All'età del Bronzo nella penisola greca e nelle isole è stato dato il nome di periodo elladico. Questo è stato suddiviso in Elladico Antico (E.A.), Elladico Medio (E.M.) e Elladico Tardo (E.T.). Ognuno di questi periodi viene suddiviso in tre fasi (I, II, III). L’Elladico Medio si fa corrispondere, come sviluppo e come cronologia al Minoico Medio; l’Elladico Tardo largamente si identifica con con l’età micenea.
Oggi viene proposta la seguente cronologia assoluta.
Antico Elladico I (3000-2750 a.C.)
Antico Elladico II (2750-2300 a.C.)
Antico Elladico III (2300-2100 a.C.)
Elladico Medio I (2100-1800 a.C.)
Elladico Medio II (1800-1650 a.C.)
Elladico Medio III (1650-1550 a.C.)
Elladico Tardo I (1550-1500 a.C.)
Elladico Tardo IIA (1500-1450 a.C.)
Elladico Tardo IIB (1450-1400 a.C.)
Elladico Tardo IIIA (1400-1350 a.C.)
Elladico Tardo IIIB (1350-1200 a.C.)
L’arco di tempo che comprende l’E.M. III e l’E.T. I prende il nome di periodo di transizione, mentre l’E.T. IIA viene spesso chiamato fase protomicenea.
Sul continente greco, l’ondata di disordini che contrassegna il passaggio dal Bronzo Antico al Bronzo Medio conferisce a questo periodo un valore cruciale. Oggi sappiamo che, in realtà, la frattura si colloca alla fine dell’E.A. II, e che l’E.A. III appartiene già, dal punto di vista culturale, al periodo seguente; tuttavia non s’è ritenuto opportuno modificare la terminologia tradizionale. Questa frattura appare tanto piú profonda in quanto concerne molteplici aspetti. Numerosi villaggi subiscono distruzioni, nella Grecia centrale (Hagia Marina, Kirra) come nel Peloponneso (Lerna, Zygouries), mentre altri, come per esempio Manika o Hagios Kosmas, vengono abbandonati dagli abitanti. Fa la sua comparsa una nuova ceramica: fabbricata al tornio, strumento proveniente con ogni probabilità dall’Anatolia, evolve assai rapidamente verso quella che si suole chiamare, nell’E.M., ceramica «minia», da Minia, leggendario re di Orcomeno in Beozia, dove Schliemann la ritrovò per la prima volta nel 1880. È caratterizzata dal colore grigio uniforme, dalla superficie liscia che risulta «saponosa» al tatto, dalle forme carenate spesso sottolineate da scanalature orizzontali. Nello stesso periodo si diffonde la casa ad abside semicircolare (fig. 9), tipo di costruzione in precedenza assai rara; scompaiono invece gli edifici monumentali del tipo della «Casa delle tegole» di Lerna e le cinte fortificate. Due novità caratterizzano anche le pratiche funerarie: la ricomparsa davvero inattesa delle sepolture all’interno dell’abitato e la generalizzazione della tomba a cista individuale. Compaiono infine oggetti in precedenza del tutto sconosciuti, come l’ascia-martello e il levigatoio ad asta di freccia.
Per la maggior parte degli studiosi, rivolgimenti e innovazioni così imponenti – paragonabili a quelli che si producono, nello stesso periodo, sull’altra riva dell’Egeo, dove città come Troia, Beycesultan e Tarso vengono distrutte – implicano l’arrivo più o meno massiccio e improvviso di nuovi elementi di popolazione; gruppi che parlano lingue indoeuropee, come l’ittita, il luvio e il palaico nel caso di quelli che si insediano in Anatolia, e una forma di greco antico nel caso di quelli che penetrano nelle regioni meridionali della penisola balcanica. Le cose non sono però così semplici. Infatti, nella stessa Grecia la frattura non è dappertutto così netta e talvolta, come a Tirinto, assume più che altro l’andamento di una transizione graduale. Altrove, come per esempio in Laconia, non comporta alcun elemento di quelli ritenuti caratteristici della nuova cultura. Nella Grecia centrale, invece, alcuni di questi elementi erano già presenti prima della frattura. In ogni caso, le novità si fondono dappertutto e molto rapidamente con la cultura locale. Ammesso che vi sia stata intrusione, non fu né brusca né massiccia per cui sarebbe forse meglio parlare di infiltrazioni.
Detto questo si pongono due interrogativi: le citate innovazioni implicano necessariamente delle migrazioni? se così fosse, in base a che cosa possiamo identificare gli eventuali immigrati come «Proto-Greci»? Per quanto concerne il primo interrogativo ci limitiamo a osservare che l’ipotesi di rivolgimenti interni potrebbe spiegare altrettanto bene cambiamenti radicali accompagnati da distruzioni violente, e che certe «innovazioni», quali la ceramica minia o la tomba a cista, a lungo considerate sicura testimonianza di immigrazione, vengono oggi interpretate in termini di evoluzione locale. Il secondo interrogativo è più delicato e richiede una precisa distinzione fra tre concetti troppo spesso confusi: quelli di lingua, razza, cultura. L’archeologia consente unicamente di cogliere la cultura materiale, ed è illusoria la pretesa di istituire una correlazione diretta tra un tipo di oggetto, o anche un complesso di oggetti, e un determinato gruppo linguistico o etnico. In altre parole: non ci sono né terrecotte né tombe indoeuropee, e uno stesso tipo può essere comune a gruppi che parlano lingue diverse; e, all’inverso, uno stesso gruppo può utilizzare tipi diversi e introdurre innovazioni in un momento qualsiasi della propria vicenda storica. D’altra parte, «indoeuropeo» è concetto linguistico e non etnico. Gli studiosi seri hanno ormai abbandonato l’idea mitica di un «popolo indoeuropeo» partito un bel giorno da un «centro originario», e gli antropologi biologi hanno rinunciato da gran tempo alla nozione di tipo umano. Insomma, non ci sono né crani né scheletri indoeuropei. Di indoeuropee ci sono solamente le lingue, le cui somiglianze vengono diversamente spiegate, ma alle quali il greco incontestabilmente appartiene. Sappiamo, a partire dalla decifrazione della lineare B ad opera di Ventris nel 1952, che una forma antica della lingua greca era parlata, nella Grecia continentale, alla fine del E.T.; constatiamo che, almeno in apparenza, la cultura materiale di queste regioni ha conosciuto un’evoluzione priva di fratture tra la fine dell’E.A. II e la fine dell’E.T.; concludiamo che la frattura della fine dell’E.A. II corrisponde all’«arrivo dei Greci». Ma questa conclusione è chiaramente surrettizia sia che si conferisca al nome «Greci» un senso linguistico, sia, peggio ancora, un senso etnico. I linguisti tuttavia sembrano concordi nel ritenere che il greco non sia stato parlato dall’eternità nel bacino egeo visto che individuano, persino nel greco del I millennio, le tracce di un «substrato» linguistico pre-indoeuropeo. Il che significa, pertanto, che in data necessariamente anteriore alla fine del Bronzo Recente il greco fu «portato» in Grecia, cosa che sembra impossibile in assenza di un movimento di popolazione. Solo che non siamo in grado né di determinare con precisione qualità e quantità di questo movimento migratorio, né il momento in cui avvenne. Le motivazioni oggi addotte dalla maggior parte degli esperti, per collocarlo alla fine dell’E.A. II non hanno affatto carattere di prova: sono semplici presunzioni.
In ogni caso, la frattura allora prodottasi fu seguita da un buon numero di secoli nei quali la Grecia continentale visse piú o meno al rallentatore. L’evoluzione sembra ristagnare del tutto in regioni settentrionali quali Tessaglia e Macedonia, che non intrattengono piú alcuna relazione col mondo egeo. La fascia centrale e meridionale mantiene una certa attività, ma i cambiamenti che sembravano avviati nel corso dell’E.A. II si arrestano. La popolazione vive in villaggi nei quali le case, piú o meno simili, hanno collocazione irregolare; sono inoltre privi di pianta complessiva e sistemazioni di tipo collettivo. Questa popolazione sotterra i propri morti all’interno dell’abitato, in fosse semplici, ciste o giare, con arredi funerari poveri se non assenti. Tuttavia, alcuni morti vengono inumati in tumuli, frequenti soprattutto nelle regioni occidentali (isole ioniche, Elide, Messenia) e in Argolide (fig. 10). Si ritiene, generalmente, che questi tumuli funerari presentino delle affinità con la cultura «proto-indoeuropea» dei Kurgani della Russia meridionale, e che costituiscano un contrassegno di status sociale particolare. Ma non si tratta che di ipotesi, e la seconda, in particolare, è del tutto sprovvista di prove di una qualche solidità. Conosciamo del resto assai male i comportamenti sociali di queste comunità, anche perché, cosa piuttosto singolare, non ci hanno lasciato alcun oggetto che possa aver avuto una qualche funzione di tipo religioso, estetico o simbolico. Lo studio dell’abitato consente tuttavia di ipotizzare un’organizzazione sociale piuttosto allentata.
