La convinzione che il popolo etrusco rappresenti un "mistero" è talmente radicata nell’opinione corrente, anche a livello di persone di buona cultura, che essa è diventata un vero e proprio "luogo comune". Quando si parla di Etruschi viene subito in mente l’idea del mistero, di un mondo ancora tutto da scoprire e da decifrare. Questo perché si è sempre preferito avvicinarsi a questa civiltà in un modo fantasioso e romanzesco trascurando le evidenze storiche e i risultati della ricerca archeologica. Si tratta di un atteggiamento che affonda le proprie radici nel passato, nelle incomprensioni dei Greci e dei Romani, nella riscoperta avventurosa del Sette-Ottocento ma che nasce anche da alcune indubbie particolarità del mondo etrusco e dal fascino di certe testimonianze archeologiche.
La scienza, oggi, però, ci consente di ricostruire un quadro sufficientemente chiaro e completo della civiltà etrusca, nelle sue caratteristiche di fondo e nelle sue linee evolutive, ivi compresi quei temi che maggiormente hanno stimolato la nascita del "mistero" etrusco: le origini, la lingua e la fine.
Sull'origine e la provenienza degli Etruschi è fiorita nel corso dei secoli una notevole letteratura. Una delle posizioni, a mio avviso, più convincenti sull'origine del popolo etrusco è quella di Massimo Pallottino. Nel suo manuale Etruscologia, egli, affrontando il tema da una prospettiva completamente nuova, arriva a sostenere come la vexata questio sull'origine del popolo etrusco, così come è stata impostata sin dall'inizio, praticamente non abbia ragione di esistere. Questo per il semplice motivo che gli Etruschi non sono documentati in nessun'altra parte del mondo che non sia l'Italia, ovvero più precisamente in quella regione che comprende l'alto Lazio e la Toscana (Etruria propria) e parte dell'Emilia Romagna (Etruria Padana). Quindi è del tutto errato ritenere che essi possano essere giunti in Italia (da qualsiasi altra parte) come una civiltà già formata e culturalmente definita, e conseguentemente è assurdo affannarsi alla ricerca del luogo della loro presunta provenienza. Ne deriva che l’origine degli Etruschi deve essere ricercata in Italia. O meglio, che il problema delle origini etrusche debba essere affrontato non tanto dal punto di vista di una "provenienza" o "migrazione" esterna, bensì dal punto di vista di una "formazione". Ovvero deve essere visto come un processo graduale di evoluzione, di trasformazione, di integrazione e di commistione di elementi diversi (di carattere etnico, culturale, sociale, linguistico), di origine "interna" ed eventualmente "esterna" che ha avuto come esito finale la nascita in Etruria, a partire dall'VIII-VII sec. a.C., del popolo etrusco e della sua peculiare civiltà: una realtà nuova e fuori d’Italia inesistente. Il risultato di questo processo è dunque l’unico dato certo che abbiamo in nostro possesso. Il resto, ossia tutto quello che ha contribuito a determinarlo (le componenti, le derivazioni, i modi e i tempi) resta da indagare come un argomento di ricerca scientifica.
Da quanto appena detto, appare evidente come la situazione sia ben più complessa e articolata di quanto non apparisse agli antichi che risolvevano l'origine degli Etruschi con l’idea della migrazione (del resto, con tale idea essi spiegavano l’origine di molti altri popoli).
Spiegare l'origine di un popolo attraverso una migrazione comporta il rischio di innescare una ricerca a ritroso nel tempo senza fine, o meglio senza inizio. Se il popolo A discende dal popolo B, allora il popolo B deriverà da un popolo C e così via indietro nel tempo.
Le teorie che maggiormente si affermarono in antico sull'origine degli Etruschi facevano concordemente arrivare gli Etruschi in Italia dall'Oriente, poco prima dell'inizio dei tempi storici. L'unica divergenza riguardava il popolo dal quale gli Etruschi sarebbero derivati.
