Alla caduta della monarchia, Roma, secondo la tradizione letteraria, controllava nell’antico Lazio, un territorio che si estendeva dal Tevere alla regione pontina, grazie alle conquiste, ma anche all’accorta politica matrimoniale condotta dai re etruschi.
Ciò è confermato dal primo trattato romano-cartaginese che si conosca e risalente, secondo Polibio, al primo anno della Repubblica (509 a.C.). In questo documento i Cartaginesi si impegnavano a non attaccare le città di questo territorio soggette a Roma, mentre per quanto concerneva le città latine non soggette a Roma, se un esercito punico le avesse conquistate, avrebbe dovuto consegnarle all’alleato.
Tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C., questa lunga e faticosa realizzazione rischiò seriamente di crollare: buona parte delle città latine approfittarono infatti delle difficoltà interne di Roma per ribellarsi alla sua egemonia, stringendosi in una lega (Lega latina) i cui membri condividevano alcuni diritti, forse ricordo di un’originaria unità etnica del popolo latino:
Così nel 496 a.C. la Lega latina attaccò Roma nella leggendaria battaglia del lago Regillo. Secondo la versione ufficiale, riportata da Tito Livio, i Romani uscirono vincitori ma è più probabile che lo scontro abbia avuto esito incerto. Infatti, in seguito ad essa, tra Roma e la Lega latina fu stipulato, nel 493 a.C., un trattato bilaterale siglato dal console di quell’anno Spurio Cassio e dunque noto come trattato Cassiano (foedus Cassianum). In base ad esso entrambe le parti si impegnavano non solo a mantenere la pace, ma anche a prestarsi aiuto nel caso una delle due parti fosse stata attaccata con l’esercito comune comandato, ad anni alterni, da un generale romano e da uno latino; l’eventuale bottino delle campagne di guerra comuni sarebbe stato equamente suddiviso.
Nel 486 a.C. Roma strinse un accordo anche con gli Ernici, una popolazione che abitava la valle del fiume Sacco, a sud-est di Roma, in un territorio incuneato tra i due popoli ostili degli Equi e dei Volsci. I termini dell’alleanza con gli Ernici sarebbero stati gli stessi del trattato cassiano.
L’alleanza stretta da Roma con la Lega latina e gli Ernici si rivelò particolarmente preziosa per fronteggiare la minaccia proveniente da tre popolazioni appenniniche: gli Equi, i Volsci e i Sabini che premevano verso occidente, in direzione di Roma, alla ricerca di terre meno povere. Le fonti riportano per il V secolo a.C. una serie interminabile di conflitti tra Roma e queste popolazioni montanare. Spesso l’esito fu favorevole a Roma e ai suoi alleati, ma mai si giunse ad una svolta definitiva. È lecito pensare che, piuttosto che di vere e proprie campagne di guerra su vasta scala, si sia trattato di razzie o scaramucce che videro impegnati da una parte e dall’altra pochi armati.
Se, per bloccare l’avanzata delle popolazioni appenniniche, Roma poté contare sul decisivo aiuto di Latini ed Ernici, essa si trovò a fronteggiare da sola un esercito assai meglio organizzato col quale confinava a settentrione: la potente città etrusca di Veio, situata a circa 15 km a nord di Roma e sua rivale nel controllo delle vie di comunicazione lungo il basso corso del Tevere e delle saline che si trovavano alla foce del fiume.
Il contrasto tra Roma e Veio attraversò tutto il V secolo a.C. per concludersi solo all’inizio del secolo seguente (396 a.C.), con la sconfitta della città etrusca che i Romani conquistarono sotto il comando del dittatore Furio Camillo. Con ciò era iniziata l’espansione romana al di fuori del Latium vetus; essa però fu subito interrotta da un episodio che rischiò di spezzare sul nascere la potenza romana: vale a dire l’invasione dei Galli.
Nei decenni precedenti, secondo una cronologia che è stata oggetto di infinite discussioni, diverse tribù galliche si erano insediate nell’Italia settentrionale. L’ultima tribù ad entrare in Italia sarebbe stata quella dei Senoni, che avrebbero occupato il territorio più meridionale, più tardi noto come ager Gallicus, corrispondente alla Romagna meridionale e alle Marche settentrionali. Nel 390 a.C., secondo la cronologia varroniana, proprio i Senoni invasero l’Italia centrale e attaccarono Roma, in cerca di nuove sedi secondo le fonti antiche, assai più probabilmente per una semplice spedizione di razzia secondo gli studiosi moderni.
Il loro primo obiettivo fu la città etrusca di Chiusi; da qui essi si diressero su Roma. L’esercito romano frettolosamente arruolato per affrontarli, più che essere sconfitto, si dissolse letteralmente al primo contatto avvenuto sull’Allia, un piccolo affluente del Tevere, e si rifugiò tra le rovine di Veio. Roma, rimasta priva di difese, venne presa e saccheggiata. Poi i Galli, paghi del bottino conquistato e, forse, del riscatto pagato loro dai Romani, scomparvero tanto rapidamente quanto erano comparsi, forse in cerca di nuove imprese.
