Grazie ad alcuni scavi stratigrafici e a recenti opere di revisione e classificazione, è possibile definire un quadro archeologico della preistoria italiana più recente (definibile al limite finale come «protostoria») articolato in sette grandi fasi di sviluppo:
1. un’età neolitica, suddivisa in neolitico inferiore, medio e superiore, nella cui lunga durata (alcuni millenni) saranno da collocare gli elementi di fondo del futuro popolamento dell’Italia;
2. una prima età dei metalli, o eneolitico, fra il III e l’inizio del II millennio a.C., con accentuate differenziazioni regionali e correnti progressive (influenze dall'area egeo-anatolica, dall'Europa orientale, dalla sfera europeo-occidentale dei «bicchieri a campana», ecc.);
3. un periodo del bronzo antico, nella prima metà del II millennio, tuttora non sempre facilmente caratterizzabile e distinguibile dalle fasi che precedono e che seguono;
4. un periodo del bronzo medio, intorno alla seconda metà del II millennio a.C., rappresentato tipicamente e in modo relativamente uniforme nella penisola, dalla civiltà detta appenninica con la sua ceramica decorata ad incisioni e intagli e motivi geometrici di meandri, rombi, spirali, ecc.: ai margini si diffondono le prime importazioni micenee;
5. un periodo del bronzo recente, che presenta aspetti culturali tardo-appenninici o subappenninici e coincide (secoli XIII-XII a.C.) con le ultime fasi della civiltà micenea, la cui ceramica è largamente presente in Italia; mentre nella pianura padana fioriscono le famose terremare;
6. un periodo del bronzo finale (XI-X secolo a.C.), caratterizzato specialmente dalla diffusione su tutta l’area italiana di sepolcreti a cremazione con le tipiche tombe «protovillanoviane», da nuovi prodotti, dagli sviluppi della metallurgia, denuncianti una più viva circolazione con l’Europa dei campi d’urne, in contrasto con l’attenuarsi dei rapporti mediterranei, cioè con la Grecia in fase submicenea e protogeometrica;
7. infine la vera e propria età del ferro che vede, al suo inizio, il formarsi della cultura villanoviana di cui possiamo distinguere due fasi: villanoviano I, coincidente con il IX secolo a.C. e villanoviano II corrispondente ai primi settanta-ottanta anni dell’VIII secolo a.C.
La nostra attenzione si concentrerà principalmente sulla fase che va dall'età del bronzo medio all'età del ferro. Ricordiamo che la protostoria italiana finisce, in Etruria, con la cosiddetta età orientalizzante che va dal 730 al 580 a.C.
Tra X e IX secolo a.C. si assiste ad un fenomeno di straordinaria importanza lungo tutta la penisola: l’emergere di culture locali che prefigurano assai da vicino, e molto spesso addirittura ricalcano, le unità etniche storicamente note dell’Italia preromana. Una caratteristica generale è il distribuirsi di queste culture regionali in due aree geografiche rispettivamente contraddistinte dall’uso prevalente dell’inumazione e della cremazione: la prima comprende il sud della penisola (più la Sicilia) e i territori adriatici; la seconda l’Italia settentrionale e il versante tirrenico fino, in parte alla Campania.