Secondo Erodoto (il grande storico greco del V secolo a.C.) gli Etruschi sarebbero stati dei Lidi che, in seguito ad una terribile carestia, avrebbero abbandonato la loro patria in Asia Minore e, salpati da Smirne, sarebbero giunti in Italia sotto la guida di Tirreno (figlio del re di Lidia, Atys) dal quale avrebbero poi preso il nome di Tirreni o Tyrsenòi, (come tradizionalmente i Greci chiamavano gli Etruschi). Secondo Ellanico e Anticlide (altri due storici greci rispettivamente del V e del IV-III secolo) gli Etruschi sarebbero da identificarsi con i Pelasgi, un popolo nomade giunto in Italia dopo aver girovagato per il mare Egeo (secondo Ellanico) o dopo aver colonizzato le isole di Imbro e Lemno (secondo Anticlide).
La tesi che si impose nell'antichità, finendo per diventare opinione comune, fu quella di Erodoto. Andiamo quindi a rileggere nelle pagine delle sue Storie, il racconto che egli riferisce di aver appreso dagli stessi abitanti della Lidia: «Al tempo di Atys, figlio del re Mane, ci fu in tutta la Lidia una tremenda carestia, e i Lidi per qualche tempo vissero sopportandola, ma poi, dato che non cessava, cercarono rimedi... Il re, divisi in due gruppi tutti i Lidi, ne sorteggiò uno per rimanere, l'altro per emigrare dal paese e al gruppo cui toccava di restare si lasciò lui stesso come re, all'altro che se ne andava pose a capo suo figlio, che aveva nome Tirreno. Quelli che ebbero in sorte di partire dal paese si recarono a Smirne e cominciarono a costruire navi; quindi, raccolte su di esse tutte le cose che erano loro utili, si misero in mare alla ricerca di mezzi di sostentamento e di terra, finché, oltrepassati molti popoli, giunsero al paese degli Umbri, ove costruirono città e abitano tuttora. Ma in luogo di Lidi mutarono il loro nome prendendolo da quello del figlio del re che li guidava e si chiamarono Tirreni».
Il successo di questo racconto, narrato da Erodoto, fu tale che l'origine lidia degli Etruschi fu unanimemente accettata dagli scrittori antichi tant'è che Virgilio (tanto per fare un esempio) usa indifferentemente, nell'Eneide, i due termini Lidi ed Etruschi.
I moderni studiosi che sostengono la tesi erodotea hanno cercato di suffragare l'ipotetica migrazione dei Lidi con l'affermazione in Etruria della fase culturale cosiddetta "orientalizzante", largamente documentata nel corso del secolo VII a.C. (quindi agli inizi della civiltà etrusca) attraverso la presenza di oggetti, specialmente ceramici, e anche di usi e costumi provenienti dai paesi del bacino orientale del Mediterraneo e del Vicino Oriente. Ma questa ipotesi si scontra con i risultati della ricerca archeologica: l'influsso culturale dell'Oriente, nel VII secolo a.C., non interessa soltanto l'Etruria ma anche la Grecia e altri paesi del comparto occidentale del Mediterraneo; la facies "orientalizzante" si manifesta in Etruria con un passaggio graduale dalla fase culturale precedente (dei secoli XI-VIII a. C. ) rispetto alla quale non c'è dunque un cambiamento istantaneo, un momento di rottura quale ci sarebbe stato con l'avvento improvviso di un popolo nuovo.
Sostenitore di una tesi diametralmente opposta a quella di Erodoto fu lo storico greco di età augustea Dionigi d'Alicarnasso, che, nelle sue Antichità romane, respinse l'identificazione degli Etruschi con i Lidi o con i Pelasgi, ritenendo che essi non erano arrivati da fuori ma "autoctoni". A suffragio di questa sua tesi egli affermò di aver appreso quella opinione dagli stessi Etruschi, i quali, fece notare, chiamavano se stessi Rasenna e non Tirreni. Dionigi d'Alicarnasso rimase però inascoltato e la sua teoria non ebbe seguito. Soltanto in tempi recenti essa ha goduto di considerazione, quando gli studiosi sono tornati a riesaminare le opinioni degli antichi per trovare una soluzione a quello che — anche sulla base di quella voce fuori dal coro — era diventato il "problema delle origini etrusche" (e, per i piú, uno dei principali "misteri" attribuiti a quel popolo).