La prova migliore che l’invasione gallica fu un evento certo traumatico, ma con conseguenze meno gravi di quelle che le fonti antiche lasciano intendere, è costituita dal rapido sviluppo che subì Roma a partire dal 390 a.C. Le ragioni di esso furono molteplici: in primo luogo il consolidamento delle istituzioni politiche; poi la stabilizzazione della situazione interna con il placarsi dello scontro tra patrizi e plebei grazie alla redazione delle leggi Licinie Sestie; inoltre il declino delle città greche, che cadevano una dopo l’altra nelle mani delle popolazioni italiche, aprì uno spazio in cui Roma poté agire e svilupparsi; infine gli effetti positivi delle vittorie precedenti, in particolare della conquista e della distribuzione ai cittadini romani del vasto e fertile territorio di Veio. È forse proprio in questi anni che si iniziò la costruzione delle cosiddette mura serviane (così chiamate perché attribuite dalla tradizione a Servio Tullio): un’imponente cinta muraria, che si rivelò negli anni seguenti decisiva per scoraggiare ogni velleità d’assedio da parte di invasori come Pirro e Annibale, e che abbracciava un’estensione vastissima a dimostrazione di come Roma fosse senza dubbio la città più grande dell’Italia centrale già in quel periodo.
L’atteggiamento di Roma in questo periodo fu decisamente offensivo e rivolto alla conquista dell’Italia centro-meridionale. Già pochi anni dopo il sacco della città da parte dei Galli, gli Equi furono annientati. Stessa sorte toccò alla città latina di Tusculo che venne annessa al territorio romano, senza tuttavia che la sua identità venisse cancellata. La città conservò le sue strutture di governo e la sua autonomia interna, ma ai suoi abitanti vennero assegnati i medesimi diritti e doveri dei cittadini romani; in altre parole Tusculo divenne il primo municipium, termine col quale saranno designate le comunità indipendenti incorporate nello Stato romano. Inoltre Roma inflisse varie sconfitte ai tradizionali nemici dei Volsci, che furono costretti a cedere parte dei loro territori ma che comunque resistettero grazie anche all’inaspettato appoggio di alcuni vecchi alleati di Roma, gli Ernici e alcune città latine, forse stanchi di un’alleanza in cui Roma giocava ormai un ruolo egemone.
Così tra Romani e Latini si sviluppò una rivalità che culminò in un conflitto noto come grande guerra latina (341-338 a.C.). L’andamento delle operazioni nelle fonti appare incerto, ma alla fine il successo arrise ai Romani. Gli esiti della guerra si rivelarono decisivi per l’organizzazione di quella che si avviava a diventare l’Italia romana.
Nella sua espansione verso sud Roma dovette inevitabilmente scontrarsi con un’altra importante popolazione appennica: quella dei Sanniti. La posizione di potere raggiunta da Roma nel Lazio meridionale aveva già portato nel 354 a.C. ad un trattato tra Romani e Sanniti che stabiliva nel fiume Liri il confine tra le sfere di influenza delle due popolazioni.
I Sanniti occupavano un’area assai più vasta di quella controllata in quegli anni da Roma. Essa si estendeva lungo la catena appenninica centro-meridionale, tra i fiumi Sangro e Ofanto: un territorio prevalentemente montuoso e povero, incapace di sostenere una forte crescita demografica. L’unico rimedio a ciò, come abbiamo già visto, era quello di migrare verso terre più fertili: così, nel corso del V secolo a.C., alcuni gruppi di popolazione si erano allontanati ed avevano occupato le ricche regioni costiere della Campania. Qui sotto l’influenza di Etruschi e Greci, si erano allontanati progressivamente, dal punto di vista culturale e politico, dai loro connazionali rimasti nel Sannio, adottando tra l’altro l’organizzazione politica della città-stato. Alcune di esse erano riunite, nella prima metà del IV secolo a.C., in una Lega campana, che aveva il suo centro principale nella città di Capua. Nonostante le affinità etniche, i contrasti politici tra Sanniti e Campani si vennero sempre più acuendo.
La tensione sfociò in guerra aperta nel 343 a.C., quando i Sanniti attaccarono la città di Teano, nella Campania settentrionale, occupata da un’altra popolazione osco-sabellica, i Sidicini. Costoro chiesero aiuto alla Lega campana, la quale, a sua volta incapace di fronteggiare l’offensiva dei Sanniti, chiese l’aiuto di Roma. La decisione di intervenire contro i Sanniti, contravvenendo al trattato appena concluso, è probabile che sia stata dettata dalla volontà di impadronirsi della regioni più ricca e fertile d’Italia.
La prima guerra sannitica (343-341 a.C.) si risolse rapidamente con un parziale successo dei Romani, che già nel primo anno di guerra sconfissero il nemico a Capua, costringendolo a togliere l’assedio della città. Roma d’altra parte non fu in grado di proseguire energicamente l’offensiva a causa di una rivolta dell’esercito impegnato in Campania ed allo scontro con i Latini (vedi supra), dunque acconsentì alle richieste di pace avanzate dai Sanniti nel 341 a.C.: il trattato rinnovava l’alleanza del 354 a.C.