Passiamo ora in rassegna, sinteticamente, i diversi fenomeni, cominciando dall'area di prevalente inumazione. La Sicilia, pur ricollegandosi in senso generale (e per qualche limitato aspetto anche in senso specifico) alla sfera meridionale della protostoria italiana, fa parte a sé per la massiccia continuità delle tradizioni locali che derivano dall’età del bronzo e per alcum caratteri propri (per esempio ceramica dipinta «piumata», geometrizzante, ecc.) che si manifestano in modo vario nella parte orientale dell'isola (necropoli di Pantalica, Finocchito, bronzi decorati del ripostiglio di Adrano, ecc.) e nella parte occidentale (S. Angelo Muxaro, Polizzello, con reminiscenze miceneizzanti): le culture del ferro siciliane, antecedenti e contemporanee alla colonizzazione greca e perduranti specialmente all'interno fino al VI-V secolo, appartengono già sicuramente ai Siculi e ai Sicani ricordati dalle fonti storiche. Tutta l'Italia sud-occidentale dalla Calabria odierna (Canale, Torre Galli, Francavilla presso Sibari, ecc.) alla Campania (Valle del Sarno, Cuma preellenica) è coperta dalla cosiddetta cultura delle tombe a fossa, con cumuli di pietrame o tumuletti; fiorita tra il IX e il VII secolo, essa è precocemente insidiata e alterata dalla colonizzazione greca: dovrà plausibilmente attribuirsi alle popolazioni indigene ricordate per questi territori, Enotri, Ausoni, Opici, Itali, Morgeti, Siculi, ecc. È notevole che la sua influenza si estende nell'VIII secolo a nord fino al Lazio (Decima). Un aspetto particolare di questa cultura si avverte in Basilicata (Roccanova, Craco, Ferrandina) per la presenza della tipica ceramica dipinta geometrica con motivo a tenda che diciamo «enotria». Sopra un fondo analogo si sviluppano le culture della Puglia, spettanti, con varianti territoriali da sud a nord, ai Messapi, ai Peucezi e ai Dauni storici, complessivamente denominati anchè Iapigi o Apuli: qui vediamo con evidenza un grandioso fenomeno di continuità, dall'inizio dell'età del ferro fin quasi ai tempi della conquista romana, e di progresso verso un'evoluta civiltà urbana; ne sono manifestazioni caratteristiche, sia pure parzialmente diversificate nel tempo, la ceramica dipinta geometrica, le stele scolpite in forma umana (proprie del territorio daunio), la pittura funeraria, le grandi cinte murarie, le tombe architettoniche. La Puglia si ricongiunge d'altra parte più o meno strettamente al complesso delle esperienze culturali delle coste italiche ed illiriche del Mare Adriatico (atto più ad avvicinare che a separare i fatti di civiltà), specialmente nell'età del ferro: tra le quali, per quel che riguarda la nostra penisola, le più antiche e caratteristiche e splendide si ravvisano nelle necropoli a inumazione della regione picena, cioè nell'Abruzzo e nelle Marche (Campovalano di Campli, Ascoli, Belmonte Piceno, Fabriano, Pitino, Numana, cui si aggiunge, più a nord dell'area picena vera e propria, No,vilara presso Pesaro); altre s'intravvedono più a sud (Capestrano, Alfedena). Questo vasto ciclo di culture medio-adriatiche, le cui influenze penetrano profondamente verso il cuore della penisola fino a raggiungere l'Umbria, la Sabina, il Lazio e la Campania, sembra potersi riferire in gran parte, con maggiore o minore certezza, alle stirpi italiche di lingua osco-umbra che appariranno alla ribalta della storia con i nomi di Sabini, Sabelli, Sanniti, Umbri.
Passando dalla sfera degli inumatori a quella dei crematori riconosciamo in primo luogo, con il suo già ricordato diretto attacco alla tipica espressione del bronzo finale del Lazio, la cultura laziale che intorno ai Colli Albani e nel luogo stesso di Roma nascente ne continua i caratteri essenziali ancora durante il IX secolo, ma tende gradualmente a sostituire l'inumazione alla cremazione e ad acquisire (VIII-VII secolo) forme di sempre più appariscente risalto del progresso economico e delle differenziazioni sociali, come provano specialmente i risultati dei recenti scavi compiuti in diverse località (Via Laurentina, Decima, Lavinio, Gabii) con sepolcri analoghi ai tipi della cultura meridionale delle tombe a fossa e influssi greci ed etruschi: processo culminante nell'acquisizione della civiltà orientalizzante etrusca (tombe principesche di Palestrina) e nella fioritura ormai pienamente storica di Roma arcaica e degli altri centri latini nel VI secolo. Non può esservi dubbio che la cultura laziale esprima sin dalle sue origini l'ethnos latino (ciò che tra l'altro dimostra che il cambiamento del rito funebre non significa affatto, almeno nel caso specifico, l'avvento di una diversa popolazione). Analoghe evoluzioni culturali e rituali, seppure marginalmente e in modo meno vistoso, si riscontrano nelle culture del ferro dei territori interni attigui del bacino del Tevere, come quelle del territorio falisco, della Sabina, dell'Umbria (Terni).