Gli ultimissimi studi condotti sul DNA mitocondriale sembrano poter porre la parola fine a questa secolare questione dando ragione proprio allo storico Dionigi.
È quanto emerso da una ricerca pubblicata sulla rivista Plos One nel 2013, coordinata da Guido Barbujani, docente di genetica dell’Università di Ferrara, e David Caramelli, docente di antropologia dell’Università di Firenze, e realizzato in collaborazione con l’Istituto di tecnologie biomediche del Consiglio nazionale delle ricerche (Itb-Cnr) di Milano.
Lo studio è stato effettuato analizzando il Dna degli abitanti delle zone di Volterra e del Casentino, dove si rinvengono ancora Dna identici a quelli degli etruschi di 2.500 anni fa, sebbene gli odierni abitanti della Toscana discendano per lo più da antenati immigrati in tempi più recenti. «Leggere nel Dna di persone così antiche è difficile», spiega Barbujani. «I pochi Dna finora disponibili non permettevano di dimostrare legami genealogici fra gli etruschi e i nostri contemporanei. Lo scorso anno (2012, ndr) il team guidato da Caramelli è riuscito a studiare un numero consistente di reperti ossei; così ci siamo resi conto che comunità separate da pochi chilometri possono essere geneticamente molto diverse fra loro e abbiamo visto come l’eredità biologica degli etruschi sia ancora viva, anche se in una minoranza dei toscani» Secondo Barbujani, «il confronto con Dna provenienti dall’Asia dimostra che fra Anatolia e Italia ci sono state migrazioni, ma risalenti a migliaia di anni fa e non hanno rapporto con la comparsa della civiltà etrusca nell’VIII secolo avanti Cristo. Viene così smentita l’idea di un’origine orientale degli etruschi, ripresa alcuni anni fa, da studi genetici che però si basavano solo su Dna moderni».
Queste analisi sembrano aver dato dunque risposta a una domanda vecchia di millenni sull’origine degli Etruschi, ma lasciano aperte alla ricerca archeologica tutte le questioni riguardanti gli elementi che hanno concorso alla nascita di una civiltà così particolare e peculiare come quella etrusca.
Lungamente avvolta da un'aura affascinante di mistero, la lingua etrusca è ormai ampiamente nota e interpretata almeno nelle sue linee generali; la mancanza di testi completi e di vario argomento, infatti, impedisce l'acquisizione di parole e costrutti nuovi tali da permettere un progresso ulteriore rispetto alle conoscenze raggiunte fino ad ora, peraltro in continua elaborazione. Il problema di base era (ed è) il fatto che l'etrusco non offre somiglianze rilevanti con le altre lingue classiche che si apprendono con formule paradigmatiche ormai standardizzate.
D'altra parte, poter leggere quanto una civiltà ha espresso e tramandato di proprio pugno è uno strumento fondamentale per poterla conoscere sempre meglio e in profondità. Gli Etruschi purtroppo non hanno lasciato libri né testi scritti; quelli di cui oggi disponiamo sono solo frammenti, importantissimi certo, ma pur sempre poca cosa in confronto per esempio alla contemporanea straordinaria messe di testi egizi, greci e romani arrivati fino a noi. La mancanza di materiali ha sempre creato difficoltà e alcuni sostengono che gli Etruschi abbiano addirittura distrutto volontariamente i propri libri più preziosi (per esempio quelli relativi all'aruspicina) quando hanno capito che la loro civiltà era ormai volta al termine, impedendo così che finissero nelle mani sbagliate. Tutto ciò ha contribuito ad alimentare il clima di mistero che circondava gli Etruschi, portatori di una lingua incomprensibile di cui restavano scarsissime testimonianze.
