La concezione della divinità, nel suo fondamento iniziale è di natura essenzialmente misteriosa. In sostanza si tratta di forze che stanno «sopra la natura», cioè di esseri soprannaturali, vaghi e incerti nel numero, nel sesso, nelle attribuzioni e nelle apparenze. All'origine di questa concezione c’è forse la credenza più antica in una sorta di «entità divina» che si manifesta occasionalmente e in vari modi, e di volta in volta si concretizza in spiriti, divinità, gruppi di divinità. Non è escluso che ad essa si possa far risalire anche l’idea di una forza vitale e generativa che è rappresentata dal genius (come lo chiamavano i latini): una singola divinità o il prototipo di un gran numero di spiriti, maschili e femminili, collocati fra gli Dei e gli uomini, che accompagnano nella loro vita gli esseri umani nei quali anche si confondono e si identificano.
Questo almeno alle origini. Giacché si deve dire che su una tale concezione di tipo «primitivo» a un certo punto si inserisce e in parte si sovrappone l’influenza di altre religioni di provenienza orientale, e segnatamente della religione greca. Quest’ultima è responsabile del processo di «antropomorfizzazione» delle divinità etrusche. È possibile che gli Etruschi possedessero sin dalle origini una certa loro immagine umana delle divinità, ad esempio nel caso del dio celeste Tinia, rappresentato in una rozza statuina di bronzo come un giovane nudo che tiene nella mano destra il fulmine. Ma la letteratura e l’arte greca imposero — almeno fin dalla prima metà del VI secolo a.C. — l’immagine delle grandi divinità quale si era venuta elaborando, con i suoi aspetti antropomorfici nelle città del mondo ellenico. E da tutto questo processo risulta la formazione di una serie di figure divine etrusche, sostanzialmente parallele, se non identiche alle greche: Tin o Tinia (Giove) rispetto a Zeus, Turan (Venere) rispetto ad Afrodite, Turms (Mercurio) rispetto a Hermes, Fufluns (Bacco) rispetto a Dioniso, Menerva (Minerva) rispetto ad Athena, Maris (Marte) rispetto ad Ares, ecc. Né mancano divinità greche direttamente introdotte in Etruria che conservano il loro nome appena «etruschizzato», come Herakles che diventa l’Hercle etrusco e l’Ercole romano, Apollo che in Etruria diventa Apulu o Aplu, Artemide che diventa Aritmi o Artumes.
Accanto a queste divinità, però, continuano ad sussisterne altre, pure importanti e chiaramente definite, che, evidentemente per il loro «significato» strettamente locale (sia in senso etrusco sia in senso «italico»), non trovarono confronto diretto con divinità greche. Tali sono ad esempio gli dei Selvans (Silvano) e Ani (Giano), la dea Northia, una divinità probabilmente del fato, e quel dio Véltumna o Velta (in latino Voltumna) che secondo Varrone è da considerarsi alla stregua di un dio «nazionale» degli Etruschi, il deus Etruriae princeps, e come tale era venerato nel santuario federale di Volsinii (Orvieto).
Ma soprattutto continuarono ad esistere, al di là di qualsiasi patina greca (e come significativo indizio della persistenza e della forza delle tradizioni locali) divinità minori tipiche delle concezioni ancestrali di cui s’è accennato. Tali divinità sono infatti per lo più oscure e misteriose, di solito connesse al fato e spesso riunite in gruppi (o «collegi») di tre, di nove o di dodici membri. Purtroppo le conosciamo appena per qualche citazione degli autori latini, in genere piuttosto tardi. Varrone, Plinio, Seneca, Marziano Capella, Arnobio ed altri scrittori romani ci parlano infatti di «Dei superiori e avvolti nelle tenebre» che erano forse in numero di dodici, sei di sesso maschile e sei di sesso femminile (e che si «alzano e si coricano insieme»); di «Dei consenzienti» o «complici» o «ausiliari», consiglieri di Tinia, spietati e senza nome, anch’essi in numero di dodici; di «Dei folgoratori» in numero di nove alle quali Tinia poteva delegare la sua prerogativa di scagliare i fulmini. E ancora di «Dei nascosti», di «Penati», divisi in quattro classi di divinità del cielo, della terra, delle acque e delle anime umane, ecc.