Nell'Italia settentrionale un fenomeno di particolare evidenza per la sua compattezza nello spazio, nel tempo, nelle caratteristiche e per la sua attribuzione etnica definibile anche qui con certezza — tale dunque da porsi in primo piano come esemplare della grande area crematrice — è rappresentato dalla cultura paleoveneta già altrimenti detta atestina (dal famoso centro archeologico di Este, antica Ateste: benché oggi Este sembri rappresentarne soltanto un aspetto). Essa ci si presenta con una continuità di sviluppo organico che, affondando le sue radici nel bronzo finale, scende attraverso parecchi secoli fino ai tempi delle invasioni galliche e del primo affacciarsi dell'espansione romana verso il nord; con molteplici richiami al Centro Europa (campi d'urne e Hallstatt) e alle finitime culture padane (villanoviano, Golasecca); ma anche con decise impronte d'originalità, specialmente nella tecnica e nelle immagini dei bronzi laminati decorati a sbalzo (cosiddetta «arte delle situle»: la forma della situla, cioè della secchia, è diffusa e caratteristica anche dei vasi cinerari): solo tardivamente si tende ad aggregazioni propriamente urbane (Padova) e ad aperture marittime (Adria). A questo preciso quadro culturale, proprio del popolo dei Veneti, si contrappongono le molteplici, varie, non facilmente classificabili e raggruppabili manifestazioni dell'età del ferro nelle zone alpine e nella pianura padana, con agganci ad est nella Slovenia, a nord con Hallstatt, e con un più tipico concentramento intorno ai laghi lombardi nella cultura di Golasecca (così chiamata dai sepolcreti della omonima località sul Ticino: altri importanti a Como); mentre a sud una variante ligure (Chiavari) richiama ad influenze dell'Europa occidentale. Anche per tali testimonianze, in parte notevole coincidenti con i territori storicamente ricordati come abitati dai Liguri, si scende fino a tempi molto recenti; resta per altro poco chiaro stabilire quanto in esse sia da attribuire ai Celti sovrapposti alle originarie popolazioni indigene, e alla cui influenza sarà comunque da riferire dopo il V secolo il diffondersi della più recente cultura del ferro europea di La Tène.
Un ultimo breve cenno va fatto alle grandi isole antistanti alle coste tirreniche d'Italia, cioè alla Sardegna e alla Corsica. La loro vicenda culturale è estranea o estremamente marginale al quadro della preistoria e protostoria italiana. L'imponente fenomeno che chiamiamo civiltà nuragica in Sardegna, con le sue manifestazioni architettoniche (complesse fortezze a torri troncoconiche dette nuraghi, templi a pozzo, abitazioni curvilinee, tombe collettive a esedra, ecc.) e con la sua produzione di statuette di bronzo, fiorisce nell'età del bronzo e continua nel corso del I millennio a.C. fino alla conquista dell'isola da parte dei Cartaginesi (VI-V secolo); più modesta e limitata è la cosiddetta civiltà torreana nel sud della Corsica: I'una e l'altra sembrano ricollegarsi alle esperienze preistoriche dell'Egeo e del Mediterraneo occidentale. L'influenza delle culture del ferro italiane ed europee è assai limitata, praticamente inesistente in Sardegna pur legata da contatti con l'Etruria tra il IX e il VI secolo come si vedrà.
Dall'iniziale VIII secolo a.C. assistiamo all'avvio di un grande sviluppo del mondo etrusco che porterà importanti trasformazioni economico-sociali e che conoscerà il suo apice con l’età orientalizzante. I centri etruschi raggiungeranno livelli di incremento, di attività produttiva, di espansione commerciale e politica, di progresso culturale tra i più avanzati dell’area mediterranea, gareggiando con i Fenici e con i Greci nel controllo delle grandi vie marittime, e dominando o influenzando una vasta sfera del territorio italiano.