L’origine dell’alfabeto etrusco provocò in passato molte discussioni, oggi in gran parte superate. Escluse talune ipotesi più o meno fantasiose su remote e dirette trasmissioni di sistemi grafici dal Vicino Oriente e dall’Egeo, è ormai fuor di dubbio che la scrittura alfabetica fu introdotta nell’Italia centrale tirrenica e particolarmente in Etruria dai colonizzatori greci del mezzogiorno della penisola, con speciale riguardo ai coloni provenienti dall’isola di Eubea (Calcidesi ed Eretrii) installati a Pitecusa e a Cuma: come provano la particolare affinità dell’alfabeto etrusco al modello dell’alfabeto greco occidentale e l’esistenza di affinità formali con la più antica epigrafia pitecusana (confermata tra l’altro dalla scoperta dell’iscrizione vascolare detta della «coppa di Nestore» risalente all’VIII secolo a.C.). Il modello ideale dell’alfabeto etrusco è comunque rappresentato da una serie alfabetica, o alfabetario, di 26 lettere incisa sul bordo di una tavoletta scrittoria d’avorio ritrovata a Marsiliana d’Albegna (databile al secondo quarto del VII secolo a.C.) e riprodotta più o meno integralmente su diversi altri oggetti (come la boccettina di Cere o il bucchero a forma di galletto del Viterbese, entrambi del VII secolo a.C.) che contiene l’esatta trascrizione in etrusco di tutte le lettere dell’alfabeto fenicio trasmesse ai Greci più i segni complementari creati da quest’ultimi. Non si può del resto del tutto escludere che alcune lettere siano arrivate in Etruria nel corso del VII secolo a.C. da ambienti ellenici diversi da quello euboico: per esempio la sibilante (simile alla nostra s) derivata dal sade fenicio (M).
Ben presto, forse sempre nel corso del VII secolo, prese avvio il processo di adattamento dell’alfabeto greco alle esigenze fonetiche della lingua etrusca: dalle originarie 26 lettere della tavoletta di Marsiliana d’Albegna si passò alle 22 lettere usate in Etruria eliminando le consonanti sonore b,d e g e la vocale velare o, in quanto segni corrispondenti a suoni assenti nel sistema fonologico etrusco.
La trasmissione dell’alfabeto greco in Etruria è un fatto che rientra in un quadro storico-culturale di notevole ampiezza e cronologicamente può collocarsi alla fine dell’VIII secolo a.C. È infatti nel corso di questo secolo che i rapporti tra il mondo euboico delle colonie di Pitecusa e di Cuma e quello dell’Etruria meridionale si fanno particolarmente intensi: in quest’ultima area arrivano dall’ambiente greco-euboico ceramiche dipinte e maestri ceramisti che diffondono nuove tecniche, un nuovo gusto, nuovi usi. Prodotti dell’artigianato etrusco, databili tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII secolo a.C., sono stati rinvenuti a loro volta in centri euboici: forse un cinturone bronzeo in Eubea, scudi di lamina bronzea a Cuma, anfore di impasto con decorazione a spirale a Pitecusa. Già nell’VIII, ma in maniera massiccia dalla seconda metà dell’VII secolo a.C., arrivano in Etruria da Corinto vasi dipinti e unguentari destinati alla toilette femminile; giungono inoltre pittori e scultori che vi lavoreranno e favoriranno lo sviluppo locale delle forme d’arte che essi esercitano. Questi ultimi, secondo la tradizione, sarebbero arrivati verso la metà del VII secolo a.C. al seguito del ricco commerciante Demarato, al quale una tradizione conservata da Tacito attribuisce l’introduzione della scrittura in Etruria.