Quanto al rapporto intercorso tra gli Dei e gli uomini è evidente che esso dipende, ed è del tutto condizionato dalla concezione stessa di divinità e dal suo modo di agire e di manifestarsi. La convinzione di una costante influenza delle forze soprannaturali sul mondo e sulle azioni umane, per cui ogni accadimento o fenomeno appena «fuori dalle regole» era ricondotto a un intervento della divinità, non poteva che condurre ad un senso assillante di questa influenza e al più completo annullamento della personalità umana di fronte al volere divino. «Fra gli Etruschi… e noi (Romani) c’è questa differenza: noi riteniamo che i fulmini scocchino quando c’è stato uno scontro di nuvole, essi credono invece che le nuvole si scontrano per far scoccare i fulmini. Infatti, dal momento che attribuiscono ogni cosa alla divinità, essi sono convinti non già che le cose abbiano un significato in quanto avvengono, ma piuttosto avvengono perché debbono avere un significato», in questo brano delle Questioni naturali dello scrittore romano Seneca sta la chiave per conoscere, e per capire, la religione etrusca. C’è innanzitutto, l’idea che la natura dipenda strettamente dalla divinità. Quindi, ogni fenomeno naturale non è altro che che l’espressione della volontà divina; o meglio, un segnale che la divinità stessa invia all’uomo. E c’è poi implicita, l’idea che l’uomo, destinatario di quel segnale, deve fare di tutto per capirlo, scoprirne il significato ed adeguarsi ad esso. Cioè comportarsi secondo il volere divino. Perciò il rapporto tra l’uomo e dio di traduce in un monologo della divinità al quale l’uomo, privato della possibilità di agire autonomamente, risponde con un comportamento obbligato: quello che ha come punto di partenza l’affannosa ricerca della volontà divina, più o meno manifesta, e come fine la scrupolosa osservanza di essa. Per far ciò occorrono in primo luogo degli strumenti di conoscenza che consentano di accorgersi, e quando occorre di andare alla ricerca, dei «segni» attraverso i quali la volontà divina si manifesta. Tali segni possono essere diversi e vanno dai fulmini a certe particolari imperfezioni delle viscere di alcuni animali e ad ogni fenomeno o evento insolito di qualsiasi tipo e variamente prodigioso (boati, suoni, mostri, comete, ecc.). Quindi occorre avere un «codice», con l’aiuto del quale arrivare alla corretta interpretazione dei segni. E, per esempio, capire se si tratti della manifestazione della collera o della soddisfazione divina, di semplici «avvertimenti» o di veri e propri presagi per il futuro. Poi è necessario avere un prontuario di norme precise e costanti che per ogni «segno» indichino il conseguente comportamento atto a soddisfare e, comunque a seguire, la volontà degli Dei. Infine occorre che ci sia qualcuno particolarmente esperto degli strumenti di conoscenza, del codice di interpretazione e delle norme di comportamento: occorre insomma chi conosca l’arte e la dottrina e possa farsi in tal modo intermediario tra il mondo degli Dei e quello degli uomini. Nel complesso delle operazioni che via via e ogni volta riguardano i diversi e successivi momenti del riconoscimento, dell’interpretazione e del rispetto dei «segni» si traduce la pratica religiosa. In questa pratica si risolve e si esaurisce la religione degli Etruschi. La quale dunque non è altro che un insieme di «atti» e di formalità ritualistiche osservate scrupolosamente e minuziosamente compiute. Con una tale intensità e una così costante applicazione da colpire gli stessi contemporanei e i posteri più immediati, i quali non esitarono a parlare degli Etruschi, come fece Tito Livio, come di un «popolo che fra tutti gli altri si dedicò particolarmente alle pratiche religiose in quanto si distingueva nel saperle coltivare». Da ciò venne la fama di «religiosissimi» che gli stessi Etruschi ebbero nel mondo antico, con risvolti e opinioni non di rado di sconcertante ingenuità. Come fu quella di ritenere il nome Tusci (con il quale in latino gli Etruschi erano chiamati) derivato dal verbo greco thusiazein, ossia «sacrificare», o come fu l’altra di ricollegare la parola latina coerimoniae al nome della città etrusca Caere o Cerveteri.
L'insieme della dottrina che si riferiva al riconoscimento dei «segni», all'interpretazione della volontà divina e al soddisfacimento di questa, era indicato dai Romani con l'espressione latina disciplina etrusca che si può tradurre come «scienza etrusca». I fondamenti di questa «scienza» e, in ogni caso, i suoi principi ispiratori, erano fatti risalire dagli Etruschi all'intervento rivelatore della stessa divinità. Questa si sarebbe servita a tale scopo dell'opera di esseri mitici, o semidei, come il fanciullo Tagete e la ninfa Vegoia, i quali avrebbero letteralmente «dettato» ciascuno una parte delle essenziali verità soprannaturali e insegnato agli uomini l'arte di avvicinarsi ad esse: cioè, in pratica, i principi e i metodi dell'arte divinatoria. Ed è perciò che da questo punto di vista, si può parlare della religione etrusca come di una religione «rivelata».
Proprio a proposito dell'origine di una delle piú diffuse pratiche divinatorie etrusche, quella dell’«aruspicina», relativa alla consultazione del fegato degli animali, così scrive infatti Cicerone nella sua opera Sulla divinazione: «Raccontano che mentre veniva lavorata la terra nelle campagne di Tarquinia, da un solco che era stato tracciato piú a fondo saltò fuori all'improvviso un certo Tagete il quale cominciò a parlare all'uomo che stava arando. Come dicono i libri etruschi, Tagete aveva le sembianze di un fanciullo ma la saggezza d'un vecchio. Il contadino sbalordí alla sua vista e lanciò un grido di meraviglia; accorse gente e in poco tempo sembrò quasi che tutta l'Etruria si fosse radunata sul posto. Tagete parlò allora di molte cose alla folla che l'ascoltava; e quelli raccolsero tutti i suoi discorsi e li trascrissero. Tutto ciò che egli disse non è altro che la scienza aruspicina la quale, col passare del tempo, si accrebbe di altre nozioni che comunque s'ispirarono agli stessi principi insegnati da Tagete». Quest'ultimo, finito il suo discorso, cosí com'era improvvisamente apparso, altrettanto rapidamente sarebbe sparito.
