, come pare piú probabile, con una sorta d'evoluzione continua, che dal progressivo svuotamento dell'istituto monarchico, magari anche attraverso fasi di governi personali (come quelli del "signore") e di dittature militari, giunge all'attribuzione e alla divisione dei poteri a magistrati elettivi e temporanei.
Quel che è certo è che nel corso del secolo V a.C. (salvo la sopravvivenza o il ritorno temporaneo di re, come sembra testimoniato per qualche città; cfr. Storia degli Etruschi, pag. 202 e segg.) la repubblica oligarchica è la forma istituzionale prevalente e destinata a generalizzarsi. Al vertice dello stato repubblicano, che è quello da noi meglio conosciuto, c'è una magistratura suprema a cui compete il potere esecutivo e giusdicente. Essa è eletta probabilmente ogni anno tra i membri di una vera e propria "classe di governo", formata dagli esponenti delle famiglie aristocratiche (gentes) che gli autori latini chiamano princeps e che nel loro insieme costituiscono un'assemblea corrispondente al senato romano.
Tale magistratura, cui s'accedeva anche in età molto giovane e che poteva essere rivestita piú volte, è indicata in etrusco con il termine di zilach (o zilch oppure zilath) che ha valore di "guida", "capo", "condottiero" e corrisponde al latino praetor, "pretore" (letteralmente, "colui che va avanti"). Non sappiamo però con certezza se essa fosse attribuita a una sola persona oppure se fosse (come era a Roma) di tipo collegiale. Tuttavia la constatazione che il titolo di zilach è spesso accompagnato da un attributo, che induce a supporre una specificità di funzioni diverse, fa propendere per l'esistenza di un vero e proprio "collegio", all'interno del quale uno dei membri poteva anche essere in posizione di preminenza: una sorta di "presidente", eventualmente designato con il termine di zilach privo di attributi. Un'iscrizione di Tarquinia, databile a poco dopo la metà del secolo IV a.C., menziona certamente due magistrati di pari grado che esercitano insieme la funzione di zilach, dando il loro nome all'anno in cui rivestirono la magistratura così come avveniva a Roma, dove per l'appunto gli anni erano indicati via via con i nomi dei rispettivi due consoli in carica. Ciò significa pure che la magistratura stessa, oltreché collegiale, era annuale e quindi anche elettiva.
C'è da dire, inoltre, che la magistratura suprema doveva essere in ogni caso affiancata da magistrature inferiori o secondarie, testimoniate da altri titoli che si riconoscono nelle iscrizioni e alle quali erano demandate, ancora una volta come a Roma, funzioni soprattutto di carattere amministrativo. Tra gli altri ricordiamo i maru che avevano funzioni religiose e politiche ed erano forse simili agli edili romani. I magistrati secondari erano certamente riuniti in collegi, a capo di ciascuno dei quali era preposto uno zilach.
Gli ordinamenti e le istituzioni politiche fondamentali (di cui al § 3) e le diverse fasi della loro evoluzione caratterizzano in linea generale, sia pure con talune varianti e qualche sfumatura d'ordine cronologico, le singole città etrusche che sembrano configurarsi come città-stato. Fin dal periodo arcaico, infatti, l'Etruria sembra organizzata secondo il sistema della città-stato proprio delle contemporanee colonie greche e fenicie d'occidente, vista la coesistenza di diversi centri di grande importanza a poca distanza l'uno dall'altro, come Veio, Caere, Tarquinia, Vulci, con propri poteri, caratteristiche e costumanze. È probabile che con il procedere del tempo le singole città sovrane si siano aggregate un territorio più o meno vasto, sottomettendo altre città rivali, come vediamo in atto nella più antica storia di Roma; ma non è escluso che alcune delle città conquistate possano aver conservato una parziale autonomia o siano state legate da rapporti di alleanza con i dominatori (il che potrebbe spiegare l'esistenza di centri di media importanza specialmente nell'Etruria interna, come Nepi, Sutri, Blera, Tuscania, Statonia, Sovana, ecc., nei territorio delle maggiori città, cioè di Veio, Tarquinia, Vulci).
Gli abitanti dei territori sottomessi a queste grandi città vengono indicati con il termine latino populi, il cui nome ufficiale è però quello degli abitatori delle città dominanti: Veienti, Tarquiniesi, Ceretani…
Il centro della vita politica e culturale dell'Etruria è dunque da ricercare nelle grandi città dominanti, di cui possediamo gli splendidi resti, e che all'epoca della conquista romana sono certamente Caere, Tarquinia, Vulci, Roselle, Vetulonia, Populonia, Volsinii, Chiusi, Perugia, Cortona, Arezzo, Fiesole, Volterra; Veio era stata annessa al territorio romano già dall'inizio del IV secolo. Nuclei abitati fiorenti in età arcaica, quali Acquarossa, Bisenzio, Marsiliana d'Albegna (Caletra?) e la stessa Vetulonia, decadono più tardi: altre città si svilupperanno soltanto alla fine della civiltà etrusca, sotto il dominio di Roma, quali Siena, Firenze, Pisa, Luni.