Tuttavia, l’esistenza di questi intensi scambi non presuppone che la circolazione dei beni e della scrittura interessi tutti i gruppi sociali. Come però i pezzi allotri rinvenuti in Etruria appartengono ai corredi più ricchi e sono pertanto una connotazione del ceto abbiente, così le più antiche iscrizioni etrusche si trovano su oggetti di valore e di alta qualità — ori, argenti, bronzi, vasi dipinti importati e locali, buccheri fini eccetera — e indicano attraverso formule diverse il possesso dell’oggetto: in altre parole, nel contesto sociale etrusco del VII secolo le iscrizioni come i manufatti importati sono status symbol della classe aristocratica. Tuttavia tra la fine del VII e il VI secolo a.C. nella società etrusca si registrano trasformazioni profonde: accanto al ceto aristocratico si affermano il ceto medio e, conseguentemente l’ideologia urbana. I rappresentanti del nuovo ceto si appropriano dei segni che avevano connotato gli aristocratici tra l’VIII e il VII secolo. Così la scrittura, o, se si vuole, la moda di far parlare un oggetto attraverso l’iscrizione, si democratizza e diventa appannaggio di questo nuovo ceto. Nel corso del VI secolo l’alfabeto si evolve ulteriormente: viene introdotta la lettera indicata con il simbolo 8 per indicare il suono della nostra spirante labiodentale f e la consonante gutturale sorda g viene indicata con la già esistente C nell’Etruria meridionale e con K nell’Etruria settentrionale. Proprio quest’ultima differenza distingue due dei tre alfabeti attestati in tutta l’Etruria. Secondo M. Cristofani infatti le zone con diversità alfabetiche sono tre: una più meridionale con le città di Cere e di Veio, una centrale con Tarquinia, Vulci e Orvieto ed una settentrionale con il resto dell’Etruria e la val Padana; per l’Etruria campana troviamo una distinzione fra area costiera ed interna, i cui alfabeti, coerentemente con le lontane origini delle due colonizzazioni della regione, dipendono rispettivamente da quelli di Tarquinia e Veio.
Nel V e IV secolo a.C. l’evoluzione del sistema grafico continua (anche se con fenomeni di minore portata) con l’abbandono di alcuni elementi che porta il numero delle lettere dell’alfabeto a 20.
Riconosciute quindi vocali e consonanti, si riconoscono i pronomi personali (es. mi = io, mini = me), i pronomi e gli aggettivi dimostrativi (es. ca o eca = questo). Qualcosa si può dire per gli avverbi (es. thui = qui, ich = come), le congiunzioni e le particelle di congiunzione anche di tipo enclitico (come -c = e, equivalente al latino -que di senatus populusque). Per quanto riguarda il verbo, anche se le cognizioni non sono molte e spesso controverse, si individuano tuttavia numerose radici e diverse forme verbali, sempre caratterizzate da suffissi che, con sfumature a volte imprecisabili, specificano funzioni diverse, specialmente del passato (es. svalce = visse, ha vissuto; svalthas = avendo vissuto, dalla radice sval- = vivere) e anche in senso passivo (zichuche = è stato scritto, rispetto a zichunce = scrisse, ha scritto). Una conoscenza ormai acquisita con notevole margine di sicurezza riguarda il sistema numerale che appare di tipo decimale, simile al latino, e con le cifre indicate, pure come in latino e greco, con segni tratti almeno in parte dall’alfabeto. Lo stesso si può dire per i nomi delle prime sei unità (thu = uno, zal = due, ci = tre, huth = quattro, mach = cinque, sa = sei), mentre per le restanti unità e per le decine, accanto a relative certezze, permangono lacune e incertezze.