La rivelazione divina, come riferisce dunque lo stesso Cicerone. venne tramandata attraverso testi scritti che finirono col dar luogo a una vera e propria «sacra scrittura». Ciò specialmente quando di essi fu redatta una stesura definitiva, certamente in una fase piuttosto avanzata di vita della nazione etrusca, com'è facile dedurre da quel che sappiamo circa il carattere sistematico e normativo dell'opera.
Purtroppo, di questa letteratura sacra è rimasto a noi quasi soltanto il ricordo negli autori romani i quali se ne servirono per le loro opere con frequenti citazioni e talora con la trascrizione di interi brani. Tanto piú che ne esistevano trattazioni, compendi e versioni intere in latino ad opera di scrittori etruschi «romanizzati» del I secolo a.C., mentre alcuni scrittori romani, come Verrio Flacco e poi l'imperatore Claudio, forse leggevano i testi etruschi nella stessa lingua originale. Sappiamo così che il volterrano Aulo Cecina, avversario di Cesare, scrisse un'opera (ricordata da Plinio il Vecchio) Sulla scienza etrusca, alla quale attinse Seneca per le sue Questioni naturali; che Publio Nigidio Figulo, amico di Cicerone (ed egli stesso aruspice tanto che profetizzò la lotta tra Pompeo e Cesare) scrisse un'opera Sugli Dei, le viscere e gli animali; che Marco Tarquinio Prisco (anch'egli citato da Plinio), tradusse un Repertorio etrusco dei prodigi. Del resto, l'interesse per la scienza religiosa etrusca e lo stesso uso che i Romani avevano cominciato a farne fin dal periodo regio non vennero meno durante tutta l'età imperiale: ancora nel III secolo d.C. un certo Cornelio Labeone trattava di essa in un'opera in quindici libri, mentre addirittura nel secolo IV, col Cristianesimo trionfante, ci si continuava ad avvalere dell'opera del già ricordato Tarquinio Prisco.
Si può aggiungere che, nel grande naufragio della letteratura originale, un testo etrusco, certamente da ricollegare agli antichi scritti sacri, si è conservato ed è giunto fino a noi: si tratta del manoscritto su tela conosciuto col nome di «Mummia di Zagabria» perché custodito nel museo di quella città, che lo acquisì alla fine del secolo scorso dopo che fu ritrovato in Egitto, evidentemente portatovi da qualche immigrato etrusco poi trasformato in bende per avvolgere una mummia d'età tolemaica o romana. Esso altro non è non un «calendario rituale», nel quale sono elencati i mesi e i giorni dell'anno in cui si devono compiere determinate cerimonie sacre, con la menzione delle divinità, dei sacrifici e delle offerte da fare, delle istituzioni per le quali invocare l'intervento divino, ecc.
Quanto alla natura della «sacra scrittura», per quel che ne sappiamo, essa era alquanto eterogenea e il contenuto e la forma dei libri che la componevano piuttosto vari e difformi. Non è escluso tra l'altro, che almeno in alcuni di essi alle parti in prosa rigidamente descrittive e didascaliche si alternassero parti poetiche. Si sa comunque che, proprio sulla base del loro contenuto, si distinguevano tre grandi gruppi di «libri» che riunivano, rispettivamente, quelli che erano chiamati in latino i Libri aruspicini, i Libri fulgurales e i Libri rituales. I primi trattavano dell'interpretazione delle viscere degli animali ed erano attribuiti all'insegnamento di Tagete. I secondi contenevano la dottrina dei fulmini ed erano fatti risalire alla rivelazione della ninfa Vegoia. Quanto ai libri rituales, che riguardavano le norme di comportamento da seguire nelle varie circostanze della vita pubblica e privata, di essi facevano parte a loro volta i Libri fatales, sulla suddivisione del tempo e sui destini e i limiti della vita degli uomini e degli stati, i Libri acherontici, sul mondo dell'oltretomba e i riti di salvazione, e gli Ostentaria, sull'interpretazione dei prodigi e dei fenomeni naturali.
Tra le informazioni che possediamo sul contenuto dei libri sacri, una, riferita dallo scrittore romano del III secolo d.C. Censorino, riguarda la specifica dottrina relativa al computo del tempo. Si tratta, in particolare, di una singolare teoria che era dedicata nel complesso allo spazio di tempo destinato agli uomini e agli Stati e che doveva essere contenuta nei Libri fatales.
Sappiamo cosí che presso gli Etruschi la vita umana era suddivisa in periodi di sette anni (o «settennati») e che l'ultimo anno di ogni periodo era considerato particolarmente critico e pericoloso. Perciò, soprattutto durante questo tempo, occorreva fare speciale attenzione alle eventuali manifestazioni della volontà divina. Il massimo tempo consentito era di dodici settennati; tuttavia la vita normale ne comprendeva solamente dieci sicché solo fino ai settant'anni si potevano eseguire riti propiziatori ed espiatori per accattivarsi il favore degli Dei e magari per tentare di differire l'inesorabile compiersi del fato e ottenere il beneficio d'eventuali proroghe, che però potevano arrivare fino a un massimo di dieci anni. In ogni caso, passato il settantesimo compleanno, pur essendo possibile vivere ancora per due settennati (e cioè fino agli ottantaquattro anni), il corpo era come disgiunto dall’«anima» e gli Dei non inviavano più segnali, non prestavano piú attenzione a preghiere ed offerte né si poteva intercedere presso di loro. Chi dunque avesse per avventura superato quel limite era considerato press'a poco alla stregua di un «sopravvissuto».