La fondazione delle colonie di diritto latino a Cales, nel 334 a.C., e Fregellae, nel 328 a.C., fu una grave provocazione nei confronti dei Sanniti, che rivendicavano quei territori, e provocò una nuova crisi nei rapporti tra le due potenze. Ma la causa concreta di quella che viene definita come seconda guerra sannitica (326-304 a.C.) é da ricercare nelle divisioni interne di Napoli, l’ultima città greca della Campania rimasta indipendente, dove da tempo però invasori sanniti si erano infiltrati tra gli originari abitanti greci sostenuti dalla plebe ma invisi all’aristocrazia che per libararsene promosse la guerra chiedendo l’aiuto dei Romani. Una situazione che vedremo regolarmente presentarsi nelle città coinvolte nei conflitti seguenti tra Roma e i suoi avversari. I Romani riuscirono abbastanza rapidamente a sconfiggere la guarnigione che i Sanniti avevano installato a Napoli e a conquistare la città, ma il tentativo di penetrare a fondo nel Sannio si risolse in un fallimento: nel 321 a.C. gli eserciti romani vennero imbottigliati in una stretta gola al passo delle Forche Caudine e costretti alla resa. Dopo tale disastro per qualche anno vi fu un’interruzione delle operazioni militari, anche se non è chiaro se fosse stata siglata una vera e propria pace o solamente una tregua momentanea.
Le ostilità si riaccesero dal 316 a.C. quando si susseguirono una serie di battaglie dall’esito alterno. Lo scontro decisivo, cioè la terza guerra sannitica (298-290 a.C.), si aprì però nel 298 a.C., quando i Sanniti attaccarono i Lucani, con i quali confinavano a meridione. I Romani accorsero prontamente in aiuto degli aggrediti, con i quali forse conclusero un trattato, ma i destini della guerra si dovevano decidere a nord.
Qui il comandante supremo dei Sanniti, dopo una marcia di centinaia di chilometri con il suo esercito, era riuscito a mettere in piedi una potente coalizione antiromana che comprendeva anche gli Etruschi, i Galli e gli Umbri, una popolazione che aveva toccato con mano la minaccia costituita da Roma nelle operazioni condotte nell’Etruria interna nel 311-308 a.C. Lo scontro decisivo avvenne nel 295 a.C. a Sentino, ai confini tra le attuali regioni dell’Umbria e delle Marche, e si risolse con una strepitosa vittoria romana.
I Sanniti furono battuti in una battaglia campale ad Aquilonia nel 293 a.C. e costretti ad assistere impotenti alla devastazione del loro territorio, chiesero la pace nel 290 a.C.
Una nuova offensiva da nord vide alleati Galli ed Etruschi che però furono sconfitti nel 283 a.C. presso il lago Vadimone. La controffensiva romana colpì duramente, prima le città dell’Etruria meridionale (tra le quali Vulci, Volsinii e Cere), poi raggiunse l’Etruria settentrionale e la vicina Umbria.
Roma si spinse anche nelle regioni adriatiche settentrionali sconfiggendo Sabini, Pretuzzi e Piceni; vittorie che portarono alla fondazione delle colonie di Hadria, Rimini e Fermo. Ora Roma possedeva un territorio assai vasto e costrinse i vari popoli ad alleanze simili a quelle che abbiamo visto per i latini.
Nel Mezzogiorno d’Italia la situazione era ancora abbastanza incerta. I Sanniti erano prostrati, ma non definitivamente domati, alcune popolazioni loro affini, come in particolare i Lucani e i Bruzi, conservavano la loro indipendenza, così come la più ricca e potente greca dell’Italia, Taranto. Secondo un trattato risalente agli ultimi decenni del IV secolo a.C., Roma si era impegnata a non oltrepassare con le sue navi da guerra il capo Lacinio, poco a sud di Crotone, e dunque a non penetrare nelle acque del golfo di Taranto.
Tuttavia, nel 282 a.C., col pretesto di portare aiuto alla città greca di Turi minacciata dai Lucani, una piccola flotta romana entra nel golfo di Taranto: la reazione dei Tarantini, che distruggono o catturano le navi, scatena la guerra tarentina (282-272 a.C.). La città greca chiama in aiuto Pirro, re dell'Epiro, che, sperando di costituirsi un dominio in Italia, sbarca un esercito di 20 mila fanti, 3 mila cavalieri e 26 elefanti (impiegati in Oriente ma sconosciuti in Occidente). A Pirro si uniscono Lucani, Bruzzi e Sanniti, che battono i Romani terrorizzati dai pachidermi a Eraclea Lucana (280 a.C.) e ad Ascoli Satriano, in Puglia (279 a.C.), dove Pirro, nonostante la vittoria, subisce perdite ingentissime (da qui il detto "vittoria di Pirro").
Nonostante queste due grandi vittorie, Pirro non riusciva a concludere la guerra. Protetta dalle sue mura e forte dell’immenso potenziale umano fornito dai Latini e dagli altri alleati dell’Italia centrale, Roma sembrava in grado di poter resistere all’infinito, mentre i rapporti tra l’epirota e i suoi alleati dell’Italia meridionale si andavano deteriorando, soprattutto a causa delle pesanti richieste finanziarie che Pirro era stato costretto ad imporre per mantenere il suo esercito e colmare le perdite con truppe mercenarie.
Non essendo riuscito a piegare la resistenza di Roma, l’anno successivo Pirro si trasferì in Sicilia, dove era stato chiamato dai Siracusani per combattere i Cartaginesi; ma dopo alcuni successi iniziali, il re fu abbandonato dai suoi alleati che vedevano ormai in lui un futuro e sgradito dominatore visti i modi autoritari che mostrava.