Nel complesso, le produzioni artigianali sono di tradizione antica, di qualità mediocre e quantità limitata, salvo la ceramica. Quest’ultima è anche l’unica caratterizzata da una sequenza evolutiva. Alla ceramica minia, già menzionata, s’affianca qualche tempo dopo la ceramica matt-painted di ispirazione cicladica. La produzione di entrambe è abbondante, in particolare quella della prima, diffusa dalle Cicladi a Troia. Per quanto riguarda la seconda, studi recenti suggeriscono l’esistenza, oltre che di produzioni puramente locali, di un importante laboratorio, a Egina o dintorni, che esportava i suoi prodotti in parecchie zone del continente. Analogamente, si tende a collocare nel sud del Peloponneso il centro di produzione di una terza categoria di ceramica, meno diffusa, la cui decorazione a vernice lustrata fa pensare a influenze minoicizzanti. Non si può ritenere un caso che i pochi «marchi di vasaio» recensiti si trovino proprio su vasi appartenenti a queste due serie. Ne esce cosí ridimensionata la precedente immagine di una Grecia mesoelladica ripiegata su se stessa, divisa in compartimenti, priva di relazioni intercomunitarie e di contatti con l’esterno.
Soprattutto per ceramica e oggetti in metallo gli scambi tra Cicladi e Creta sono attestati nella duplice direzione. L’isola di Citera, a sud della Laconia, funge similmente da tramite tra Creta e continente, che non sembrano intrattenere relazioni dirette. Tracce di contatti con regioni esterne al mondo egeo sono assai vaghe e indicano in ogni caso scambi saltuari. È tuttavia interessante notare che procedono già in direzione del Mediterraneo centrale (Malta, Sicilia, Isole Eolie), area nella quale i Micenei impianteranno, a partire dall’inizio del Bronzo Recente, un’attiva rete di scambi.
Nel corso della seconda metà del periodo vi sono numerosi sintomi, soprattutto per quanto riguarda il Peloponneso sud-occidentale e nord-orientale, di una certa accelerazione evolutiva; sarebbe tuttavia azzardato affermare che preannuncino i cambiamenti spettacolari che si realizzeranno nel corso della fase di transizione dal Bronzo Medio al Bronzo Recente. Così, per esempio, la carta che registra la distribuzione territoriale di una variante piuttosto tarda della ceramica minia, detta «minia gialla», suggerisce che all’epoca dovette verificarsi un notevole sviluppo delle vie di comunicazione terrestri, in un paese in cui assenza di fiumi navigabili e rilievo accidentato avevano favorito, per lungo tempo la navigazione costiera. L’utilizzazione del cavallo, che fa la sua prima comparsa proprio in quest’epoca, non è forse estranea a questo processo. D’altra parte, in agglomerati come Malthi, in Messenia, si configurano i primi elementi di una pianta urbana organizzata e le tombe vengono trasferite all’esterno dell’abitato. Infine, la presenza di armi in bronzo e gioielli in oro in parecchie tombe di Corinto e Asine testimonia un arricchimento materiale incontestabile e, forse, l’emergere di élite locali.
In ogni caso, è proprio in Argolide e Messenia, ossia le regioni nelle quali questi fenomeni si configurano piú nettamente, che si verificherà, intorno al 1600 a. C., nella fase di passaggio dall’E.M. all’E.T., l’ultimo cambiamento culturale importante dell’età del Bronzo. Le tombe a fossa dei circoli funerari A e B di Micene e le prime tombe a tholos della Messenia, che ci hanno restituito un’enorme quantità di armi in bronzo e di gioielli in oro, costituiscono infatti le prime manifestazioni della civiltà micenea, della quale siamo oggi in grado di discernere meglio le radici continentali oltre i prestiti e le diverse influenze che la segnarono.
Dopo la fase di stagnazione culturale e di relativa povertà che la Grecia aveva attraversato alla fine dell’E.A. e per buona parte dell’E.M., si verificarono, nella seconda metà del XVIII secolo a.C. quindi alla fine dell’E.M., quelle trasformazioni decisive che portarono alla nascita della cultura micenea
Nell’Argolide, infatti, verso la fine dell’E.M., si era consolidata una gerarchia di centri di cui non esistevano esempi nei tempi precedenti. Alla sommità di questa gerarchia si trovavano Argo, Tirinto, Midea-Dendra e Micene: di questi insediamenti semiurbani sopravvivono, per il periodo che ci interessa, quel che potremmo considerare acropoli nel senso ampio del termine (tale è il caso di Tirinto, Argo e Midea) e/o recinti funerari con tumuli forniti di ricchi reperti (Micene, Argo, Dendra).
A cavallo tra l’E.M. e l’E.T., attorno alla metà del XVII secolo a.C., si verificarono altri importanti cambiamenti nella gerarchia degli insediamenti: Argo perde la sua importanza, l’acropoli della collina dell’Aspis viene abbandonata come luogo di insediamento, nelle necropoli si rinvengono molte meno sepolture. A Midea la mancanza di ceramica databile a questo periodo indica con buone probabilità un calo della popolazione. Per finire, anche l’acropoli di Lerna viene abbandonata e, dopo un certo intervallo di tempo, viene utilizzata come luogo di sepoltura. Nel contempo, le cosiddette tombe a fossa di Micene si riempiono di tesori inenarrabili, che mostrano il nuovo ruolo di questo borgo come importante centro politico dell’entroterra.
Purtroppo, la nostra conoscenza dei molti insediamenti sorti agli inizi dell’età micenea in Argolide è ancora troppo lacunosa: si può tuttavia presumere che questa fase iniziale della civiltà micenea sia contrassegnata da una competizione, condotta anche in modo violento, tra i diversi borghi della piana argiva. In queste lotte, Argo e Midea-Dendra ebbero la peggio e altri insediamenti, come per esempio Lerna, non ne uscirono indenni. Vincitrice ne uscì Micene, e forse anche Tirinto (su cui però si hanno pochissime informazioni per il periodo in questione).
Ci è possibile seguire le diverse fasi dell’evoluzione culturale e sociale a Micene quasi esclusivamente grazie agli scavi delle sepolture. Qualche indizio ci fa pensare che la collina di Micene fosse già abitata fin dagli inizi della civiltà micenea; è probabile che allora un edificio, con le funzioni e la tipologia di un palazzo, sorgesse in cima al colle, sull’altopiano. Le successive sovrapposizioni di altre costruzioni rendono incerti gli indizi e ci impediscono di farci un’idea chiara dell’architettura originaria.
Già nella seconda metà del XVIII secolo a.C., cento metri a ovest del futuro abitato di Micene, era stato costruito un recinto funerario, convenzionalmente definito come circolo B. Come hanno dimostrato le più recenti ricerche, non si trattava di un semplice recinto di tombe, ma piuttosto di un tumulo. Lo stesso sembra valere anche per il più tardo circolo A. D’ora in poi, dunque, parleremo dei tumuli A e B, entrambi caratterizzati da tombe a fossa: questo tipo di monumento funerario, tipico delle élite, secondo alcuni venne introdotto alla fine dell’E.A. nella Grecia meridionale dai popoli indoeuropei provenienti dai Balcani. I tumuli di Micene, dunque, sono tra gli ultimi e più monumentali esempi di questo tipo di sepoltura. Questo genere di tomba serviva a separare i defunti che vi erano seppelliti dal resto della comunità dei morti, che venivano deposti nelle sepolture più semplici, a fossa o a cista. Tali ostentazioni di rango venivano accentuate dalla presenza di stele funerarie erette sui tumuli e dai temi iconografici, socialmente prestigiosi, che vi erano rappresentati: scene di caccia (tumulo B) o di guerra (tumulo A).