Sicuramente le cause fondamentali di questo grande sviluppo del mondo etrusco debbono ricercarsi nelle risorse del suo territorio. La storiografia moderna ha voluto sottolineare ora l’uno ora l’altro aspetto economico, agricoltura e commercio, come fattore determinante delle fortune della civiltà etrusca. In realtà, come si è visto, l’opposizione tra i due aspetti, fin dalla fase più antica è apparente. Tra poco vedremo come gli oggetti in materiale prezioso delle tombe etrusche, tra l'VIII e il V secolo a.C., sono il frutto di scambi diretti e indiretti con il mondo esterno; tuttavia la grande ricchezza dell’Etruria, come ricorda Livio (IX, 35) era e resterà quella fornita dalla proverbiale feracità dei suoi campi. Le due attività economiche si sono profondamente integrate nel tempo, condizionandosi a vicenda: il valutarle separate condanna lo storico a non prendere in considerazione interi settori della documentazione letteraria, trascurando ad esempio le insistenti notizie sull’attività piratica degli Etruschi e sulle ricchezze delle loro miniere, o al contrario non comprendere importantissimi fenomeni storici come quello dell’espansione delle città etrusche nel corso del VI secolo a.C.
Se però è vero che agricoltura e commercio non possono essere considerate separatamente per comprendere il prorompente sviluppo dell’Etruria, nel suo complesso, è anche vero che mentre l’Etruria costiera, particolarmente ricca di miniere, conobbe la propria fioritura grazie soprattutto al commercio dei metalli, l’Etruria interna, in specie quella settentrionale, dove si presentano estese terre vallive e collinari, dovette le sue fortune principalmente alle risorse agricole.
Questo ha fatto sì che le città costiere si siano affermate in maniera più precoce e rapida, e che invece le città interne abbiano attardato ad emergere.
Uno degli aspetti più rilevanti dello sviluppo dell’Etruria costiera è che esso sembra manifestarsi precocemente ed in modo rapido. Possiamo sicuramente dire che a causarlo abbiano concorso sia particolari condizioni locali sia elementi di sollecitazione esterna: difficilmente possiamo sfuggire all’impressione che uno dei principali, se non il principale, dei fattori determinanti e catalizzanti di questo processo sia da riconoscere nella situazione privilegiata in cui si trova l’Etruria costiera per le sue ingenti risorse minerarie (ferro, rame, piombo argentifero, ecc.) e per il progrediente impulso della loro conoscenza ed utilizzazione, non solo nell’epicentro della zona populoniese (Isola d’Elba) e vetuloniese (Colline Metallifere) ma certo anche in altre località come i Monti della Tolfa. In un’età nella quale i metalli costituivano la più preziosa ed ambita materia prima, le navigazioni dei Fenici e dei Greci verso i mari occidentali debbono essere state in gran parte stimolate dalla necessità dell’acquisto del metallo e del controllo, diretto o indiretto, delle sue fonti d’estrazione, i cui maggiori centri erano nella Spagna meridionale, in Sardegna e, appunto, in Etruria.
Per quel che riguarda l’Etruria possiamo pensare ad una duplice conseguenza: cioè da un lato ad un certo interesse e forse alla frequentazione e partecipazione di elementi provenienti dal Mediterraneo orientale, già dal villanoviano ma sempre più intensamente nella successiva fase orientalizzante; dall’altro lato alla subitanea ricchezza che dal possesso di un’ambitissima materia di scambio derivò a queste comunità e in particolare ai loro ceti più industri, offrendo loro ogni possibilità di affermazione politico-militare, di conquista, di imprese marittime a largo raggio, oltreché di progresso economico, culturale e di elevazione del livello di vita fino all’acquisizione di beni esotici e del lusso più vistoso, quale è quello che si manifesta nei «tesori» di bronzi, ori, argenti, avori delle tombe orientalizzanti di Cere, Vulci, Vetulonia, Palestrina.
Prende così avvio una certa attività di carattere mercantile legata allo smercio dei metalli e, alla primitiva utilizzazione in comune delle risorse, si sostituisce a poco a poco l’iniziativa dei singoli individui, che tendono sempre più a sfruttare quelle risorse minerarie in proprio accumulando le ricchezze che ne derivano. Il corpo sociale si scinde così con l’emergere di un ceto più ricco che, disponendo di mezzi sempre più cospicui, finisce con l’imporsi come «classe» dominante e come protagonista principale del definitivo «incontro» con i Greci che, a partire dalla metà dello stesso secolo VIII, danno vita al grande movimento della colonizzazione.