Quanto alla vita degli Stati — e della stessa nazione etrusca — anch'essa si svolgeva, come quella degli uomini, al ritmo di analoghe scadenze secondo una successione di periodi chiamati «secoli». La durata massima per la vita di uno stato era di dieci «secoli», ma essa non era preliminarmente definita giacché il numero di anni riservato a un secolo non era fisso e poteva variare, generalmente tra i cento e i centoventi anni. La fine di ogni secolo era perciò annunciata, volta per volta, e con un certo anticipo, direttamente dagli Dei attraverso un qualche prodigio.
Cosí, ad esempio, quando in un giorno dell'anno 88 a.C. fu udito un misterioso, acuto e lugubre suono di tromba, quel «prodigio» fu interpretato come l'annuncio dell'imminente fine di un secolo. E questa fu poi riconosciuta, nell'anno 44 a.C., al verificarsi di un nuovo prodigio, quale fu l'apparizione della cometa che effettivamente sappiamo essere avvenuta nel giorno stesso della uccisione di Cesare.
La comparsa di questi che venivano chiamati «prodigi secolari» — e dunque la fine di ogni secolo — dava luogo a tutta una serie di speciali cerimonie propiziatorie, che comprendevano solenni preghiere, grandi sacrifici di animali, offerte particolari (come statue e anche templi), giochi e spettacoli pubblici. Ne possiamo avere un'idea dai «giochi secolari» dei Romani che adottarono dagli Etruschi la «teoria dei secoli», specialmente nei suoi aspetti esteriori e rituali; e, in modo particolare, da quelli celebrati da Augusto nel 17 a.C. ed eternati dal famoso carme secolare di Orazio.
Come per la vita degli uomini, anche per quella degli stati c'era la possibilità di una proroga, che poteva arrivare fino ad un massimo di tre decenni. Ma, in ogni caso, trascorsi i dieci secoli previsti, sarebbe stato impossibile rimuovere il destino implacabile: ogni implorazione, ogni espiazione sarebbero state vane e ogni Stato, la stessa nazione etrusca, sarebbero inesorabilmente scomparsi. La «teoria dei secoli» fu verosimilmente «sistemata» nel periodo finale della storia etrusca; e c'è da dire che le previsioni fatte dai sacerdoti, per l'occasione, non andarono molto lontano da quella che fu la realtà. Infatti, sulla scorta di quella teoria e servendosi dei calcoli già fatti dagli Etruschi circa i secoli trascorsi fino al nono (quello finito nell'anno 44 a.C.), gli storici romani dell'età imperiale si provarono a riconoscere i limiti della nazione etrusca. Cosí, considerando di centoventi anni all'incirca la durata del decimo ed ultimo secolo, ritennero di poterne fissare la fine al tempo di Vespasiano, cioè poco dopo la metà del I secolo d.C. Quanto alle origini del ciclo storico dell'Etruria, facendo a ritroso, sia pure con approssimazione, lo stesso calcolo dei «secoli», s'arriva piú o meno ad un periodo da collocare tra la fine del secolo X e gli inizi del secolo IX a.C. È proprio il periodo per il quale, attraverso la documentazione archeologica, si possono cogliere i primi concreti segni della «nascita» del popolo e della civiltà degli Etruschi. Il che ci porta a concludere che i medesimi Etruschi (e in generale gli antichi) dovevano conoscere piú di quanto non si pensi le vicende e i tempi della propria storia.
Depositaria — e responsabile — della letteratura sacra, e pertanto anche esperta della «disciplina», era naturalmente la casta sacerdotale. Essa era espressione della classe aristocratica, la quale rivendicava tale privilegio nel ricordo degli antichi lucumoni (i re che ad essa appartenevano) cui era fatta risalire la tradizione della rivelazione divina e, in qualche caso, la stessa «dettatura» dei testi.
I sacerdoti erano indicati in origine con nomi diversi a seconda del particolare settore del quale erano esperti e, quindi, anche con più d'un nome se a conoscenza di piú settori (come nel caso di quel sacerdote che in un'iscrizione funeraria bilingue etrusco/latina ha gli appellativi netsvis e frutnvt, tradotti nella versione latina come haruspex e fulgurator, cioè interprete delle viscere e dei fulmini). Inoltre con un nome particolare (cepen) venivano chiamati quei sacerdoti che erano espressamente addetti ai culti. Tra questi, un posto speciale aveva quello che risiedeva al culto pubblico e che veniva indicato, per l'appunto, come «sacerdote pubblico» (in etrusco, cepen spurana). A Roma, tuttavia, essendo la scienza divinatoria chiamata nel suo complesso col nome di aruspicina (che in origine si riferiva soltanto all'interpretazione delle viscere) i sacerdoti etruschi furono genericamente chiamati «aruspici».
I sacerdoti erano riuniti in collegi (o «confraternite») e si tramandavano la professione di padre in figlio, ciò che garantiva l’ortodossia e la continuità del sapere. Venivano quindi educati e istruiti fin da bambini nelle rispettive città; e ancora in età imperiale romana, quando facevano parte di un sacerdozio ufficiale definito «ordine dei sessanta aruspici». provenivano tutti dalla classe dei cavalieri .