Queste tombe a fossa e i loro corredi ci permettono di seguire per due secoli (1750-1550 a.C. circa) quel processo di stratificazione sociale e la connessa formazione di una casta signorile. Nell’architettura funeraria del tumulo B si può osservare il seguente sviluppo: dapprima, piccole e semplici tombe a fossa destinate a singoli defunti; in seguito, nella fase di massima espansione, grandi sepolture concepite per più corpi, per finire di nuovo, in un’evoluzione a ritroso, con tombe singole, non più grandi di quelle tipiche della prima fase. Tale linea di sviluppo è propria anche dei reperti sepolcrali: si ha così un aumento, per numero e qualità, dei tesori tra la prima e la seconda fase e una successiva riduzione nello stadio finale.
A cavallo tra la seconda e la terza fase del tumulo B, intorno al 1675/1650 a.C., venne costruito il tumulo A: a questo scopo, si era scelto un luogo molto più imponente e visibile anche da lontano sulla pendice ovest della collina. È molto probabile che, in questo modo, una certa parte della classe signorile intendesse distinguersi dagli altri. Con la costruzione del tumulo A si tocca, in linea di massima, l’apogeo dello sviluppo delle tombe a fossa micenee: le sepolture più piccole di questo tumulo, in effetti, sono tanto ampie quanto le più vaste del tumulo B; e le tombe I, IV e V del tumulo A sono considerevolmente più grandi. Anche la ricchezza dei tesori deposti raggiunge un apice assoluto nel tumulo A. I defunti che vi erano sepolti erano letteralmente coperti d’oro. L’oro, qui ritrovato, tra cui le famose maschere, gli ornamenti e i vasi pesano più di quindici chili e la quantità d’argento rinvenuto è di poco inferiore. Già nella seconda fase del tumulo B si sviluppa un’iconografia di casta, che però assumerà la sua più compiuta configurazione solo nelle scene guerresche sulle stele e sui sigilli e nelle decorazioni simboliche (leoni, grifoni e così via) con cui si ornavano le armi del tumulo A.
I reperti dei tumuli di Micene mostrano, per così dire, un carattere cosmopolita. Materie preziose come l’oro, l’argento, l’elettro, le gemme e l’ambra venivano importate dall’Egitto, dall’Asia Minore, dai Carpazi e dall’Inghilterra sud-occidentale. Come hanno dimostrato ricerche etnologiche, dietro a questi interessi per paesi lontani e a queste attività commerciali oltre confine non c’era solo il bisogno di procurarsi materie preziose ed esotiche, ma anche il desiderio di acquisire conoscenze di regioni lontane, che potevano rappresentare, da un punto di vista politico, beni di considerevole valore. Si spiegano così sia l’importazione di oggetti rituali che l’adattamento di alcuni elementi dell’iconografia religiosa provenienti da altre culture, come mostrano i reperti rinvenuti nel tumulo A di Micene. Va tuttavia ricordato che l’influenza cretese risulta preponderante, anche se i rapporti con l’Asia Minore e con l’Egitto sono comunque di facile attestazione.
Prima di arrivare a Micene, le importazioni e gli influssi culturali dei paesi del Mediterraneo orientale passavano probabilmente per Creta, che in quegli anni dominava il commercio con le culture egizia e levantina. Ma i Micenei, in questi primi anni del loro sviluppo, si erano rivolti anche ad altre regioni: nei loro empori commerciali installati negli insediamenti indigeni delle Isole Eolie o a Vivara, nel golfo di Napoli, essi acquistavano con buona probabilità i prodotti delle colline metallifere della futura Etruria. Le Isole Eolie servivano inoltre come porto di partenza per altre relazioni commerciali, grazie alle quali i Micenei si procuravano lo stagno necessario alla fabbricazione del bronzo importandolo dall’Inghilterra sud-occidentale. Per procurarsi il metallo, i Micenei si erano rivolti anche a nord, verso la regione dei Carpazi, ricca di giacimenti d’oro: non a caso, l’analisi chimica di una buona parte degli oggetti d’oro rinvenuti nei tumuli ha messo in evidenza l’origine carpatica del metallo. I rapporti tra la cultura micenea più antica e l’area dei Carpazi sono attestati, per quanto riguarda quest’ultima, anche dalle importazioni e dalle imitazioni delle lunghe spade micenee e di alcuni elementi decorativi spiraliformi.
Gli sviluppi della cosiddetta età delle tombe a fossa hanno rappresentato a lungo l’unico criterio su cui basarsi per ricostruire la formazione della cultura micenea. Poco alla volta i nuovi scavi hanno dimostrato che Micene era sicuramente stata un centro di primo rilievo agli albori della civiltà micenea, ma anche in altri centri del Peloponneso, e con buone probabilità dell’Attica e della Beozia, si erano verificati, in quegli stessi anni, sviluppi simili. Nel XVII secolo a.C., ai tempi della costruzione del tumulo A di Micene, si era sviluppato in Messenia, sotto l’influsso della civiltà cretese, un nuovo tipo di tomba aristocratica: la tholos. Gli oggetti – tra i pochi sopravvissuti ai saccheggiamenti avvenuti per lo più nell’antichità, a causa della visibilità di queste costruzioni – ritrovati nella tholos IV di Pilo e nella tholos III di Peristeria ci indicano che queste tombe erano colme originariamente di corredi sontuosi quanto quelli del tumulo A di Micene. Durante gli scavi sotto le fondamenta del cosiddetto Palazzo di Nestore a Pilo, di età tardomicenea, gli archeologi americani trovarono i resti di una più antica costruzione, che risale probabilmente al XVII secolo a.C. e che mostra chiari influssi cretesi. A Kiapha Thiti, in Attica, venne eretta nel XVII secolo a.C. una fortificazione che precorre le roccheforti micenee, di età posteriore.
Le cause dell’ascesa e della ricchezza così improvvisa dei primi Micenei, attestata soprattutto dalle tombe a fossa del tumulo A di Micene, sono state a lungo oggetto di disputa. Le teorie avanzate finora possono suddividersi in tre categorie: 1) quella dei «cavalieri predoni», o dei mercenari; 2) quella dell’immigrazione e dell’invasione; 3) quella di un processo di sviluppo economico graduale.
1. Secondo la teoria dei «cavalieri predoni» le ricche sepolture rinvenute nel tumulo A sarebbero il bottino di incursioni nell’isola di Creta, da cui sarebbero stati prelevati non solo pregevoli tesori, ma anche artigiani. La teoria dei mercenari vuole che i principi micenei fossero a capo di truppe mercenarie che avrebbero aiutato gli Egizi a sconfiggere e cacciare gli Hyksos. Come compenso avrebbero ricevuto oro e argento in abbondanza, che, una volta lavorati dagli artigiani, sarebbero divenuti i tesori deposti nelle tombe del tumulo A. In Egitto, inoltre, i principi micenei avrebbero visto per la prima volta i cavalli e i carri da guerra, che avrebbero portato con sé al loro ritorno in Grecia. Entrambe le teorie risalgono agli inizi degli anni ‘50, e precedono dunque la scoperta delle tombe del tumulo B, che, di conseguenza, non sono prese in considerazione Queste sepolture, però, mostrano che i ricchi corredi delle tombe del tumulo A non possono essere considerati un fenomeno sopraggiunto all’improvviso, ma rappresentano piuttosto l’apice di uno sviluppo iniziatosi precedentemente. La teoria dei «cavalieri predoni» viene inoltre smentita dal fatto che, secondo tutti gli indizi a nostra disposizione, la Creta minoica di quegli anni dominava ancora incontrastata con la sua flotta le acque dell’Egeo, e che prodotti e manufatti minoici giungevano sul continente greco nel contesto di scambi commerciali e di relazioni diplomatiche. La teoria dei mercenari, infine, è da respingere sulla base di considerazioni cronologiche: la cacciata degli Hyksos, infatti, avvenne verso la metà del XVI secolo a. C, mentre i tesori delle tombe micenee del tumulo A risalgono già al XVII secolo a C.