Tra i vari testi, il documento noto come «libro della mummia di Zagabria» riveste un'importanza eccezionale non solo per la civiltà etrusca ma anche per le antichità classiche in genere poiché è l'unico libro sacrale su tela conservato finora per il mondo italico-romano e greco; proprio perché scritto su tela di lino si chiama liber linteus. Conservato attualmente nel Museo archeologico di Zagabria, questo, che è fino ad oggi il più lungo testo scritto in etrusco, fu acquistato nel 1848 da un collezionista croato, forse in Egitto o da un antiquario di New York, e donato al Museo. Si tratta di un libro di lino che aveva originariamente la forma di un panno ripiegato che veniva collocato vicino al defunto in una posizione riconoscibile in alcuni monumenti funerari etruschi. Successivamente venne riutilizzato e tagliato in bende per avvolgere la mummia di una donna egiziana di età tolemaica o romana portata in Egitto nel I secolo a.C. al seguito di una comunità etrusca, che si trasferì in un'Africa ormai romanizzata. Solo nel 1892 il Krall riconobbe la scrittura sulle fasce come etrusca. Il libro, purtroppo incompleto, scritto in inchiostro nero su dodici colonne di circa 35 righe (comprese entro una impaginatura di linee rosse) era diviso in paragrafi ed è oggi ricomponibile per circa 13 metri e mezzo di lunghezza e 39 centimetri di altezza, su cui sono scritte circa 1200 parole più o meno leggibili. Il contenuto, importantissimo, concerne prescrizioni rituali per cerimonie di culto strutturate in forma di calendario, precedute da formule di datazioni indicanti il giorno e il mese dell'anno; le cerimonie comprendono offerte in natura (cereali, vino, animali) e preghiere e si rivolgono a tutte le divinità del pantheon etrusco (aiser = dei), fra cui Tinia, Uni, Nethuns, a protezione di una comunità non meglio specificata («a favore della santità dell'arce, della città e del popolo»). I tentativi fatti fin qui per una interpretazione del testo si sono basati sul confronto con testi di natura analoga e sulla presenza di parole conosciute attraverso altre iscrizioni.Dal punto di vista della grafia dell'alfabeto con cui il testo è stato redatto, si può stabilire che esso provenisse da un ambiente riconducibile all'Etruria settentrionale interna; inoltre esso utilizza una lingua mista composta di elementi arcaici e recenti, ben comprensibili in un antico testo sacro accresciutosi nel tempo.
Al fine della comprensione/traduzione della lingua etrusca, importanti sono stati ovviamente anche i ritrovamenti di iscrizioni bilingui, cioè scritte in etrusco e «tradotte» in un'altra lingua nota (come la Stele di Rosetta per la civiltà egizia), dalle quali si ottengono informazioni di carattere non solo lessicale ma anche morfologico che hanno aiutato, e aiutano tuttora, gli archeologi nella comprensione sempre maggiore della lingua etrusca, della sua morfologia e della sua struttura sintattica.
Esse, tuttavia, sono rare (circa una trentina), costituite da poche parole con formulari ricorrenti poiché si tratta di formule onomastiche funerarie con indicazione del nome e, a volte, della carica del defunto. In questi casi le due lingue sono l'etrusco e il latino: è il caso dell'ossuario di Chiusi, della bilingue di Pesaro, dell'urna dalla tomba dei Volumni a Perugia...
Ma l'iscrizione forse più eclatante, e certo la più nota bilingue finora ritrovata, è costituita dalle «lamine di Pyrgi», tre tavolette d'oro rinvenute nel porto di Caere nel 1964. Pyrgi è indicata dalle fonti come uno dei porti di Caere, il più importante nel momento della talassocrazia etrusca sul Tirreno. L'area del santuario, in cui sono state rinvenute le lamine, ha rivelato le fondamenta di due edifici templari, denominati B e C. Le lamine si trovavano presso l'area sacra C dentro una specie di vasca, accuratamente arrotolate con ancora i chiodi per l'affissione su supporto ligneo. Due di esse conservano iscrizioni in etrusco, una breve di 9 righe e 15 parole e una lunga, di 15 righe e 36 o 37 parole; la terza è scritta in caratteri fenici con strette corrispondenze con l'iscrizione etrusca più lunga. I due testi, databili all'inizio del V secolo a.C., presentano la stessa sequenza: dedica alla dea fenicia Astarte, assimilata all'etrusca Uni; la sua motivazione, forse un favore concesso a Thefarie Velianas, evidentemente personaggio politico di grande rilievo; la clausola finale. La dea Uni-Astarte sembra chiaramente avere avuto un culto all'interno del santuario e ciò è significativo anche dei rapporti esistenti tra i Fenici probabilmente di Cartagine e gli Etruschi.