Grazie a tutte queste condizioni assistiamo, tra IX e VI secolo, ad uno sviluppo — molto rapido — dei centri dell’Etruria costiera. Questi si evolvono rapidamente verso forme di organizzazione urbana a partire dall’VIII secolo, attraverso un’aggregazione di villaggi collegati topograficamente tra loro di regola posti in posizioni di altura a qualche distanza dal litorale (è il caso dimostrabile a Tarquinia, come più all’interno a Veio). Fioriscono così in età arcaica, protese sul mare e dominanti tutta la fascia tirrenica tra le foci dell’Arno e del Tevere, le città di Cere, Tarquinia, Vulci, Roselle, Vetulonia, Populonia, quali maggiori e sempre crescenti centri d’impulso e di progresso con proprie istituzioni autonome, ma legate non solo dalla lingua e dalla cultura comune, ma anche da comuni esigenze economiche. Se di queste città è impossibile scrivere una storia politica, almeno per questa fase più antica, possiamo comunque notare, oltre alla sostanziale contemporaneità di sviluppo, anche una certa successione di preminenze, che non oseremmo definire egemonie, ma considereremo piuttosto momenti di più visto ed appariscente sviluppo. Così Tarquinia per l’abbondanza e coerenza delle sue manifestazioni culturali dal villanoviano all’orientalizzante, sia per le tradizioni leggendarie su personaggi delle origini (Tagete, Tarconte) che la immaginavano come la culla della nazione etrusca parrebbe aver avuto importanza soprattutto nelle fasi iniziali della civiltà etrusca: tuttavia la vita di questa città sarà fiorente per tutta l’età arcaica ed una più intensa ripresa di testimonianze monumentali a partire dagli ultimi decenni del VI secolo a.C., costituiranno il preludio di una supremazia che è dimostrabile storicamente per i tempi successivi (*). Un’analoga precocità rivela più a nord, in piena zona mineraria, il centro di Vetulonia, che però declina dopo il VII secolo (a differenza della sempre industre Populonia). Ma non possiamo dimenticare che anche un’altra importantissima città etrusca si affianca ai centri fin qui menzionati, cioè Vulci, già formata e sviluppata parallelamente a Tarquinia nel villanoviano, ma giunta al suo più alto livello di produttività e di incidenza anche sui mercati internazionali — grazie alle sue larghissime esportazioni di ceramiche etrusco-corinzia — soprattutto nella fase tardo-orientalizzante tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo. Ma le novità si ripercuotono anche verso le vicine zone interne, dove sorgono i primi centri collegati attraverso le valli fluviali ai poli maggiori della costa, che tendono pertanto sempre più ad assumere il ruolo di poli di riferimento e d’attrazione.
Questo sviluppo dei centri dei grandi centri costieri si accompagna al progresso della loro attività marinara, riflesso dei crescenti interessi di natura commerciale. Già da tempo praticata in maniera disorganica e occasionale, questa attività viene ora organizzata in diretto antagonismo con i Greci e in forme spesso più vicine alle «avventure piratesche» che ai normali rapporti di scambio (del resto, ciò è in accordo coi principi delle società «primitive», che non fanno distinzione netta tra le due forme). La rivalità greco-etrusca sul mare non impedirà tuttavia il proseguimento dei proficui contatti tra i due mondi e soprattutto il perdurare e l’intensificarsi della cultura greca su quella etrusca (cfr. §2.1).