2. Le teorie dell’immigrazione e dell’invasione hanno goduto recentemente di una specie di revival; in entrambe gli Hyksos giocano un ruolo decisivo. Essi sarebbero giunti in Grecia dopo la loro cacciata dall’Egitto e sarebbero stati seppelliti nelle tombe del tumulo A, oppure sarebbero già presenti nell’area dell’Egeo, non solo sul continente ma anche a Creta e a Tera, fin dal periodo in cui dominavano ancora l’Egitto (intorno al 1750-1730 a.C.). Gli Hyksos avrebbero dunque introdotto i cavalli e i carri da guerra nella cultura micenea. La tesi secondo cui i defunti sepolti nel tumulo A sarebbero gli Hyksos cacciati dall’Egitto è da respingere sulla base degli stessi argomenti già evocati a proposito della teoria dei presunti mercenari. Per quanto riguarda l’eventuale invasione degli Hyksos nei paesi dell’Egeo tra il 1750 e il 1730 a.C., nessun indizio rende plausibile questa teoria: nessuna traccia di distruzione nessuna interruzione di cultura. Altre due teorie di questo filone mettono in relazione l’ascesa della cultura micenea con il «campo minato indoeuropeo» (S Piggott), cioè con l’«arrivo dei Greci». Secondo queste teorie l’immigrazione indoeuropea in Grecia non sarebbe avvenuta alla fine del terzo millennio a.C. ma sarebbe coincisa con l’inizio della cultura micenea. Gli immigranti sarebbero stati o nomadi provenienti dalla regione delle steppe a nord del Ponto o combattenti caucasici muniti di carri da guerra che avrebbero assoggettato non solo le popolazioni originariamente insediate in Grecia, ma anche ampie distese del Vicino Oriente. A sostegno dell’ipotesi del legame fra le tombe a pozzo micenee e l’area delle steppe a nord del Ponto si invocano le presunte affinità tra lo stile a ornamenti animali delle tombe micenee e lo stile «animalistico» degli Sciti. Ma tra queste due espressioni figurative si apre un abisso cronologico di almeno un millennio. Inoltre, i Micenei sepolti nei tumuli A e B non erano popoli nomadi abituati a vivere in tende come dimostrano gli indizi sui primi palazzi e/o gli insediamenti di Micene, di Pilo e di Kiapha Thiti. Per quanto concerne, poi, l’arrivo dei carri da guerra dall’area del Caucaso, va notato che la congettura di una «patria indoeuropea» da situare nelle regioni caucasiche è smentita da una serie di argomentazioni. L’introduzione dei cavalli e dei carri da guerra nella cultura primitiva micenea, che gioca un ruolo di primo piano in alcune delle teorie già menzionate non rappresenta una valida argomentazione, poiché il cavallo domestico esisteva già in Argolide nell’E.M. e i carri da guerra con due ruote a raggi furono inventati in Anatolia agli inizi del secondo millennio a.C. Nei secoli XVIII-XVII a.C. essi erano già noti in Siria, da dove probabilmente passarono, attraverso Creta, nelle regioni dell’Egeo. Non c’è dunque nessuna ragione per pensare che il propagarsi di questa invenzione sia connesso con le ondate di invasioni indoeuropee. Nel XII secolo a.C., ai tempi della dinastia Shang, il carro da guerra giunse anche in Cina: eppure nessuno ha mai avanzato seriamente l’ipotesi che ci sia stata un’invasione indoeuropea della Cina.
3. Agli inizi degli anni ‘70, Colin Renfrew, in un’opera capitale, interpretò l’evoluzione delle culture egee nell’età del Bronzo come il risultato dell’azione di fattori locali: lo sviluppo della «triade mediterranea» – grano, ulivo e vite – condusse a uno sviluppo parallelo in altri «sottosistemi culturali», quali la popolazione, la metallurgia, l’artigianato, l’organizzazione sociale, i codici simbolici (lingua, arte, religione) e la comunicazione. In questa teoria le culture palaziali minoica e micenea venivano considerate come il prodotto finale di sviluppi concomitanti. Il merito di questa teoria risiede nel fatto che la nascita e lo sviluppo delle culture egee nell’età del Bronzo vengono spiegati non sulla base di influssi e di invasioni dall’esterno – come capitava spesso allora e come non di rado capita anche oggi – ma alla luce di quei meccanismi evolutivi interni essenziali allo sviluppo di una civiltà ad alta complessità. Tale teoria, però, non è immune da obiezioni. Per esempio, le testimonianze sulla coltivazione dell’ulivo prima del Bronzo Recente sono per quanto riguarda la Grecia intera, estremamente scarne, e lo stesso vale per le produzioni vinicole sia nella «progredita» Grecia meridionale sia nell’«arretrata» Grecia settentrionale. Inoltre, il modello di uno sviluppo lineare, sotteso a questa teoria, si adatta bene alla Creta minoica ma non al continente greco, in cui al declino culturale dell’E.A. succede un periodo di stagnazione nel corso di buona parte dell’E.M. Ma, come si è già visto, bisogna attendere la fine dell’E.M. per ritrovare i primi segni di quel processo di sviluppo che provocherà i cambiamenti irreversibili alla base della formazione della cultura micenea. Occorre, dunque, per questo periodo storico, postulare l’affacciarsi di nuovi fattori, decisivi per la nascita di questa civiltà. Tra questi c’è senz’altro il ruolo d’intermediario che la Grecia micenea giocava tra due sistemi commerciali di diversa natura: tra il commercio marittimo gestito dai centri palaziali della Creta minoica soprattutto nell’area orientale del bacino mediterraneo, e quello terrestre, connesso al trasporto di merci nell’Europa continentale. È estremamente probabile, infatti, che i primi Micenei abbiano fornito i mercati dell’Egeo di metalli preziosi provenienti dall’Europa tra cui lo stagno dell’Inghilterra meridionale, l’oro dei Carpazi). Tali relazioni commerciali, però, non possono essere state l’unico e decisivo fattore di sviluppo. Un sistema commerciale così evoluto, imperniato peraltro sullo scambio di merci di prestigio con culture piú progredite, presuppone sostanziali sviluppi in altre sfere della società; sviluppi di carattere politico o economico, destinati ancora a sfuggirci, visto che la nostra conoscenza della prima cultura micenea si basa quasi esclusivamente, come si è detto, sui reperti rinvenuti nelle tombe.
Tra il XVI e la prima metà del XV secolo a. C. giunse a compimento e si estese in vaste aree della Grecia meridionale e centrale – fino alla fascia costiera della Tessaglia – quell’organizzazione sociale, culturale e politica sviluppatasi nel corso del XVII secolo a.C. Caratteristica di questa fase è sempre la presenza, nelle vicinanze di un insediamento sul tipo delle acropoli, di due recinti funerari, esclusivamente delle tholoi, costruite con sfarzo ancora maggiore, e che richiedevano evidentemente piú dispendio di lavoro e una maggiore spesa di materiali rispetto alle sepolture del resto della comunità. Degna di nota è anche l’ubicazione topografica di queste tombe, che, sorte quasi sempre su terreni aperti e «visibili», dovevano simboleggiare, quasi punti di riferimento territoriali, le istanze egemoniche delle famiglie che vi si facevano seppellire.
Esempi caratteristici di questi agglomerati sorti nel XVI secolo a.C. sono Menelaion e Vaphiò in Laconia. Kakovatos in Trifilia, Torico nell’Attica e Iolco (Volos) in Tessaglia.
L’organizzazione politica delle comunità micenee piú antiche è oggetto di discussione. Si trattava già di vere e proprie monarchie o del dominio di oligarchie aristocratiche? In favore della seconda ipotesi si è invocata la testimonianza dell’alto numero di tombe monumentali ritrovate in numerosi centri protomicenei e che ci colpisce soprattutto a Micene: risalenti al primo periodo miceneo, sorgono qui due tumuli A e B e non meno di sei tholoi. Queste tombe denotano però uno sviluppo diacronico e anche differenze di rango sociale. Come si è già detto, intorno al 1700 a.C. il tumulo B fu rimpiazzato come luogo di sepoltura dell’élite dal tumulo A. Dal 1600 a. C. circa le tholoi prendono il posto, a loro volta, del tumulo A. Le sei tholoi di Micene databili al XVI secolo a.C. presentano evidenti differenze di grandezza, di impianto architettonico e di vicinanza all’acropoli. Le due tholoi piú grandi – la cosiddetta Tomba di Egisto (fig. I [4]) e la Tomba dei Leoni, dal diametro tra i 13 e i 14 metri – sono architettonicamente le più ricche e sorgono nelle immediate vicinanze dell’acropoli. Le altre quattro tholoi sono piú piccole (diametro tra gli 8 e gli 11 metri), piú povere architettonicamente e piú lontane dall’acropoli. Tali differenze portano alla seguente conclusione: nella Tomba di Egisto e nella Tomba dei Leoni venivano sepolti i signori del borgo, mentre le altre tholoi erano destinate all’élite sottoposta al loro dominio. Nelle tombe a camera costruite in quegli stessi anni venivano deposti i corpi del resto della popolazione. Nelle tombe di questo periodo a Micene (ma anche a Pilo) si può dunque osservare una differenziazione sociale simile, ma ancora meno complessa, a quella che si ritrova nei testi in lineare B del XIII secolo a.C.