Pirro fu dunque costretto a tornare in Italia, dove i Romani, approfittando della situazione, stavano riconquistando posizioni su posizioni. Lo scontro decisivo avvenne nel 275 a.C. a Malevento, che da allora i Romani ribattezzarono Benevento per l’esito positivo della battaglia.
Il re dei Molossi capì che la partita era perduta: per non dare l’impressione di aver completamente abbandonato gli alleati lasciò una guarnigione a Taranto, ma decise comunque di far ritorno in Epiro con la maggior parte del suo esercito. Lanciatosi in nuove imprese militari in Grecia, Pirro morì nel 272 a.C. in una scaramuccia per le vie di Argo. In quello stesso anno Taranto, disperando ormai di poter resistere, si arrese, entrando nel novero dei socii di Roma.
Per lo storico greco Polibio (205-123 circa a.C.) la costituzione della repubblica romana presenta un singolare e interessante aspetto che la differenzia da tutte le forme di governo in vigore presso gli altri popoli: non è monarchica, né aristocratica, né democratica, sebbene i consoli detengano l’imperium proprio dei re, il Senato, quale organo dell’aristocrazia, diriga e amministri la vita pubblica, e il popolo esprima la propria volontà nei comizi o assemblee popolari.
L’ordinamento politico romano si può quindi definire una «costituzione mista» che si articola in un complesso meccanismo di poteri contrapposti ma complementari, con la finalità di stornare il pericolo dell’affermazione di una tirannide e di garantire stabilità e continuità di governo. Si fondava su una struttura formata da un organismo direttivo (il senato), da sei magistrature ordinarie (consolato, pretura, censura, edilità, questura e tribunato), e da tre assemblee popolari (i comizi curiati, centuriati e tributi): vi erano poi numerose cariche collegiali inferiori e alcune magistrature straordinarie, di cui la più importante era la dittatura, cui si faceva ricorso nei momenti di particolare necessità per lo Stato. Analizziamo ora le singole competenze.
Il senato era l’organo direttivo della politica romana, di cui tracciava le fondamentali linee programmatiche per garantire continuità di indirizzo e stabilità di governo allo Stato. I senatori erano creati a vita e l’ammissione al senato era affidata prima ai consoli poi ai censori ma vi accedevano di diritto tutti gli ex magistrati a partire dai questori. La durata vitalizia della carica costituì la principale forza dei senatori che poterono dispiegare la loro politica con continuità d’azione. Dal momento poi che il senato era composto da ex magistrati, questi non avevano alcun interesse ad agire in contrasto con l’assemblea di cui stavano per entrare a far parte. Nel senato insomma si concentrò l’esperienza politica della Repubblica e trovò espressione continuativa e compiuta la leadership politica dell’élite sociale ed economica di Roma, costituita prima dal patriziato e in un secondo momento dalla nobiltà (nobilitas) patrizio-plebea.
Le competenze del senato si estendevano a tutti i campi della vita dello Stato: in ambito legislativo discuteva, interpretava e approvava in forma preventiva i progetti di legge da presentare ai comizi. In ambito esecutivo era suo compito dichiarare in situazioni di emergenza, lo stato d’assedio con la nomina del dittatore o conferire ai consoli poteri straordinari, simili a quelli del dittatore con un’eccezionale deliberazione (senatus consultum ultimum) con cui venivano sospese le funzioni di tutte le magistrature ordinarie. In campo militare il senato stabiliva il reclutamento o lo scioglimento dell’esercito, ne fissava il bilancio, divideva le province e i contingenti tra i comandanti, decretava il trionfo per i generali vittoriosi (imperatores). Dirigeva inoltre la politica estera poiché aveva diritto di dichiarare guerra, di concludere trattati di pace o di alleanza e di stringere rapporti diplomatici coi paesi stranieri. In campo finanziario controllava l’erario e i beni dello Stato, redigeva il bilancio e svolgeva un’attenta azione di sorveglianza del pubblico.
Nella repubblica romana la «sovranità» apparteneva, almeno per principio al popolo che non la esercitava però direttamente ma la trasmetteva e conferiva ai magistrati. Pertanto per eleggerli e per accettare o rifiutare una legge, dal momento che la proposta (rogatio) spettava ad un magistrato, il popolo si riuniva in tre forme di pubbliche assemblee (comitia): i comizi curiati, centuriati e tributi, a seconda che i cittadini fossero convocati per curie, per centurie o per tribù. Non tutta la popolazione dello Stato romano però poteva far parte di questi organismi, che erano riservati ai maschi adulti di libera condizione e in possesso del diritto di cittadinanza. che comportava vari diritti politici e civili: votare nei comizi, candidarsi alle cariche pubbliche, acquistare proprietà sul suolo romano, contrarre matrimonio valido, ereditare da altri cittadini ecc., ma dovevano pagare le tasse e prestare servizio militare. La cittadinanza romana (civitas) comprendeva un insieme di prerogative dissociabili, che si potevano avere in tutto o in parte. Ma solo colui che le possedeva tutte era cittadino completo (cives optimo iure). Il diritto di cittadinanza completo comprendeva da un lato i diritti civili: lo ius connubii (diritto di sposarsi regolarmente)
I comizi curiati, la cui istituzione risaliva all’età regia, costituiva la più antica forma di assemblea a cui partecipavano solo i membri delle gentes patrizie atti alle armi, suddivisi in 30 curie risalenti alla ripartizione del popolo romano – operata da Romolo – in tre tribù (Ramnes, Tities e Luceres), ognuna delle quali era divisa in 10 curie. Mentre in età regia questi comizi, pur avendo carattere consultivo, si esprimevano sulle più importanti questioni dello Stato, in età repubblicana persero d’importanza e si mantennero solo per esplicare tradizionali atti formali quali il conferimento dell’imperium ai magistrati eletti dai comizi centuriati.