Intanto, come conseguenza della sistematica apertura sul mare, a cominciare dall’ultimo venticinquennio del secolo VIII si diffonde in Etruria la cosiddetta civiltà «orientalizzante» la quale, pur essendo un fatto essenzialmente elitario e proprio della classe dominante, si sostituisce gradualmente alle ultime manifestazioni della cultura villanoviana in via d’esaurimento. Essa è frutto di tutto un seguito di importazioni e di influssi che provengono dalle regioni del vicino Oriente e soprattutto dall’area siro-cipriota, che determinano un mutamento di gusto e di costumi segnando il definitivo tramonto del retaggio preistorico e l’assuefazione a modelli mediterraneo-orientali. Da ciò deriva una mescolanza di tradizioni locali e di motivi esotici in un generale quadro di ricchezza e di lusso evidenziato dai ricchi corredi delle tombe che in questo periodo prendono forme sempre più monumentali e grandiose. Nello stesso tempo si sviluppa una produzione locale d’imitazione dei prototipi orientali, che porta a una graduale differenziazione della vecchia unità culturale villanoviana e al progressivo definirsi di culture areali e di specializzazioni che diventeranno poi caratteristiche delle singole grandi città. A partire dall’inizio del VII secolo a.C. si precisa la distinzione tra città e campagna, s’incrementano le attività artigianali a tempo pieno anche con l’adozione di nuove tecnologie, si sviluppa l’industria metallurgica, si diffonde l’uso della scrittura, si rinforza la struttura sociale dominata da potenti nuclei di famiglie «gentilizie», che danno vita ad un sistema di tipo «clientelare» e a istituzioni e regimi di tipo monarchico. Finalmente, intorno alla metà del secolo VII, nei luoghi dove si è progressivamente concentrata la vita in comune, gli antichi agglomerati di villaggi appaiono ormai trasformati in vere e proprie città. In questa fase fiorisce Cere che, rimasta in posizione attardata e subalterna per tutto il villanoviano, «esplode» con tutta l’immensità e la monumentalità delle necropoli e con lo splendore dei suoi corredi funerari, indice di ricchezza, di operatività, di alta organizzazione, d’incremento demografico oltreché di rispondenza a stimoli culturali esterni. La sua prosperità e il suo prestigio rimarranno anche nel VI secolo e oltre, come ci dimostra la sua presenza in in eventi decisivi di carattere politico-militare di cui parleremo più avanti
Quindi il fenomeno si propaga alle regioni dell’Etruria centrale interna e infine a quelle settentrionali che avviano il loro sviluppo con un po’ di ritardo. Infatti esistono qui, condizioni ambientali diverse da quelle delle zone litoranee. Mancano i fondamentali presupposti di un accelerato sviluppo basato sui contatti e sui commerci marittimi, oltreché sullo sfruttamento delle miniere prevalentemente concentrate lungo la linea costiera. Si offrono in compenso, estese terre vallive e collinari ricche (allora) di boschi o idonee al pascolo e specialmente all’agricoltura che costituiva la base principale dell’economia. Deve attribuirsi a queste condizioni la persistenza, più a lungo che nell’Etruria costiera, di piccoli insediamenti (tipici della cultura villanoviana) sparsi e disposti per un razionale sfruttamento delle risorse agricole. Conosciamo infatti insediamenti su alture in genere non troppo elevate e ben difendibili, prossime a corsi d’acqua, sorgenti e zone lacustri: tipici sono gli esempi attorno al lago di Bolsena, lungo la valle del Tevere, nei territori di Chiusi, di Volterra, ecc. L’emergere dei ceti dominanti, cui si deve ovviamente ogni impulso innovativo, poggia quindi soprattutto sul possesso della terra — più che sulle attività imprenditoriali come nell’Etruria marittima —: lo provano anche i grandi sepolcri a tumulo con ricchi corredi funebri delimitati dapprima con circoli di ortostati, poi con «tamburi» di aspetto monumentale (presso Cortona, nel Chianti, nella valle dell’Arno), contemporanei e simili a quelli che appaiono nelle necropoli di Cere, di Tarquinia, di Vetulonia, di Populonia. C’è poi da considerare l’esistenza di centri di maggiore consistenza aventi carattere di «borghi» generalmente in altura e muniti (in latino sarebbero detti oppida), per i quali si può pensare a comunità autonome in qualche modo affini ai piccoli populi ricordati dalla tradizione per il Lazio protostorico (*): ne conosciamo esempi rilevanti, anche per le loro testimonianze archeologiche, soprattutto nell’Etruria meridionale e centrale, come San Giovenale, San Giuliano, Blera, Norchia, Tuscania, Acquarossa, Bisenzio, Castro, Poggiobuco, Pitigliano, Saturnia, ecc. Alcuni di questi abitati risalgono a nuclei dell’età del bronzo. Alla loro vitalità arcaica sembra aver fatto seguito, dopo il VI secolo, una decadenza talvolta fino alla sparizione (è il caso di Acquarossa presso Ferento) a causa della crescita delle grandi città e del loro dominio territoriale, di fenomeni di inurbamento, di insicurezza delle campagne a seguito di eventi bellici, minacce esterne, ecc.; ma alcuni dei vecchi centri di media grandezza avranno sviluppi anche in età avanzata (Sutri, Tuscania, Sovana). Un caso particolare è costituito dallo splendido palazzo-santuario di Poggio Civitate presso Murlo nel territorio di Siena, che fiorito tra il VII e VI secolo, viene poi definitivamente abbandonato.