Di solito, il XVI secolo a.C. viene contrassegnato come il periodo dei piccoli principati micenei. Va però ricordato che almeno Micene e Pilo avevano già esercitato il loro dominio su estese regioni della Grecia. È probabile che le tholoi costruite in questi anni nelle regioni di Micene e di Pilo non sono da ritenere come i luoghi di sepoltura di piccoli monarchi locali, ma come le tombe degli ufficiali distrettuali al servizio dei centri dominanti, cioè i precursori dei ko-re-te menzionati nei testi in lineare B. Se le tholoi rinvenute nei dintorni di Pilo appartenessero a piccoli monarchi locali e indipendenti, questi regni avrebbero sbarrato l’accesso di Pilo al mare e al porto naturale dell’insenatura di Navarino, senza i quali la città non avrebbe in seguito potuto raggiungere la sua importanza.
Si è pensato che la prima cultura micenea non fosse ancora una vera cultura nel senso proprio del termine, e come argomento si è addotto il fatto che non si è trovata traccia né di cretule né di tavolette scritte d’argilla specifiche di un’amministrazione e di una burocrazia complesse come quelle fiorite nella Creta minoica proprio nello stesso periodo o come quelle delle successive civiltà palaziali micenee. Il rinvenimento di un certo numero di sigilli in alcune tholoi non viene dunque interpretato come indizio di un’attività amministrativa: i loro defunti proprietari sarebbero solo dei collezionisti barbarici e parvenus. Alcuni specialisti però pensano che i testi redatti in lineare B e provenienti dagli archivi palaziali micenei del XIII secolo a.C. siano il prodotto di uno sviluppo di questo sistema di scrittura piuttosto lungo, che risalirebbe con buone probabilità addirittura al XVI secolo a.C. Contro la tesi che reputa i defunti delle tholoi dei parvenus collezionisti di sigilli si è obiettato che raccolte simili si ritrovano anche nelle ricche sepolture della Creta minoica, in cui i sigilli servivano chiaramente a fini amministrativi: le scoperte dunque di argille suggellate a Creta indicherebbero che i funzionari amministrativi disponevano di volta in volta di un gran numero di sigilli. Quindi è estremamente probabile che nei primi palazzi micenei si impiegassero già, secondo il modello cretese, sigilli e tavolette d’argilla a uso amministrativo.
L’influsso minoico fu estremamente forte anche in altri ambiti culturali, come mostra l’esempio della religione. Le pratiche cultuali minoiche venivano ancora adattate agli usi locali nel XVII secolo a.C., come indica l’introduzione nella cultura micenea di oggetti cerimoniali minoici: rhyta, vasi votivi per libagioni, tripodi sacrificali. Nel corso del XVI secolo a.C. una vera e propria ondata di iconografie religiose cretesi investì la cultura della Grecia continentale. Le scene cultuali incise su anelli d’oro (fig. 7) si distinguono difficilmente dai loro modelli minoici, tanto che si è addirittura pensato a un identità tra la religione minoica e quella micenea. Non a caso l’opera capitale di Nilsson pubblicata nel 1950 sulla religione greca nell’età del Bronzo porta come titolo: La religione minoico-micenea. Dopo la decifrazione della lineare B, avvenuta nel 1953, si è capito che i Micenei professavano una religione indipendente e che, tra l’altro onoravano già un certo numero di dei del futuro Olimpo. A un’osservazione più attenta si può notare come i Micenei abbiano modificato per i loro scopi le scene cultuali minoiche. Si può affermare, in linea generale, che l’influsso minoico nella religione micenea sia stato piuttosto un fenomeno superficiale e passeggero.
Nel corso del XV secolo a.C. cominciò l’espansione micenea nell’Egeo, che raggiunse il suo culmine nella prima metà del XIV secolo a.C. I nuovi scavi di Tirinto ci offrono una testimonianza importante sull’evoluzione dell’architettura palaziale micenea. Sulle macerie del primo palazzo protomiceneo, che era decorato di pitture a fresco, venne edificata nella seconda metà del XV secolo a.C., una dimora regale composta di un palazzo principale e di una residenza secondaria, entrambi muniti al centro di un megaron (fig. 8[I]). Questo sistema architettonico viene definito elladico: il palazzo principale era attribuito al re, al wanax; la residenza secondaria al secondo funzionario, per ordine di importanza, dello stato, il lawagetas dei testi in lineare B.
Lo sdoppiamento degli edifici caratterizza anche le costruzioni della seconda metà del XIV secolo e, in generale, quelle del XIII secolo a.C.: fu allora che la cultura micenea raggiunse il suo apogeo a Micene (fig. 9), a Tirinto (fig. 8 [2, 3]), a Pilo (fig. 10), ad Atene, Tebe e Orcomeno. Dopo il declino della civiltà minoica e la conquista di Creta da parte dei Micenei questi ultimi si trovarono a gestire quelle che erano state le rotte commerciali minoiche del Mediterraneo orientale: la via dei Balcani, dunque, perse un po’ della sua importanza.
I palazzi micenei erano – come peraltro quelli minoici – centri del potere, della religione, dell’amministrazione, dell’economia e delle forze militari. Al vertice di questa gerarchia troneggiava il re, il wanax, responsabile dell’organizzazione del territorio statale: e non solo dal punto di vista politico, ma anche religioso, economico e militare. La posizione del sovrano si riflette anche nell’impianto architettonico del palazzo, che rappresentava la successione gerarchica delle funzioni organizzative, e che culminava nel megaron inteso come cuore dell’intero complesso palaziale (fig. 11). Il megaron, con le sue quattro colonne e il suo focolare centrale, era il luogo di rappresentanza del wanax: era qui che si trovava il suo trono. L’importanza del wanax veniva accentuata dalla simbologia aristocratica delle decorazioni parietali (scene di caccia e di guerra): a Pilo, il trono del sovrano era affiancato da creature sovrumane (grifoni). Il trono del megaron rappresentava anche il centro della religione ufficiale, come mostrano a Pilo non solo il programma figurativo degli affreschi ma anche il canale per le libagioni scavato a diretto contatto del trono. La nuova sistemazione del tumulo A a Micene (fig. 1 [1]), che fu circondato nel corso del XIII secolo a.C. da un recinto circolare con doppia fila di pietre (fig. 12), testimonia di un culto degli antenati del wanax collegato a rituali religiosi posti sotto il diretto controllo statale. Queste testimonianze archeologiche ci offrono informazioni sostanzialmente piú complete sul ruolo del sovrano e sulle sue pretese ideologiche che non gli scarni testi burocratici delle tavolette in lineare B.
Gli archivi palaziali, con i loro sigilli e le loro tavolette d’argilla, ci indicano che i palazzi micenei erano centri amministrativi. I palazzi fungevano da centri di un sistema economico di natura ridistributiva, in cui le merci e le materie prime venivano consegnate sotto il controllo dell’amministrazione. Nei palazzi e nei loro immediati dintorni sorgevano, sempre sotto il controllo regio, ampi magazzini e botteghe in cui si producevano le merci piú diverse: basti pensare alla Casa degli Scudi a Micene (fig 1 [7]) in cui venivano prodotti intagli d’avorio, vasi di ceramica e di pietra; alla Casa del Mercante d’olio (fig. 1 [8]), in cui si facevano oli profumati; alla Casa delle Sfingi (fig. 1 [9]), in cui, ancora si intagliava l’avorio. Nella Casa del Mercante d’olio sono state rinvenute alcune tavolette in lineare B dell’amministrazione palaziale, che provano come queste botteghe non fossero indipendenti dal potere del palazzo. La funzione dei palazzi micenei come centri militari si deduce sia da testi su argilla in lineare B, sia dalle fortificazioni ciclopiche che circondano le acropoli micenee sempre di piú a partire dal XIII secolo a.C. e destinate a intimidire i propri sudditi e a impressionare gli eventuali avversari.