Delle oltre 10.000 iscrizioni in lingua etrusca ritrovate fino ad ora (e continuamente in accrescimento in seguito a scavi e rinvenimenti fortuiti) non tutte sono di entità rilevante ai fini della conoscenza della lingua stessa, anche perché molte sono poco più che elenchi di nomi dei defunti cui appartengono molti dei materiali iscritti ritrovati.
Tra le iscrizioni più importanti è la «tegola di Capua», una lastra di terracotta ora conservata nei Musei di Berlino. Si tratta di un'iscrizione di 62 righe conservate, divise in dieci sezioni comprendenti circa 300 parole leggibili; purtroppo la seconda parte del testo è molto rovinata. L'iscrizione, forse un documento d'archivio sacerdotale, riporta prescrizioni rituali da effettuare a diverse divinità del pantheon etrusco, evidentemente onorate nel santuario di Capua dove sono state rinvenute le iscrizioni. L'andamento della scrittura è tracciato in righe alternativamente rovesciate, con un ductus detto bustrofedico. Dal tipo di alfabeto usato e dal modo scrittorio è databile al V secolo a.C.
Un testo graffito su entrambe le facce di un lungo nastro di lamina di piombo, ritrovato frammentario vicino Santa Marinella, conserva tracce di circa 80 parole di cui una quarantina leggibili; una laminetta lenticolare sempre di piombo, trovata a Magliano e detta «disco di Magliano» e conservata ora nel Museo Archeologico di Firenze, ha un'iscrizione incisa sui due lati con andamento spiraliforme dall'esterno verso il centro; contiene almeno 70 parole.
Fra le iscrizioni propriamente epigrafiche spicca il cippo di pietra del Museo Archeologico di Perugia, un cippo di confine che presenta su entrambe le facce un'iscrizione di 46 righe e 136 parole. Tra le iscrizioni funerarie numerosissime, alcune delle quali anche di una certa estensione, si cita come esempio solo quella molto estesa del sarcofago di Laris Pulenas, conservato nel Museo Archeologico di Tarquinia, di 9 righe e 59 parole, iscritta rotolo aperto esibito dal defunto.
Di grande importanza è poi la recente scoperta della «Tabula cortonensis», una tavoletta bronzea con una lunga iscrizione ritrovata nel 1992 a Cortona in località Le Piagge, fatta risalire al II secolo a.C. e ancora sotto studio; essa infatti, pur incompleta, presenta ben 27 nuove parole mai incontrate nelle altre iscrizioni: un vero e proprio Eldorado per gli studiosi, i cui esiti però saranno noti solo in futuro. Vi è incisa un'iscrizione in lingua etrusca, la terza più lunga conosciuta dopo quella della Mummia di Zagabria e quella della Tabula Capuana. Misura 28,5×45,8 cm ed è spessa circa 2–3 mm. La tavola sembra facesse parte di un archivio notarile privato, forse il tabularium posto nella parte più sacra della casa. Fu più tardi rotta in 8 pezzi (apparentemente per essere fusa e riutilizzata) di cui solo 7 sono stati ritrovati. La tavola descrive un atto di vendita di vaste proprietà situate nel territorio del lago Trasimeno a est di Cortona.
Dai testi pervenutici è possibile avere indicazioni precise anche per quanto riguarda la tecnica e gli strumenti scrittori L’utilizzo pratico degli alfabetari, assai diffusi come testimoniano i ritrovamenti archeologici, doveva rispondere a necessità educative. L'insegnamento della scrittura era svolto soprattutto presso santuari come quelli di Pyrgi o Veio e molto spesso erano i sacerdoti a controllare la diffusione della pratica della scrittura, inizialmente segno distintivo della classe dominante e poi strumento fondamentale per l'Etrusca Disciplina.