Probabilmente, sempre prima della generalizzazione d'età romana, ogni tipo di sacerdote aveva un particolare costume e soprattutto degli attributi che ne indicavano anche esteriormente la sfera di competenza: costume proprio degli Aruspici era, ad esempio, il mantello frangiato e il berretto conico. Tutti però avevano come segno distintivo della loro casta il «lituo», una sorta di bastoncino dall'estremità superiore ricurva che un tempo era stato tra gli attributi propri del re (o comunque del «capo», o del «signore») e che riuniva insieme l'autorità politica e quella religiosa.
Lo strumento di conoscenza del volere divino, e perciò lo strumento d'approccio ai «segni» con cui quello si manifestava, era la «divinazione»: un'arte — e una dottrina — che gli Dei stessi avevano insegnato agli uomini. Essa aveva come punto di partenza l’«osservazione». Ma poggiava su un fondamento teorico basato sul principio della corrispondenza magica tra macrocosmo e microcosmo, cioè tra mondo celeste e mondo terrestre: il mondo degli Dei e quello degli uomini. Secondo questo principio i due mondi erano tra loro intimamente connessi in una sorta di partecipazione mistica e si corrispondevano nell'ambito di un preciso e preordinato sistema unitario, all'interno del quale erano fondamentali la definizione e la partizione dello spazio: prima di tutto dello spazio celeste, sede degli Dei, ossia del cielo.
Lo spazio celeste (secondo quanto riferisce lo scrittore latino degli inizi del V secolo d.C. Marziano Capella) era concepito come suddiviso in sedici parti (o «caselle»), quattro per ognuno dei quadranti che risultavano dalla ideale congiunzione dei quattro punti cardinali mediante due rette perpendicolari incrociantisi al centro. Secondo la terminologia latina, che riflette fedelmente la dottrina etrusca, la retta nord-sud era chiamata «cardine», quella est-ovest, «decumano». Facendo centro nel punto d'incrocio delle due rette e volgendosi verso sud, lo spazio che dalla linea orizzontale est-ovest era compreso verso mezzogiorno costituiva la parte «anteriore» del cielo, mentre lo spazio compreso verso settentrione costituiva la parte «posteriore». Considerando invece la linea verticale nord-sud, lo spazio compreso verso oriente costituiva la parte sinistra (considerata di buon auspicio), lo spazio compreso verso occidente, costituiva la parte destra (ritenuta sfavorevole).
Nelle sedici «caselle» del cielo erano collocate le «dimore» delle divinità, secondo un ordine che, nonostante la poca chiarezza della fonte letteraria romana, ci consente di ritenere, col Pallottino, «che le grandi divinità superiori, fortemente personalizzate e tendenzialmente favorevoli, si localizzavano nelle plaghe orientali del cielo, soprattutto nel settore nord-est; le divinità della terra e della natura si collocavano verso mezzogiorno; le divinità infernali e del fato, paurose ed inesorabili, si supponevano abitare nelle tristi regioni dell'occaso, segnatamente nel settore nord-ovest, considerato come il piú nefasto».
È chiaro che trovandosi nello spazio celeste le sedi degli Dei, ed essendo quindi esso la fonte d'informazione piú autorevole e diretta, il primo e fondamentale ambito d'osservazione per ogni pratica divinatoria era il cielo. Tenendo infatti presente la ripartizione della volta celeste e la collocazione delle singole caselle, si poteva riconoscere, dalla posizione dei «segni» che si manifestavano in cielo o dal punto dal quale essi provenivano, a quale divinità fossero da riferire il singolo «segno» e il «messaggio» da esso inviato e, in via preliminare, anche se esso fosse di buono o di cattivo auspicio.
Altrettanto chiaro risulta che nel cielo, pur senza escludere il verificarsi di altri eventuali e piú occasionali fenomeni, il segno piú frequente e piú costantemente osservato era quello rappresentato dal fulmine. Il quale, oltre tutto, veniva considerato come il «segno piú importante» in quanto prerogativa della divinità suprema Tinia-Giove che poteva lanciarlo, oltre che dalle tre «caselle» che essa stessa occupava, anche da tutte le altre, delegando la sua funzione alle divinità di cui, seguendo Seneca, s'è già fatto cenno. In effetti, l'osservazione dei fulmini — o cheraunoscopia — fu sempre al primo posto nella divinazione etrusca; e l'arte di servirsene, cioè di trarre da quell'osservazione tutte le informazioni possibili (in latino ars fulguratoria), fu unanimemente riconosciuta dagli antichi come una specifica e ineguagliabile prerogativa dei sacerdoti etruschi («i piú abili di tutti nell'arte d'interpretare i fulmini», come scrive Seneca).
Accanto alla cheraunoscopia c'erano però altre forme di divinazione, come soprattutto l'epatoscopia (in latino Haruspicina), ossia l'osservazione del fegato degli animali. Questa pratica ebbe importanti ed illustri precedenti nel mondo orientale, segnatamente mesopotamico, ma in Etruria assunse un ruolo talmente spiccato da trasformarsi, agli occhi degli estranei, in una sorta di caratteristica «nazionale» e da far diventare il suo nome, almeno nel mondo romano, come sinonimo m genere di arte divinatoria. Il suo uso generalizzato e costante era legato, naturalmente, alla possibilità di farvi ricorso ogni volta che ciò fosse ritenuto utile o necessario, senza dover attendere altre forme di prodigi dipendenti invece dal «caso». La sua importanza — e la sua giustificazione — sta nel fatto che, sulla base del principio di corrispondenza macrocosmo/microcosmo, nel fegato degli animali s'immaginava che fosse riflessa la suddivisione della volta celeste. La quale peraltro trovava corrispondenza, sulla terra, in qualsiasi altra superficie che fosse adeguatamente individuata, consacrata e delimitata (da pali, cippi, alberi, pozzi). All'interno di questa superficie, o «spazio sacro», che i latini chiamavano «tempio», erano anzi compiute le stesse operazioni d'osservazione della volta celeste (templum coeleste) dato che il «tempio» ripeteva sulla terra, con punti di riferimento fisso, il medesimo ordinamento di essa.