I centri palaziali micenei rappresentavano a loro volta il centro di un territorio statale più ampio. Come si è già accennato, almeno Micene e Pilo sembrano esercitare il loro predominio, e fin dal periodo protomiceneo, su territori che si estendevano oltre i confini diretti delle rispettive regioni. Ma solo nel corso del XIV secolo a.C. i territori statali assunsero, con buone probabilità, il loro assetto definitivo. Fu a quest’epoca che principati e regni più piccoli vennero integrati non senza violenza, in unità territoriali piú estese sotto il controllo del potere palaziale. A questo proposito si potrebbe evocare la testimonianza del regno di Pilo, suddiviso, secondo la testimonianza dei testi in lineare B, in una provincia «citeriore» (comprendente Pilo) e una «ulteriore» con una sua propria capitale: è possibile, in effetti, che quest’ultima provincia fosse stata, all’origine, un regno indipendente.
Tra i regni micenei, quello di Pilo, (nei testi in lineare B: pu-ro) ci offre un’idea più precisa della sua organizzazione grazie alla combinazione di fonti testuali e di reperti archeologici che vi sono stati rinvenuti.
Come è già stato detto Pilo si divideva in due province: quella «citeriore» e quella «ulteriore». Entrambe erano composte di otto distretti, al cui capo c’erano degli ufficiali distrettuali, i ko-re-te dei testi in lineare B. Nella figura 13 vediamo un’ipotesi di ricostruzione territoriale del regno di Pilo sulla base della testimonianza dei testi, delle fonti archeologiche e della situazione geografica (corsi d’acqua, orografia): gli abitati piú importanti sono considerati come sottocentri e sedi dei ko-re-te locali, mentre si ritiene che le tholoi trovate nelle vicinanze siano i loro luoghi di sepoltura.
Le fonti testuali sulla struttura territoriale degli altri regni micenei sono molto più lacunose (tale è il caso di Micene, Tirinto e Tebe) o non esistono affatto (Atene, Orcomeno). In altre regioni, come nella Laconia e nell’Acaia, non è stato possibile identificare in maniera precisa il centro palaziale del XIII secolo a.C. Tuttavia siamo in grado di tracciare la carta politica della Grecia micenea di questo periodo con una certa dose di verosimiglianza (e con confini disegnati in maniera schematica: fig. 14). La suddivisione dell’Argolide in due regni, con i rispettivi centri in Micene e Tirinto, si basa su una serie di argomentazioni: innanzitutto, il palazzo e le fortificazioni di Tirinto non sono affatto inferiori, né per ricchezza né per monumentalità, a quelli di Micene, inoltre, come si è già detto a Tirinto fu costruito, già nella seconda metà del XV secolo a.C., un palazzo fortificato di tipo elladico; infine Tirinto, nel XIII secolo a. C., era sede di un’amministrazione che si serviva della lineare B. Per guanto concerne l’Attica, il palazzo fortificato edificato sull’Acropoli, di cui restano solo i lavori di terrazzamento e una parte della cerchia muraria, rappresentava il centro amministrativo della regione nell’E.T. Le tholoi di Menidi, Maratona e Torico, erette nel corso dei secoli XIV e XIII a.C., sono, nel periodo che ci concerne, piú i luoghi di sepoltura degli ufficiali distrettuali che le prove dell’esistenza di piccoli regni indipendenti. Che la Beozia fosse suddivisa in due regni è suggerito dal fatto che sia Tebe che Orcomeno erano centri palaziali di primaria importanza. Nel corso dei secoli XIV e XIII a.C. Tebe si presentava come un insediamento fortificato munito di palazzo, la cui amministrazione era abituata a lavorare con sigilli d’argilla e tavolette redatte in lineare B. A Orcomeno, invece, non sono stati finora rinvenuti né sigilli né tavolette; ma i resti di un palazzo decorato a fresco e una tholos monumentale, il cosiddetto Tesoro di Minia, trovano un parallelo, per la monumentalità e la ricchezza architettonica, solo nel cosiddetto Tesoro di Atreo (fig. 1 [11]), la piú grande e la piú completa tomba signorile di Micene. La fortezza di Gla, non molto lontana da Orcomeno, si differenzia per diverse ragioni dagli altri borghi palaziali micenei ed è da ritenere piuttosto un centro amministrativo di secondaria importanza, il cui compito era innanzitutto di proteggere gli impianti di drenaggio nel bacino del lago Copaide. Tali impianti rappresentavano un vero e proprio capolavoro dell’edilizia idraulica e dimostrano le capacità tecniche dell’organizzazione palaziale micenea, alla stregua del sistema viario di cui resta qualche traccia nei dintorni di Micene (fig. 15) e in Messenia.
Non c’è dubbio che i prodotti delle botteghe palaziali micenee fossero apprezzati anche fuori dai confini della Grecia: soprattutto la ceramica, che mostra, nell’uniformità del suo stile tipica dei secoli XIV e XIII a.C., i segni di una koinè figurativa micenea coniata dalle stesse botteghe. Le ceramiche locali si presentano infatti come imitazioni piú o meno riuscite dei raffinati prodotti dei palazzi. Lo stesso vale anche per gli oggetti metallici e per gli altri beni di lusso, come gli intagli d’avorio. La loro diffusione e i testi in lineare B dimostrano che le materie prime erano importate dall’amministrazione centrale e che venivano lavorate sotto la sua sorveglianza. Sembra che anche il commercio fosse monopolio dei centri palaziali.
Nessuno può mettere in dubbio le grandi conquiste culturali della civiltà micenea e il suo importante contributo alla storia culturale della Grecia. Per i Greci di età storica quel periodo, che noi chiamiamo miceneo dai nome del suo primo centro riscoperto, era l’età degli eroi. Anche i miti riflettono questa concezione: i loro drammatici avvenimenti si svolgono nelle residenze dei primi palazzi micenei. Inoltre, le descrizioni geografiche di Omero, e soprattutto il catalogo delle navi dell’Iliade, testimoniano in maniera chiara, malgrado tutte le trasformazioni intervenute dai tempi della prima civiltà micenea, della grandezza di quei regni che, ai tempi del poeta, non trovavano riscontro.
Il sistema palaziale minoico fu senz’altro esemplare per i complessi palaziali micenei. Ma i territori soggetti ai centri minoici erano più ridotti, e il controllo amministrativo dei palazzi risultava meno centralizzato. Conviene dunque, oltre all’organizzazione dei palazzi minoici, evocare come modelli anche le burocrazie centralizzate del Vicino Oriente: di fatto il sistema palaziale miceneo presenta moltissimi tratti in comune con i regni contemporanei dell’Asia Minore. L’organizzazione palaziale dei regni micenei, inoltre, fu il primo esperimento greco di una politica espansionistica ad ampio raggio. L’esperimento si rivelò relativamente breve e finí intorno al 1200 a. C. con la caduta dei palazzi e la conseguente scomparsa della lineare B impiegata nell’amministrazione. Da allora i Greci rimasero per diversi secoli senza scrittura.
Poco importa quali tra le teorie avanzate sul declino della civiltà micenea siano esatte, poiché è stato giustamente notato che furono aspetti negativi interni a determinare la fine di quella grande civiltà.
I regni facenti capo ai palazzi micenei erano troppo piccoli per sostenere senza ricadute negative, le enormi richieste dei loro sovrani desiderosi di affermare e ostentare il proprio potere, soprattutto nelle gigantesche fortificazioni da loro volute. I palazzi stentavano a nutrire la gran massa di personale al loro servizio che i testi in lineare B enumerano. Le ricerche piú recenti hanno dimostrato che questi problemi condussero a uno sfruttamento eccessivo delle superfici agricole utili, con danni durevoli. Il carattere monopolistico e centralizzatore delle signorie insediate nei palazzi, che si rivolgeva soprattutto al commercio internazionale, doveva prima o poi trascinare tutto il sistema nel suo fallimento soprattutto se il centro piombava in una difficile crisi. Un sistema economico di questo genere è facilmente vulnerabile dinanzi a fattori interni ed esterni, come la chiusura delle rotte commerciali, il sopravvento di turbolenze sociali, le guerre, le carestie, le siccità, i terremoti. Tutti fattori questi, che gli economisti hanno invocato come causa della fine della civiltà palaziale micenea. La prossima volta che i Greci affronteranno l’esperimento di un’organizzazione statale, quella della polis o città-stato, le cose prenderanno tutt’altro aspetto.