Dalle numerose iscrizioni etrusche che abbiamo emerge una scrittura che utilizza solo le lettere maiuscole e raramente i segni di interpunzione. Le iscrizioni più antiche presentano per lo più scriptio continua, cioè senza divisione tra le parole. I più antichi e rari segni di interpunzione, risalenti sempre al VII secolo a.C., diventano poi normali dalla seconda metà del VI secolo a.C. e servono a semplificare la lettura, indicando le pause della lingua parlata. Si tratta o di punti frapposti tra le parole (possono essere uno, due, tre e anche quattro, verticali), o raramente di trattini; in età ellenistica si trovano piccoli triangoli e croci di Sant’Andrea.
Nella maggior parte dei casi il testo va da destra a sinistra e solo raramente si riscontrano casi di bustrofedìa, cioè di iscrizioni che alternano l'andamento ad ogni cambio di riga (come i buoi quando arano un campo, da cui il termine). A volte, pur rispettando l'andamento sinistrorso della iscrizione, alcune lettere vengono riportate nel senso inverso. Con la stabilizzazione dell'alfabeto si assiste, nel corso del VI secolo e anche più tardi, ad un progressivo cambiamento nel ductus delle singole lettere e una generale tendenza a renderle più regolari, eliminando quindi i vertici acuti e i tratti allungati tipici delle lettere arcaiche, come quelle incise sull'alfabetario di Marsiliana.
Lo strumentario scrittorio di epoca etrusca varia a seconda del supporto sul quale si va a scrivere. Le iscrizioni più frequenti sono quelle che compaiono incise sui sarcofagi e urne cinerarie rinvenuti in strutture tombali comunque in ambiente funerario. In questo caso il materiale di supporto su cui si opera è la pietra che può essere di vario tipo. È soprattutto l'arenaria (la «pietra serena», la «pietra fetida», il nenfro) la pietra utilizzata dagli antichi Etruschi, facilmente estraibile dalle molte cave: cui il territorio era ricco; ma molto apprezzati sono anche il travertino, l'alabastro e il marmo in genere (come per lo splendido sarcofago di Laris Pulenas nel Museo Archeologico di Tarquinia) sui quali vengono incisi i nomi dei defunti, le loro cariche e, a volte, formule propiziatorie. Le lettere scolpite possono essere anche ulteriormente dipinte.
L'incisione può essere fatta con punte incisorie come stili e bulini anche sul bronzo di statue e statuette o su un materiale più malleabile quale l'argilla: nella vastissima produzione ceramica etrusca, sia acroma, sia dipinta sia in bucchero sono moltissimi i vasi che portano graffite non solo formule onomastiche o dedicatorie ma anche veri e propri alfabetari, come per esempio il sillabario di Caere. Poiché erano per lo più destinati a corredi funerari, i vasi rinvenuti molto spesso riportano anche l'indicazione della committenza' con formule stereotipe ricorrenti: mini turce…, mi muluvanice…, «mi ha fatto», «mi ha dedicato».
Sui vasi, dunque, le iscrizioni possono essere graffite a crudo o dopo la cottura oppure dipinte con vernici colorate. Un altro supporto per le iscrizioni etrusche è costituito dalle pareti delle numerose tombe dipinte, concentrate soprattutto nella zona di Tarquinia, e da elementi architettonici di altro tipo in cui esse vengono scolpite o dipinte.
Per testi più lunghi e non necessariamente legati al mondo funerario, si utilizzano lamine metalliche (come le tavolette auree di Pyrgi), grandi tegole in terracotta, strisce di tessuto (come dimostra la mummia di Zagabria), pelle e forse papiro, su cui il testo viene dipinto.
Nel caso invece di iscrizioni temporanee su tavolette cerate di osso, avorio o legno, lo scriba ha a disposizione uno stilo realizzato in bronzo o avorio o osso, con il quale incidere provvisoriamente le lettere che vengono poi raschiate via; questo tipo di supporto era usato soprattutto da chi insegnava o imparava a scrivere e dai mercanti.