I comizi centuriati erano l’assemblea di tutti i cittadini che avessero compiuto 17 anni, militarmente ordinati in centurie, sulla base della riforma che la tradizione attribuiva a Servio Tullio ma che storicamente si fa risalire al primo periodo della repubblica. Il permanente stato di guerra della città in espansione aveva infatti reso necessario ampliare la base del reclutamento, suddividendo, in base al censo, tutto il popolo romano in 5 classi, ripartite a loro volta in centurie, così chiamate perché dovevano fornire ciascuna 100 uomini all’esercito.
La classe dei cavalieri e la prima classe, che erano anche le più ricche dal momento che vi appartenevano coloro che possedevano un capitale non inferiore a 100.000 assi (monete di rame), erano divise, rispettivamente, in 18 e 80 centurie, la seconda, la terza e la quarta classe, cui appartenevano coloro che avevano un capitale non inferiore, rispettivamente, a 75.000, 50.000 e 25.000 assi, erano formate da 20 centurie ciascuna, la quinta, cui appartenevano coloro con un capitale non inferiore a 11.000 assi, era formata da 30 centurie, mentre i nullatenenti (capite censi, «censiti solo come individui») e i proletari (ricchi solo di prole) erano considerati al di sotto delle classi (infra classem) e costituivano le ultime 5 centurie.
Poiché nei comizi il popolo votava per centurie, risultava che se le classe dei cavalieri e la prima avessero votato compatte, come spesso avvenne, avrebbero potuto raggiungere da sole la maggioranza in quanto insieme costituiva ben 98 centurie sulle complessiva 193. Questo significa che le deliberazioni più importanti venivano di fatto prese dai cittadini più ricchi anche se costituivano una minoranza nella città. In compenso essi contribuivano in modo massiccio alle finanze pubbliche e fornivano il maggior numero di uomini all’esercito. I comizi centuriati, proprio per la loro struttura militare, si riunivano nel Campo Marzio, fuori dal pomerium, ed erano presieduti dai magistrati cum imperio. Spettava loro l’elezione dei magistrati superiori e probabilmente l’approvazione delle leggi e la decisione in ultima istanza sulle dichiarazioni di guerra o sulle trattative di pace.
I comizi tributi rappresentavano la forma più completa di assemblea popolare poiché ad essi partecipavano tutte le categorie di cittadini suddivisi in tribù territoriali, in base al luogo di abitazione che, secondo la tradizione erano state istituite da Servio Tullio.
Nati probabilmente in seguito alla secessione della plebe del 494 a.C. con il nome concilia plebis («adunanze della plebe»), in quanto inizialmente vi partecipavano i soli plebei, tali assemblee acquistarono successivamente una sempre maggiore importanza e si trasformarono in veri e propri comizi (comizi tributi appunto) a cui partecipava tutto il popolo, compresi i patrizi, suddiviso in tribù e le loro deliberazioni (plebiscita) assunsero valore di leggi per tutti i cittadini nel 287 a.C. con la lex Hortensia.
Ad un primo sguardo il meccanismo di voto dell’assemblea tributa potrebbe apparire più democratico rispetto a quello vigente nei comizi centuriati dove i ricchi avevano una posizione di vantaggio. Di fatto, tuttavia, anche nei comizi tributi venne creandosi una forma di diseguaglianza: il numero delle tribù urbane, nonostante il forte aumento della popolazione della città di Roma, rimase sempre fissato al numero di 4, stabilito, secondo la tradizione, da Servio Tullio, mentre il numero delle tribù rustiche si accrebbe dalle 16 di età regia fino a raggiungere le 31 nel 241 a.C. In tal modo la popolazione delle campagne (o meglio, quei pochi abitanti delle campagne che avevano la possibilità ri recarsi regolarmente a Roma per prendere parte alle assemblee, essenzialmente i proprietari terrieri più ricchi) si trovò ad avere un peso maggiore rispetto alla popolazione urbana.
Anche i comizi tributi avevano funzione elettorale, scegliendo i magistrati inferiori e i tribuni della plebe, funzione legislativa, ed esercitavano il potere giudiziario nel caso in cui un cittadino, condannato ad una pena capitale, avesse fatto ricorso all’assemblea popolare (provocatio ad populum).
Con il termine magistratus si indicavano sia la carica sia la persona cui veniva ufficialmente conferito dalla comunità del popolo un pubblico potere e l'autorità per esercitarlo: i magistrati dunque detevano il potere esecutivo. Si dividevano in magistrati «ordinari» e «straordinanari» a seconda delle circostanze della loro nomina, e in magistrati cum imperio o sine imperio in base al tipo di potere che detenevano. I Romani infatti facevano una fondamentale distinzione tra la potestas, che era il potere conferito ad ogni magistrato relativo ai compiti inerenti la sua carica, e l'imperium o potere supremo che comportava il comando dell'esercito in guerra, l'interpretazione e l'applicazione della legge (compresa la condanna a morte) e il controllo amministrativo dello Stato. I magistrati cum imperio erano detti «superiori» (consoli, pretori, dittatori) quelli sine imperio, «inferiori» (questori, edili, tribuni della plebe ecc.).