Ogni città-stato o città capitale (caput) di uno stato costituisce un mondo politicamente ed entro certi limiti culturalmente a sé stante (si pensi ad esempio alla specializzazione dei prodotti artistici, per cui tra le altre Tarquinia eccelse soprattutto per la pittura funeraria, (Caere per l'imitazione dell'architettura interna delle tombe, Vulci per i bronzi e per la scultura, e così di seguito). Gestione interna, politica esterra, commerci, eventuali imprese navali dovettero essere autonome come nelle poleis della Grecia arcaica e classica.
Tuttavia esistono altri indizi, sempre delle fonti, che ci indirizzano verso il ricordo di un tipo di associazione delle città etrusche per la quale si è usato modernamente il termine di lega o di federazione.
Dobbiamo chiederci quale sia l'effettiva natura di quest'ultima istituzione, che ha dato luogo a discussioni tra gli studiosi. L'esistenza di forme associative tra diverse comunità autonome è un fatto ben noto nel mondo antico, in Grecia come in Italia, sia pure con diverse caratteristiche a seconda dei tempi e dei luoghi; né può quindi destare meraviglia. Per l'Etruria gli scrittori antichi non usano, a quanto ci consta, un termine specifico per indicare l'associazione stessa; ma parlano dei duodecim populi, dei duodecim (o quindecim) populi Etruriae, o semplicemente di Etruria, di omnis Etruria.
Di questa "lega" facevano infatti parte dodici città-stato (che diventeranno quindici in epoca romana): Cere, Tarquinia, Vulci, Roselle, Vetulonia, Volsinii, Chiusi, Cortona, Arezzo, Perugia, Volterra e Veio. Quest'ultima, distrutta dai Romani nel 396 a.C., fu poi sostituita da Populonia.
Il numero dodici delle grandi città dell'Etruria propria — alle quali facevano riscontro altrettante della Etruria padana e della Campania — ha probabilmente un carattere rituale: come in altri casi analoghi del mondo antico, e forse, ma non necessariamente, per analogia con le dodici città della lega ionica (considerati i legami culturali fra Etruria e Ionia asiatica nel corso del VI secolo a.C.). Che si tratti per altro non soltanto di uno schema ideale, ma di una reale istituzione politica dotata di una certa continuità e di potere soprastatale, può dedursi da alcuni riferimenti di scrittori antichi: ad esempio dal passo di Servio (ad Aen., VIII, 475), nel quale è detto che l'Etruria aveva dodici lucumoni, o re, dei quali uno era a capo degli altri, o gli accenni di Livio (IV, 23; V, 1; X, 16, ecc.) ad una adunanza di consultazione annuale o comunque periodica (concilium), tenuta al Fanum Voltumnae, durante la quale i capi (principes) degli stati etruschi eleggevano tra di loro un re (Livio, I, 8, 2; V, 1) al quale gli altri fornivano il proprio littore per i fasci. È interessante notare che in queste due testimonianze si parla di re: ci si riferisce cioè preferibilmente ad epoca arcaica. Ma in altro passo di Livio si parla di un capo elettivo della comunità degli Etruschi, il quale alla fine del V secolo — cioè all'epoca del conflitto tra Veio e Roma — era un personaggio designato con il titolo di sacerdos, e perciò dotato di poteri eminentemente religiosi (o ridotti alla sola sfera religiosa). La carica di sacerdos è possibile che coicida con quella del praetor Etruriae che appare anche nella forma praetor Etruriae XV populorum (cioè della lega etrusca che in età romana pare accresciuta di tre città) in alcune iscrizioni latine di età imperiale.
Se le notizie relative alla supremazia di uno degli antichi sovrani delle città etrusche (Servio, ad Aen., VIII, 475) e alla elezione di un supremo magistrato annuale (Livio, I, 8, 2; V, 1), non sono del tutto prive di fondamento, si potrebbe arrischiare l'ipotesi che una forma originaria di legame unitario esistesse fra gli Etruschi del sud all'inizio dei tempi storici, sotto l'egemonia di una città sulle altre. Più tardi questa antica unità avrebbe assunto il carattere di associazione religiosa (come dimostra l'esistena del sacerdos), commerciale e politica, con feste e adunanze nazionali nel santuario di Voltumna presso Volsinii.