La più antica documentazione archeologica micenea rinvenuta in Italia appartiene alla fase formativa di tale civiltà ed è quantitativamente più rilevante di quella contemporanea rinvenuta in Oriente. Dal punto di vista distributivo, i reperti dell’E.T. I e II, quasi esclusivamente rappresentati da ceramiche, sono prevalentemente concentrati negli arcipelaghi del basso Tirreno, in particolare nelle Isole Eolie (fig. 4) e in quelle Flegree, con qualche sporadico indizio lungo le coste dell’Italia meridionale, da Molinella sul Gargano, a Punta le Terrare presso Brindisi, a Porto Perone poco a sud di Taranto, a Capo Piccolo presso Crotone. La scarsezza di testimonianze di questo periodo lungo le coste dell’Italia meridionale potrebbe forse essere imputata a lacune delle nostre conoscenze, come tante volte è successo per salti apparenti nella distribuzione di materiali importati, che sono poi colmati da ricerche mirate. Non è però da escludere il fatto che la presenza sporadica di piccole quantità di materiali importati lungo le coste dell’Italia meridionale, confrontata con la ricchezza di tale documentazione nelle isole del basso Tirreno, potrebbe essere spiegata con la diversa qualità di rapporti fra Micenei e popolazioni indigene. I siti costieri peninsulari infatti, allo stato attuale delle ricerche, sembrano configurarsi come piccoli scali lungo la rotta verso il Tirreno, forse più per la necessità di approvvigionamento di cibo e acqua (o di stazionamento notturno), piuttosto che come poli di scambio con le comunità locali.
D’altra parte gli arcipelaghi del basso Tirreno, in particolare quello eoliano, sono stati fin dal Neolitico punti di riferimento per navigazioni a breve e medio raggio, come mostra l’ampia distribuzione dell’ossidiana di Lipari. Inoltre l’approdo e i contatti con popolazioni di piccole isole si presentano in generale meno pericolosi e ricchi di incognite che non quelli con zone provviste di ampio e sconosciuto entroterra. In questo senso è importante sottolineare che sia le Eolie che l’arcipelago flegreo, pur non possedendo direttamente giacimenti metalliferi, erano in grado di procacciarsi altrove il rame, come dimostrano resti di fusione avvenuta in loco. E, come sappiamo, la ricerca di risorse metallifere era per i Micenei certamente di fondamentale importanza, specialmente in una fase che vedeva le fonti di approvvigionamento orientali ancora controllate dai palazzi cretesi.
A parte le più antiche documentazioni di materiali archeologici micenei, localizzati soprattutto a Troia e solo molto sporadicamente in altri siti, notiamo un cambiamento significativo a partire dal tardo XV secolo (E.T. IIIA). In tale periodo nei centri più importanti, quali Iaso e Mileto, alla presenza minoica si è ormai sostituita la presenza micenea, mentre ha inizio la documentazione di Panaztepe (Menemen), Efeso e Müsgebi (Alicarnasso). Possiamo comunque constatare che le necropoli di questi siti, più conosciute rispetto agli abitati, pur presentando una massiccia influenza micenea sia nel tipo dei reperti sia nelle forme tombali (piccole tholoi a Panaztepe, tombe a camera a Müsgebi), conservano una non trascurabile componente anatolica, sia nella presenza di materiali di tipo locale, sia – soprattutto – nell'uso diffuso della cremazione, pratica funeraria di tradizione anatolica ed estranea alla civiltà micenea di questo periodo. La documentazione archeologica, molto fitta lungo tutta la costa egea e nell'immediato entroterra, è però assai frammentaria e sostanzialmente edita in modo assai insoddisfacente. Fa eccezione Troia, sito per il quale disponiamo di una sequenza stratigrafica attendibile, di una serie di pubblicazioni definitive, accompagnate da numerosi studi interpretativi, e conosciamo, almeno per un periodo, sia l’abitato che la necropoli.
Fra gli abitati, i più importanti – Mileto e Iaso – continuano una lunga tradizione precedente; la carenza di pubblicazioni particolareggiate ci rende però impossibile la piena comprensione delle loro sequenze.
Molto limitata appare la documentazione di reperti micenei in area propriamente ittita. Alle ceramiche rinvenute a Masat, note già da tempo, si aggiunge ora una importantissima spada rinvenuta nella capitale Bogazköy-Hattusa. Il sito di Masat Höyük è localizzato nell’area nord-orientale della penisola anatolica, a circa 115 chilometri a nord-est di Bogazköy, ai confini con l’area pontica abitata dai Kaskei, tradizionali nemici del regno ittita, nei confronti dei quali Masat Höyük doveva certo fungere da avamposto. La cittadella nel massimo del suo splendore ospitò un imponente palazzo sulle rovine del quale, nel XIII secolo a.C., sorse un edificio di più modeste dimensioni al cui interno sono stati rinvenuti almeno cinque vasi micenei (fiaschette globulari e giarette a staffa).
Diverso è il caso del recentissimo ritrovamento della spada di Bogazköy; la sua eccezionalità risiede essenzialmente in due punti: 1) la spada, lunga circa 80 centimetri, in buone condizioni di conservazione, si può facilmente inquadrare come derivata da un tipo ben conosciuto in ambiente miceneo nel XVI e XV secolo a.C. e completamente estraneo all’ambiente cretese (un esemplare di questo tipo era già conosciuto a Smirne); 2) sul bordo della lama è incisa un’iscrizione cuneiforme, il lingua accadica, che recita: «Come Tuthalija il grande re vinse la terra di Assuwa, dedicò spade al dio della tempesta, suo signore».
Considerando che numerosi studiosi localizzano la terra di Assuwa nell’Anatolia nord-occidentale, non desta meraviglia che questa spada di tipo miceneo sia stata presa come bottino, e dedicata dal re Tuthalija come elemento tangibile di un’azione militare condotta con successo. Se, come appare assai plausibile, il re dedicante è da identificarsi con Tuthalija II, regnante alla fine del XV secolo a.C., anche la cronologia dell’evento è perfettamente compatibile con il periodo di uso di questo tipo di arma.
Nel trattare le relazioni fra il mondo miceneo e l’Anatolia non si può tralasciare la controversa problematica relativa agli Ahhiyawa, menzionati più volte nei testi ittiti nel periodo tra il tardo XV e la fine del XIII secolo a.C. Questo popolo è insediato certamente a ovest del territorio ittita, è collegato ad attività marinare, ha rapporti non facili, talvolta bellicosi, con i sovrani ittiti, viene comunque da essi riconosciuti indipendenti. Non pochi studiosi hanno assimilato gli Ahhiyawa agli Achei e le problematiche connesse ai testi che li menzionano sono state e continuano ad essere oggetto di acceso dibattito e comunque di grande attenzione. La bibliografia sull’argomento è amplissima ed è raccolta sostanzialmente in due filoni. Il primo filone, al quale aderisce un maggior numero di studiosi, pur con ampie differenze al suo interno, sostiene la validità dell’equazione Ahhiyawa=Achei, vedendo in essi gli stessi Achei di Grecia oppure gruppi di Micenei d’oltremare stanziati in territori dell’Egeo orientale (isole e/o costa anatolica). Un secondo filone nega invece del tutto l’identificazione suddetta.
Pur concedendo che l’equazione Ahhiyawa=Achei non può considerarsi del tutto provata, a suo favore militano non poche coincidenze che la rendono assai verosimile, a cominciare dal fatto che, grazie all’innalzamento cronologico di alcuni testi ittiti, le citazioni di questo gruppo sono concentrate tra XV e XIII secolo a.C., periodo che corrisponde a quello della massima potenza micenea ed è caratterizzato da intense relazioni dei Micenei con il Mediterraneo orientale, come possiamo constatare dai documenti archeologici (fig. 7).