Ttte le cariche repubblicane avevano caratteristiche comuni: erano elettive perché tutti i magistrati, tranne quelli straordinari come il dittatore e il magister equitum, erano eletti dai comizi curiati o tributi; erano temporali perché tutti i magistrati duravano in carica un anno (il dittore però veniva eletto per sei mesi e i censori per 18); erano collegiali perché ricoperte da due o più persone, perché le deliberazioni dovevano essere prese all'unanimità e perché il veto (intercessio) di un solo membro arrestava qualunque procedura dell’altro. Tutti i magistrati inoltre erano responsabili dei loro atti e al termine dei loro mandato dovevano render conto al censori della loro gestione.
Le cariche politiche (honores) proprio perché considerate «onori» venivano ricoperte gratuitamente dal cittadino che doveva quindi possedere un patrimonio che potesse garantire a lui e alla sua famiglia un tenore di vita confacente al rango: è questo uno dei motivi per cui il cursus honorum, cioè la carriera politica che procedeva per gradi prestabiliti dalla questura al consolato, era generalmente riservato a un ristretto gruppo di famiglie nobili o ricche (nobilitas).
L'accesso alle magistrature era però consentito solo ai cittadini liberi optimo iure, che godessero cioè della pienezza dei diritti civili e politici, mentre ne erano esclusi quelli minuto iure come i liberti e gli stranieri residenti a Roma (peregrini).
Con la cacciata dei Tarquini a Roma si concluse il periodo monarchico. La tradizione storiografica antica è concorde nell’affermare che i poteri un tempo del re sarebbero passati immediatamente e in blocco a due consoli. Eletti dai comizi centuriati, ai consoli spettava il comando dell’esercito, il mantenimento dell’ordine all’interno della città, l’esercizio della giurisdizione civile e criminale, il potere di convocare il senato e le assemblee (imperium); inoltre il consolato aveva anche funzione eponima.
I poteri autocratici di cui erano dotati i due consoli erano tuttavia sottoposti ad alcuni importanti limiti, che del resto sono caratteristici di tutte le magistrature ordinarie dello Stato romano: la durata della loro carica, limitata ad un anno (annualità), ed il fatto che ciascuno dei magistrati aveva eguali poteri (collegialità) e poteva dunque opporsi all’azione del collega qualora la giudicasse dannosa per lo Stato (diritto di veto = ius intercessionis). Un’ulteriore restrizione all’arbitrio dei consoli era costituita dalla possibilità per ogni cittadino di appellarsi al giudizio dell’assemblea popolare contro le condanne popolari inflitte dal console: si tratta della provocatio ad popolum.
La versione tradizionale sulla massima magistratura repubblicana è stata messa in dubbio da parte di alcuni studiosi i quali ritengono che, almeno in una prima fase, i poteri del re siano stati trasferiti ad un solo magistrato, eventualmente affiancato da alcuni assistenti; solamente all’indomani del Decemvirato del 450 a.C. o addirittura delle leggi Licinie Sestie del 367 a.C. sarebbe stata creata la magistratura collegiale del consolato, con due magistrati dotati di pari poteri.
Le crescenti esigenze dello Stato indussero alla progressiva creazione di nuove magistrature, che sollevassero i consoli da alcune delle loro competenze. Anche queste cariche furono caratterizzate dai fondamentali principi dell’annualità e della collegialità.
Vennero create così, nel corso del tempo, quattro magistrature. Al periodo regio o al primo anno della Repubblica risalirebbe la questura. Inizialmente con funzioni inquisitorie (da quaero, «indagare»), i questori assunsero poi la funzione di tesorieri dello Stato. Originariamente in due, furono portati ad otto nel 267 a.C., poi il loro numero aumentò ulteriormente fino a 40. Amministravano il pubblico erario, riscuotevano le imposte e i tributi, provvedevano alle spese dell’esercito. Secondo la tradizione, nel 443 a.C. il compito di tenere il censimento sarebbe stato sottratto alle compentenze dei consoli e affidato a due nuovi magistrati, i censori. Solo in seguito un provvedimento di discussa datazione, ma che va comunque inquadrato tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C., affidò ai censori anche la redazione delle liste dei membri del senato. Successivamente venne loro data la competenza di generale supervisione sulla condotta morale dei cittadini, la cura morum. Di regola questi magistrati venivano eletti ogni 5 anni e la loro carica durava, anziché un anno, 18 mesi. Dalla metà del IV secolo a.C. venivano eletti annualmente a Roma quattro edili: due curuli patrizi e due plebei (istituiti dopo la secessione della plebe) che svolgevano insieme funzioni di polizia urbana: sorvegliavano l’ordine pubblico, si occupavano degli approvvigionamenti, del mantenimento delle strade, templi ed edifici pubblici, esercitavano un particolare controllo sui mercati e organizzavano giochi e spettacoli pubblici. Nel 366 a.C. venne istituita la pretura. Dapprima c'è un solo pretore (praetor urbanus) che dirime le controversie fra cittadini romani, ma nel 242 a.C. deve venir affiancato da un collega (praetor peregrinus) che si occupi delle controversie fra cittadini romani e stranieri, o fra stranieri. Con l’incremento della popolazione, delle conquiste e dei processi il numero dei pretori crebbe fino a 16. Detenevano la più alta carica a Roma in assenza dei consoli e per tale motivo poteva essere loro conferito l’imperium, compreso il comando dell’esercito. Allo scadere del loro mandato ai pretori veniva generalmente assegnato il governo di una provincia in funzione di propretori (propraetores).