In proposito si può aggiungere che a tal punto giungeva l'idea della corrispondenza cielo/terra che essa trovava estrinsecazione anche nella suddivisione dei campi. Per questa infatti erano sostanzialmente applicate le stesse regole della «partizione sacra» (donde l'importanza e la sacralità dei cippi di confine) nell'ambito di un ordine cosmico, venuto dopo il caos e voluto dallo stesso Tinia-Giove, che sulla terra era per l'appunto riflesso e concretato nella divisione dei campi. Ce lo conferma, tra l'altro, una singolare profezia attribuita alla ninfa Vegoia e tramandataci nella raccolta latina che va sotto il nome di Gromatici Veteres: «Vegoia ad Arrunte Velthymno. Sappi che il mare fu un tempo diviso dall'aria. Quando poi Giove rivendicò a sé le terre d'Etruria, stabilí e comandò di misurare i campi e di delimitare le aree coltivabili. Conoscendo l'avidità degli uomini e il desiderio di terra, volle che tutto fosse diviso mediante confini. Presto o tardi però qualcuno, preso dall'avidità, sul finire dell'ottavo secolo, interverrà sui confini e su quanto è stato concesso; gli uomini, con dolo, violeranno, toccheranno e sposteranno i cippi che segnano i confini. Ma chi li avrà toccati o li avrà rimossi cercando di aumentare i propri possedimenti diminuendo quelli altrui, sarà dannato Se lo faranno coloro che si trovano in servitú la loro cc iizione muterà in peggio; se lo faranno con la complicità del padre, la casa di questi rovinerà ben presto e la sua schiatta perirà tutta quanta. I colpevoli saranno afflitti da terribili morbi e da mali, in modo tale da arrivare a una completa debilitazione fisica. La terra sarà sconvolta da tempeste e da alluvioni che porteranno completi sovvertimenti. I raccolti saranno danneggiati dalla pioggia e dalla grandine, diverranno aridi per la canicola, saranno distrutti dalla ruggine. Avverranno molte discordie civili. Sappiate che accadrà ciò quando saranno commessi delitti di questo genere. Per questo tu non devi essere falso o avere due lingue Trattieni questi insegnamenti nella tua mente». Questa profezia, databile tra la fine del secolo II e gli inizi del secolo I a.C., è certamente da prendere come una «storiella», messa in giro ad arte dagli ambienti conservatori (cui appartenevano da sempre i sacerdoti) di qualcuna delle città dell'Etruria settentrionale, preoccupati delle continue minacce di riforme agrarie proposte a Roma dai Tribuni della plebe, ma la sua credibilità (e la sua efficacia di deterrente) non poteva che essere legata ai principi e ai concetti sopra esposti. Ai quali deve essere anche ricollegata l'origine rituale dell'edificio del tempio, derivato dalla sovrapposizione della cella a una «terrazza augurale», dove la cella corrispondeva alla «parte posteriore» dello spazio sacro e il pronao colonnato alla «parte anteriore» (donde l'orientamento abituale dei templi rivolto verso sud o verso sud-est, ossia verso le parti favorevoli e di buon auspicio).
L'osservazione e l'interpretazione dei fulmini (che in latino venivano chiamati manubiae, con una parola che, secondo quanto riferisce il commentatore dell'Eneide, Servio, era derivata dall'etrusco per traduzione o forse meglio per trasformazione, sulla base dell'assonanza) era regolata da una casistica alquanto complessa che solo in piccola parte c'è dato di conoscere o, piuttosto, di ricostruire. Grande importanza avevano, oltre al luogo in cui i fulmini apparivano, la forma, il colore, gli effetti provocati e il giorno della caduta. Come s'è già detto, varie divinità avevano facoltà di lanciarli ma ognuna di esse uno solo. Tinia invece, per la sua dignità, ne aveva a disposizione tre di colore rosso e sanguigno. Il primo dei tre era il fulmine «ammonitore», veniva interpretato come un avvertimento e il dio lo lanciava di sua spontanea volontà. Il secondo era il fulmine «che atterrisce» ed era considerato manifestazione di ira, ma Tinia poteva lanciarlo solo con il parere favorevole degli Dei «consenzienti». Il terzo, che richiedeva ugualmente il consenso di divinità superiori e misteriose, era il fulmine «devastatore», motivo di «annientamento» e di «trasformazione»: Seneca scrive in proposito che esso «devasta tutto ciò su cui cade e trasforma ogni stato di cose che trova, sia pubbliche sia private». Oltre a questo, sappiamo che i fulmini erano variamente classificati a seconda che il loro avviso valesse per tutta la vita o solo per un periodo determinato, oppure per un tempo diverso da quello della caduta. E, ancora, a seconda che valessero come consiglio, e cioè come persuasione o come dissuasione per un atto da compiere e ancora soltanto pensato, o come informazione sul buono o cattivo esito di un atto già compiuto. Poi c'era il fulmine che scoppiava «a ciel sereno» senza che alcuno pensasse o facesse nulla, e questo, scrive Seneca, «o minaccia o promette o avverte»; quindi quello «che fora», sottile e senza danni, quello «che schianta»; quello «che brucia», ecc. Ma Seneca parla anche di fulmini che dissuadono, che confermano, che vanno in aiuto di chi li osserva, che recano