Se ci spingiamo oltre e accettiamo anche l’identificazione di Millawanda (o Milawata) con Mileto, centro ricco di documentazione archeologica prima minoica e poi micenea, possiamo notare che l’intensa attività diplomatica e militare testimoniata dai documenti ittiti in relazione a questo sito ha una certa rispondenza dei dati archeologici. Infatti sappiamo di un attacco portato contro Millawanda da Mursili II (fine XIV secolo a.C.) che ben corrisponderebbe alla distruzione del sito nell’E.T. IIIA2. Più tardi, alla metà del XIII secolo a.C., a Mileto viene eretta una possente fortificazione e Millawanda è citata nuovamente in relazione ad attività belliche.
a. Sicilia e Isole Eolie. L’interesse mostrato dai Micenei per il Mediterraneo centrale continua, ampliando assai i suoi orizzonti e in parte modificando le aree di principale attività. Sembra tramontare l’interesse per l’arcipelago flegreo, dove la documentazione archeologica non è posteriore all’E.T. IIIA, mentre continua con alcune modifiche quella per l’arcipelago eoliano, che varia anche in ragione delle vicende interne degli insediamenti insulari. Infatti continua a fiorire il grande abitato sull’acropoli di Lipari, ma cessa di esistere quello sulla Montagnola di Capo Graziano nell’isola di Filicudi, forse soppiantato da quello Milazzese di Panarea, più aperto ai collegamenti con la cultura appenninica che in questo periodo caratterizza buona parte della penisola italiana.
All’E.T. IIIA e, più limitatamente alla prima parte del IIIB appartengono in maggioranza i reperti archeologici micenei rinvenuti in Sicilia, soprattutto nelle necropoli del Siracusano. La più importante è la necropoli di Thapsos, ricca di reperti micenei ai quali si mescolano talvolta ceramiche cipriote e maltesi che danno una concreta immagine della varietà dei traffici del sito. L’importante abitato omonimo, messo in luce nell’ultimo ventennio, ha avuto varie fasi edilizie che lo hanno trasformato da abitato di tipo indigeno, composto di capanne circolari, presumibilmente contemporaneo alle tombe del XIV secolo a.C., in abitato pianificato con edifici rettangolari pluriambienti, aprentesi su una piazza pavimentata, la cui cronologia particolareggiata rimane ancora da definire.
I recenti scavi dell’abitato di Cannatello, nell’immediato entroterra della costa a est di Agrigento, hanno messo in luce abbondante ceramica dell’E.T. e M.T. IIIA2 e IIIB, mista a ceramica cipriota, che integra in modo assai significativo gli elementi egei e ciprioti già individuati lungo la valle del Platani, soprattutto a Milena (fig. 10) e a Caldare.
b. Italia peninsulare. Per quanto riguarda l’ambiente peninsulare, la maggior parte dei nostri dati è concentrata nell’Italia meridionale, soprattutto in Puglia, Basilicata e Calabria settentrionale ionica.
Il centro più importante dal punto di vista dei rapporti diretti con le cittadelle micenee sembra essere l’insediamento dello Scoglio del Tonno (fig. 11), situato all'imboccatura naturale del Mar Piccolo di Taranto che rappresenta una delle più straordinarie insenature naturali del Mediterraneo in quanto ad ampiezza e situazione protetta.
Al gran numero di siti pugliesi per i quali è segnalata la presenza di materiali micenei non corrisponde però un’adeguata conoscenza, a causa del lacunoso stato di edizione della maggior parte di essi. In base a quanto è noto nessun sito, a parte lo Scoglio del Tonno, appare assumere una particolare importanza per quanto concerne i rapporti con l’Egeo prima del XIII secolo a.C.
Grazie ad una serie di indagini recenti lungo l’arco ionico della Basilicata e soprattutto della Calabria, oggi però disponiamo di una serie di nuovi dati, soprattutto relativi al XIII-XII secolo a.C., che gettano una luce nuova sulla qualità delle relazioni fra l’Egeo e l’Italia peninsulare in questo periodo.
Conviene dare la precedenza alla Sibaritide, regione caratterizzata dalla piana del fiume Crati e dall'ambiente collinare circostante, oggetto, fin dal 1979, di indagini protostoriche sistematiche, territoriali e di scavo, in particolare nei siti subcostieri di Broglio di Trebisacce e di Torre Mordillo, situati rispettivamente a nord e a sud del Crati.
L’abbondante ceramica di tipo egeo, nella quale sono riconoscibili sia apporti continentali che apporti cretesi (fig. 12), ritenuta inizialmente tutta di importazione, ha poi mostrato peculiarità tecnologiche e tipologiche che ne hanno fatto sospettare l’imitazione. Oltre ad essa, sia a Broglio che a Torre Mordillo sono state individuate due classi ceramiche specializzate con particolarità tecnologiche originali, riconducibili alla tradizione egea. Si tratta della ceramica grigia depurata e tornita (fig. 13) che ricorda per aspetti tecnologici la cosiddetta ceramica minia della media età del Bronzo greca e di una classe di grandi contenitori in argilla depurata, i cosiddetti dolii cordonati che si ispirano ai caratteristici pithoi egei usati principalmente, ma non esclusivamente, per l’immagazzinamento di derrate alimentari. Anche queste classi sono da considerarsi di manifattura locale.
Il caso della Sibaritide pone in modo perentorio il problema dei processi di acculturazione e delle prassi artigianali che portano alla produzione di classi ceramiche specializzate di ispirazione egea in un ambiente che continua a produrre, per larga parte delle necessità quotidiane, ceramica di impasto non depurato e non tornito, non dipinta e cotta con procedimenti non sofisticati. L’ipotesi sulla quale si sta lavorando per il momento è che si sia in presenza, almeno per le prime manifestazioni, di artigiani itineranti, di provenienza e formazione egea, che, a somiglianza con quanto sappiamo per gli artigiani metallurghi, abbiano circolato nei due ambienti.
Per quanto riguarda la ceramica dipinta di tipo egeo, ma di fabbricazione locale , un sito subcostiero della massima importanza è quello di Termitito in Basilicata, situato lungo la valle del Cavone. La straordinaria abbondanza e varietà dei reperti di tipo egeo (fig. 14), noti però solo limitatamente, ne fa un punto chiave per la comprensione delle problematiche inerenti alle botteghe artigianali «italo-micenee».
Interessante è poi la presenza di ceramica micenea in quella che sarà la futura Etruria meridionale, nei siti di Luni sul Mignone, San Giovenale e Allumiere, che fa pensare ad uno scambio indiretto, ossia ad un passaggio di mano in mano, fra gruppi indigeni, di oggetti giunti in approdi più meridionali.
c. Sardegna. Le possibili relazioni egee della Sardegna, fino a pochissimi anni fa, erano più ipotizzate che documentate. La copertura a tholos delle camere interne di alcune torri nuragiche, suggestivamente simile a esempi di architettura funeraria micenea, aveva per alcuni studiosi dato sostanza alle leggende che collegano all’isola il mitico artefice Dedalo. Ampie e approfondite discussioni recenti sull’argomento hanno visto prese di posizione a favore o contro questa ipotesi.
Per quanto concerne i materiali mobili, gli unici documenti che potevano ragionevolmente essere presi in considerazione erano i famosi lingotti di rame a forma di pelle di bue, rinvenuti nell’isola fin dal secolo scorso (fig. 15). circa quindici anni fa, la scoperta di alcuni frammenti di ceramica micenea nel territorio di Orosei e, soprattutto, lo scavo del Nuraghe Antigori, presso Cagliari, portarono alla luce una grandissima quantità di ceramica micenea, contribuendo anche a dare un ancoraggio cronologico relativo e assoluto ai materiali indigeni di contesto, fino ad allora non ben inquadrati.
All’Antigori, accanto a una varietà notevole di ceramiche dell’E.T./M.T. IIIB importate dal Peloponneso, da Creta e da Cipro, si possono anche definire ceramiche di imitazione che presentano caratteristiche artigianali e produttive assai meno accurate di quelle delle ceramiche «italo-micenee» della Sibaritide o di altri siti dell’Italia meridionale. Recenti ricerche nel Nuraghe Arrubiu di Orroli hanno portato alla luce un alabastron miceneo, di provenienza peloponnesiaca, databile al IIIA, che sembra essere attualmente il pezzo più antico rinvenuto nell’isola (fig. 16). Ciò verrebbe a confermare la stessa cronologia proposta per un importante frammento di testina di avorio con elmo a denti di cinghiale, appartenente a un ben noto tipo di guerriero miceneo, rinvenuto a Decimoputzu, in Sardegna meridionale (fig. 17).