Un altra magistratura ordinaria, riservata però esclusivamente alla plebe, era il tribunato della plebe. Istituiti dopo la secessione della plebe sull’Aventino nel 494 a.C., i tribuni della plebe venivano scelti tra i plebei nati liberi e passarono da due a dieci nel corso dei secoli. Convocavano e presiedevano i comizi tributi. La loro persona era sacra e inviolabile (sacrosancta) e difendevano i diritti della plebe esercitando il diritto di veto (ius intercessionis) sulle deliberazioni degli altri magistrati ritenute lesive degli interessi della plebe.
Tra le magistrature straordinarie ricordiamo la dittatura. Eletto dai consoli stessi in casi di eccezionale pericolo esterno o interno per lo Stato, il dittatore assume il potere assoluto sulla città e il comando dell'esercito (imperium). Dura in carica sei mesi ed è assistito da un magister equitum («comandante della cavalleria) da lui personalmente scelto e a lui subordinato.
Il periodo in questione è un periodo caratterizzato, secondo le fonti, dallo scontro tra patrizi e plebei. Scontro dal quale nacquero le istituzioni che abbiamo descritto precedentemente e dal quale Roma conquistò l’egemonia sul Mediterraneo.
All’origine di questo scontro vi furono forti rivendicazioni da parte della plebe, che ebbero una duplice natura economica e politica.
Roma in questo periodo dovette affrontare una seria crisi economica che fu provocata da vari fattori:
Prova archeologia della crisi: crollano le importazioni di ceramiche greche nella prima metà del V secolo a.C.
La crisi colpì in particolar modo i piccoli agricoltori che, per sopravvivere, si dovettero indebitare nei confronti dei più ricchi proprietari terrieri. E spesso, incapaci di estinguere il proprio debito, si trovarono costretti a porsi al loro servizio per ripagarli del prestito e dei forti interessi maturati: è l’istituto del nexum che riduceva coloro che non erano in grado di estinguere il debito ad una condizione molto simile a quello dello schiavo. Talvolta potevano anche essere venduti in terra straniera o addirittura messi a morte.
Davanti alla crisi economica, le richieste della plebe concernevano:
Dal punto di vista politico, la plebe chiedeva una parificazione dei diritti politici in quanto le massime magistrature erano aperte solo ai patrizi e un codice scritto di leggi che ponesse i cittadini al riparo delle arbitrarie applicazioni delle norme da parte dei patrizi riuniti nel collegio dei pontefici cui spettava il potere legislativo.
Lo scontro si aprì nel 494 a.C.: la plebe, esasperata dalla crisi economica, risorse a quella che si rivelerà l’arma più efficace nel confronto tra i due ordini: una sorta di sciopero generale che lasciò la città priva della sua forza lavoro e, soprattutto, indifesa contro le aggressioni esterne. La plebe infatti si ritirò sul colle Aventino (secessione della plebe) dandosi propri organismi: un’assemblea generale (concilia plebis) che poteva emanare dei provvedimenti che prendevano il nome di plebiscita («decisioni della plebe») che naturalmente, per il momento, non avevano valore vincolante per lo Stato nel suo insieme, ma solamente per la plebe che li aveva votati. Solo nel 287 a.C. con la lex Hortensia i plebiscita furono equiparati completamente alle leggi votate dai comizi centuriati e dai comizi tributi.
Questa scissione della plebe terminò, secondo la tradizione, grazie alla mediazione del senatore Menenio Agrippa che favorì un accordo: i plebei avrebbero ogni anno nominato due magistrati (che in seguito salirono a dieci), i tribuni della plebe (vedi supra). Al consolato patrizio si contrappose così il tribunato della plebe che costituì la principale arma attraverso la quale sino alla fine della repubblica i plebei furono in grado di condizionare la politica romana.
La plebe, raggiunto questo risultato, continuava comunque a premere affinché fosse redatto un codice di leggi scritto contro l’arbitrio dei patrizi. Così, dopo alcuni anni di agitazione, nel 451 a.C. venne nominata una commissione composta da dieci uomini (nota perciò col nome di Decemvirato), esclusivamente scelti tra il patriziato e incaricati di stendere in forma scritta un codice giuridico. Nel corso del primo anno di attività i decemviri compilarono un complesso di norme che vennero poi pubblicate su dieci tavole esposte nel Foro.
Rimanevano tuttavia da trattare ancora alcuni punti: venne dunque eletta per il 450 a.C. una seconda commissione decemvirale nella quale, secondo le fonti, sarebbe stata rappresentat anche la plebe. Nel corso di questo secondo anno i decemviri avrebbero completato la loro opera con altre due tavole di leggi, portando il totale a dodici, il che spiega il nome di leggi delle XII Tavole col quale il primo codice legislativo di Roma divenne noto: tra le disposizioni vi era anche quella, criticatissima, che impediva i matrimoni misti tra patrizi e plebei. Tale disposizione, comunque, venne abrogata pochi anni dopo, nel 445 a.C.