invece danno, che portano un bene effimero, che esortano a compiere un sacrificio trascurato o a sciogliere un voto. E così via, con un tale groviglio di possibilità, di implicazioni, di sfumature, di interconnessioni, di circostanze che solo i sacerdoti esperti, magari con l'aiuto dei «prontuari», potevano sbrogliare giungendo alla retta interpretazione e, quindi, all'indicazione degli atti e dei riti occorrenti per approfittare dei buoni presagi o per stornare quelli cattivi, per ottenere i benefici promessi o per allontanare le minacce. Stando a quel che afferma Plinio, un sacerdote esperto poteva anche riuscire a scongiurare la caduta di un fulmine o, al contrario, ad ottenerla con speciali preghiere. Tant'è vero che ancora nel V secolo d.C. e con la religione cristiana ormai imperante, come c'informa Zosimo nelle sue Storie ci furono degli aruspici che, servendosi delle formule dei loro ormai lontani predecessori etruschi, pretesero di fermare i Goti che assediavano Narni facendo cadere fulmini sopra di loro. Tra le cose che si dovevano fare subito, dopo la caduta di un fulmine, c'era quella di costruire una sorta di tomba (la «tomba del fulmine») in forma di pozzetto ricoperto da un piccolo tumulo di terra, nella quale dovevano essere accuratamente seppelliti tutti i resti delle cose che il fulmine stesso aveva colpito, compresi gli eventuali cadaveri di persone uccise dalla scarica. Luogo e «tomba» venivano chiamati, a Roma, col nome di bidental, una parola d'incerta etimologia (forse etrusca) ma generalmente fatta derivare dal termine bidens, che potrebbe aver indicato o l'animale sacrificato al momento dei riti del seppellimento in quanto adulto e quindi fornito della seconda dentizione, oppure il forcone come immagine del fulmine che, anche nelle raffigurazioni, era rappresentato a due punte (o a due gruppi contrapposti di punte). Naturalmente il luogo e la «tomba» erano considerati sacri e inviolabili, ed era ritenuto di cattivo auspicio il calpestarli. Perciò essi erano recintati e possibilmente evitati dalla gente quali «nefasti e da sfuggire» come scrive il poeta latino (ma di origine volterrana) Persio, nel I secolo d.C.
Le viscere degli animali di cui si servivano gli aruspici e che in latino si chiamavano exta (donde il nome di exstispicium dato dai Romani all'osservazione di esse) erano diverse. Potevano essere i polmoni e la milza ma le piú importanti erano il cuore e soprattutto il fegato (hepas o iecur). Esse venivano strappate ancora palpitanti dal corpo degli animali appena uccisi e questi erano distinti da quelli immolati per il sacrificio ed espressamente riservati alla consultazione divinatoria. Per lo piú buoi e pecore (talvolta anche cavalli), gli animali dovevano essere sani e venivano utilizzati soltanto se si mostravano docili nel seguire il sacerdote; altrimenti erano sostituiti. Delle viscere venivano esaminate la forma e le dimensioni, il colore e ogni minimo particolare, specialmente gli eventuali difetti. Quando non rivelavano particolari apprezzabili per la divinazione le viscere erano ritenute «mute» e inutilizzabili; erano invece «adiutorie» quando indicavano qualcosa di certo per salvarsi da un pericolo (veleno, incendio, ecc.); «regali» se promettevano onori ai potenti, eredità ai privati, ecc.; «pestifere» quando minacciavano lutti e disgrazie. L'osservazione era assai piú minuziosa e completa nel fegato essendosi in esso individuato e localizzato - per il suo aspetto generale e per la sua particolare conformazione il «tempio» terrestre piú direttamente, e naturalmente, corrispondente al »tempio» celeste. Inoltre, la sua importanza era direttamente connessa alla credenza diffusa presso gli antichi (e della quale rimane traccia anche nel nostro parlare comune, come ad esempio, nell'espressione «uomo di fegato») che esso fosse la sede degli affetti, del coraggio, dell'ira e della stessa intelligenza. Una volta ritenuto che nell'immagine del fegato fosse proiettata la divisione della volta celeste, si trattava di riconoscere a quale delle «caselle» di quella corrispondessero nel fegato le irregolarità, le imperfezioni, i segni particolari o anche le semplici regolarità e, quindi, di attribuire i loro «messaggi» alla divinità che occupava la «casella» interessata. Per questo — e in primo luogo per l'istruzione dei giovani aruspici — venivano utilizzati degli appositi «modelli» di fegato, in bronzo o in terracotta, sui quali erano riprodotte le varie ripartizioni e scritti i nomi delle diverse divinità. Alcuni di questi «modelli» sono fortunatamente giunti fino a noi come il piú celebre di tutti, perché piú completo e meglio conservato, conosciuto sotto il nome di «Fegato di Piacenza» essendo stato ritrovato presso quella città (anche se forse è di origine cortonese). È di bronzo, misura cm. 12,4 per 6,6, si data al II secolo a.C. e riproduce schematicamente un fegato di pecora: un lato, convesso, rappresenta la superficie esterna dell'organo, divisa mediante una sorta di cordoncino in due lobi (le parti «sinistra» e «destra», rispettivamente «familiare» ed «ostile»), sui quali è inciso il nome del Sole (usil) a sinistra, e forse della Luna appena sporgente (e di buono o cattivo auspicio tanto maggiore quanto le due diverse condizioni ) è piano, ma con tre parti sporgenti su una delle due metà: una di forma conica allungata in senso orizzontale che rappresenta la cistifellea o vescica della bile; una, alla destra di questa, in alto, di forma piramidale; la terza, dalla parte opposta, in forma di papilla sferoidale. Su tutta la superficie e sulla stessa cistifellea sono incisi nomi di divinità, spesso abbreviati: sedici entro altrettanti spazi rettangolari disposti in una fascia lungo tutto l'orlo (come le sedici «caselle» della volta celeste) e ventiquattro in altri spazi interni, triangolari o rettangolari, determinati da una rete di linee di vario tipo. Di particolare importanza per la consultazione, in via preliminare, era (secondo la testimonianza di Cicerone) il «processo piramidale» considerato il «capo» del fegato. Esso era infatti di buon auspicio se appariva grosso e prominente, infausto se rudimentale e (tivr) a destra. Il lato opposto (che nell'uso era il superiore e quello piú importante per la consultazione erano piú o meno accentuate). Se poi per avventura mancava del tutto, allora il responso era di quelli classificati come «pestiferi». Pure importante era l'osservazione, sempre preliminare, delle striature caratteristiche della superficie dell'organo che indicavano, secondo i casi, perdite o guadagni; dell'estremità dei lobi, che, se di colore rosso, erano indizio di siccità; e del fiele contenuto nella vescica che, se molto sviluppato, era segno di cattivo augurio.
La fama degli Etruschi come «interpreti di viscere e di fulmini» era completata da quella che li riteneva anche (come dice Cicerone) conoscitori esperti e scaltriti del significato di ogni genere di prodigi. I quali dovevano essere registrati e capiti interpretandone il «messaggio», riconoscendo quale divinità li avesse inviati o consentiti e per quale motivo, al fine di adeguare ad essi i successivi comportamenti.
In latino i prodigi si designavano con il nome complessivo di ostenta e la dottrina ad essi relativa costituiva quindi il contenuto dei già ricordati libri ostentaria. Ma, essendo di varia natura, ne esisteva una classificazione come al solito dettagliata e puntigliosa, che contemplava al primo posto la finalità di ognuna delle categorie nelle quali venivano suddivisi. Il commentatore dell'Eneide Servio ci riferisce infatti che Varrone (desumendo evidentemente da fonti etrusche) distingueva tra i prodigi, con sottili sfumature, l'ostentum propriamente detto, che «mostrava qualcosa agli uomini», il portentum, che prediceva il futuro, il prodigium, che indicava il da farsi, il miraculum, che manifestava qualcosa di straordinario, e il monstrum, che dava un avvertimento.
Tra i prodigi piú usuali — o, comunque, tra quelli dei quali si ha notizia — c'erano la pioggia di sangue (che era poi la sabbia rossastra dei deserti africani portata ancora oggi dai venti di scirocco soprattutto nelle nostre regioni tirreniche), la pioggia di pietre e quella di latte, la nascita di bambini o di animali di sesso incerto o deformi, gli animali che parlavano o si comportavano in modi strani, i terremoti, le trombe d'aria, la grandine, le apparizioni di comete, le statue che sudavano, ecc. In molti casi il primo atto che si compiva era quello di «punire» o di toglier di mezzo il portatore dell'auspicio, se infausto, oppure di trattarlo con particolari attenzioni, se l'auspicio era ritenuto favorevole (fino al punto di allevare animali «parlanti», naturalmente come portavoce della divinità, a spese dello Stato!).
Ma, oltre alle manifestazioni di carattere straordinario, ossia ai veri e propri «fenomeni» (o ritenuti tali), rientravano nelle categorie dei prodigi anche fatti o semplici «realtà» del tutto naturali, specialmente nel campo del regno animale e di quello vegetale. Perciò c'erano alberi e animali «felici» o «infelici», cioè portatori di cattivo o di buon auspicio (come lo erano ad esempio i cavalli bianchi); piante commestibili e con linfa bianca che portavano bene e piante selvatiche e di linfa scura che portavano male. Nei polli sacri si prendeva in considerazione il modo in cui mangiavano, mentre degli uccelli si osservava il numero, il colore, il verso, il volo, la provenienza.
E cosí via, con una casistica addirittura ossessionante alla quale tutti prestavano, in genere, molta attenzione, magari per tradizione o per rispetto della comune opinione e salvo le persone che ostentavano palese scetticismo Sicché, c'erano da un lato i magistrati che a Roma, nel 152 a.C., si dimisero in blocco, avendo appreso che la caduta di una colonna sormontata da una statua davanti al tempio di Giove era stata interpretata come sicura predizione di morte per tutti coloro che rivestivano cariche pubbliche; dall'altro lato c'era il vecchio Catone che non cessava di stupirsi per il fatto che gli aruspici non scoppiassero a ridere ogni volta che uno di essi incontrava un collega.