Le richieste di ammissione alle magistrature e di distribuzione dell’ager publicus incontrarono molte più resistenze da parte della classe patrizia, la quale vedeva in queste concessioni una grave minaccia al proprio predominio.
Un importante passo in questo senso a favore della plebe venne compiuto nel 366 a.C. con le leggi Licinie Sestie (dal nome dei due tribuni che le proposero) che stabilivano:
Infine il passo decisivo fu compiuto nel 287 a.C. con la già ricordata lex Hortensia.
Le leggi Licinie Sestie e le grandi conquiste della plebe tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. chiusero per sempre l’età del dominio esclusivo dei patrizi sullo stato. Al posto del patriziato si venne progressivamente formando una nuova aristocrazia, formata dalle famiglie plebee più ricche ed influenti e dalle stirpi patrizi che meglio avevano saputo adattarsi alla nuova situazione, e unita da vincoli familiari, ideali e interessi comuni. A questa nuova élite si è soliti dare il nome di nobilitas, da nobilis, termine che aveva il significato originario di “noto, illustre” e che venne a designare tutti coloro che avevano raggiunto il consolato (e probabilmente, almeno in un primo periodo, la pretura) o che discendevano in linea diretta da un console (o da un pretore).
Roma, dopo la vittoria su Pirro, poteva considerarsi padrona dell’Italia peninsulare. Il problema era ora quello di rendere solide le conquiste, poiché non era pensabile di poter controllare un territorio così vasto e tanti popoli diversi con la sola forza dell’esercito. I Romani ebbero il merito di aver saputo creare un sistema di governo complicato, ma efficiente, che diede sicurezza e sufficiente stabilità allo stato.
Non tutti i territori controllati da Roma, intanto, divennero parte integrante della repubblica; bisogna cioè distinguere tra:
1. Il territorio di Roma era quello i cui abitanti godevano della cittadinanza romana. Quindi di esso non faceva parte solamente l’Urbe e l’area circostante, ma anche alcune comunità conquistate, come i municipi e le colonie romane, che appunto godevano di tale diritto.
I municipi erano quelle comunità conquistate (sia latine che italiche) che conservavano le loro strutture di governo e la loro autonomia amministrativa, sebbene gli abitanti godessero, come si è detto, della cittadinanza romana e fossero regolarmente iscritti nelle tribù di Roma. Tra i municipi dobbiamo però distinguere quelli i cui cittadini godevano in Roma del diritto di elettorato sia attivo sia passivo (civitas cum suffragio) che erano detti municipia cum suffragio, e quelli i cui abitanti non godevano di tale diritto ed erano detti municipia sine suffragio.
Le colonie erano, generalmente, città fondate ex novo su territori conquistati ed annessi da Roma. In particolare le colonie romane erano quelle i cui abitanti erano cittadini romani a tutti gli effetti, pur avendo propri magistrati e propri ordinamenti, e godevano di alcuni privilegi (esenzione d’imposta e, teoricamente, del servizio militare). Le colonie romane spesso avevano lo scopo di assicurare la dominazione romana su punti strategici, per questo furono fondate essenzialmente sulla costa (colonie marittime).
2. Gli alleati (socii), erano comunità italiche o latine che erano state sconfitte da Roma e costrette da essa a stringere rapporti di alleanza attraverso la stipula di un trattato (foedus). Roma concluse con gli alleati due tipi di trattati, i foedera aequa e i foedera iniqua: quelli «equi» riconoscevano l’indipendenza dei contraenti con il solo obbligo di aiutare la parte che veniva aggredita; quelli «iniqui» privavano una delle parti (che era, ovviamente la città conquistata) del diritto di dichiarare guerra a terzi, e la obbligava a combattere a fianco di Roma in caso di necessità. Va peraltro detto che in territorio italico Roma ricorse con maggiore frequenza ai foedera iniqua, e che i pochi foedera aequa erano tali solo di nome: in realtà non poteva esistere parità sostanziale tra una piccola città e una potenza che si avviava a dominare il mondo.
Tra gli alleati, i quali non godevano del diritto di cittadinanza romana, bisogna distinguere tra alleati latini e alleati italici. Gli alleati latini avevano una posizione di particolare privilegio. Le città federate latine (così come i municipi latini) continuavano a godere dei diritti che spettavano loro dai tempi della Lega latina, e cioè lo ius connubii, ius commercii e lo ius migrationis. Inoltre potevano ricevere la cittadinanza romana se residenti a Roma e quindi votare in una tribù estratta a sorte nei comizi. I socii italici avevano minori diritti, ad esempio non potevano ottenere la cittadinanza (questo sarà la causa della guerra sociale del 90-88 a.C.) ed erano tenuti a fornire contingenti militari in caso di guerra.
3. Del territorio controllato, ma non direttamente annesso da Roma, facevano parte anche le colonie latine, fondate, sia da romani che da latini, soprattutto nell’interno, avendo come scopo lo sfruttamento del terreno. Indipendentemente dalla propria origine, chi viveva nelle colonie latine aveva gli stessi diritti e gli stessi doveri dei socii latini.