Ma l’Etruria interna ha anch’essa le sue città, seppure meno numerose e addensate di quelle della fascia litoranea. La nascita e lo sviluppo di alcune di esse, meno distanti dal mare come Veio e a nord Volterra, o più arretrate come Volsinii (Orvieto) e Chiusi, avvengono contemporaneamente a quelli delle città costiere e sostanzialmente con le stesse caratteristiche. Molto antica, e straordinaria, è la fioritura economica e culturale di Chiusi, situata nel cuore dell’Italia centro-settentrionale, in una posizione favorevole di accessi e di transiti e con irradiazioni verso l’alta valle del Tevere e Perugia attraverso il Lago Trasimeno e le vie terrestri, da un altro verso il Senese (si pensi al «santuario-palazzo» di Murlo, dove si manifestano influenze artistiche chiusine); cosicché non deve far meraviglia che la tradizione storica registri sul finire del VI secolo una espansione politico-militare di Chiusi in piena area costiera tirrenica, con la spedizione del re Porsenna contro Roma. Altri centri che avranno pari importanza in età avanzata, come Perugia, Cortona, Arezzo, sembrano essersi urbanizzati più lentamente, a causa del perdurare di forti nuclei abitativi nei possedimenti aristocratici delle campagne; ma anche se l’origine può essere stata diversa queste città esistevano già certamente in età arcaica. Ciò che appare soprattutto interessante è il fatto che le città dell’Etruria interna si trovano disposte ad arco o a corona lungo una fascia approssimativamente corrispondente ai confini geografici dell’Etruria: da sud a nord, a breve distanza dalla riva destra del Tevere, Veio, Falerii — che pur non originariamente etrusca può includersi in questa rassegna —, Volsinii (nella zona di confluenza del Paglia con il Tevere), Perugia; al margine dei monti confinanti con l’Umbria, Cortona; lungo l’Arno Arezzo e Fiesole; né si escludono da questo sistema, benché meno periferiche, Chiusi e Volterra. Senza dubbio esiste un generale rapporto con le grandi vie fluviali. Tuttavia non si può sfuggire all’impressione che la disposizione di queste città costituisca una sorta di delimitazione protettiva, che in un certo senso conferma l’idea di un’antica concezione unitaria del territorio etrusco. Per altro verso proprio la marginalità di questi centri deve aver favorito l’esistenza di contatti e scambi con le confinanti regioni esterne, quali s’intravvedono per Veio (e per il territorio falisco) con il Lazio e la Sabina; per Volsinii e Perugia con l’Umbria; per le città settentrionali in genere con i paesi d’oltre Appennino.
Una vera e propria ricostruzione di eventi storici, di politica interna ed esterna, nell’età più antica è impossibile come per l’Etruria costiera. È immaginabile uno sviluppo parallelo e notevolmente differenziato dalle singole zone per l’ampiezza del territorio e per la diversità delle situazioni. Di primitive monarchie sorte dai ceti egemonici possediamo soltanto echi leggendari.
Consideriamo adesso quelle attività navali che avevano reso soprattutto famosi i Tirreni nell’antichità come «dominatori dei mari» (thalassokràtores: Dionisio di Alicarnasso, I, 11) e come temibili pirati. La storiografia antica infatti è concorde nel presentare gli Etruschi come una potenza marittima, al punto che i mari che bagnano le terre da loro occupate, il Tirreno e l’Adriatico si sarebbero chiamati così dal loro etnico presso i Greci e dal nome Adria, considerata etrusca da molti scrittori antichi (Varr. De ling. Lat., V, 161; Diod. Sic. V 40,1; Liv. V 33,7-8; Plut. Cam. XVI; Plin., Nat. hist. III 16, 120-121). Numerosi sono inoltre i ricordi di presenze etrusche in diverse località bagnate dal Mediterraneo e cioè in Campania, nelle Lipari, in Sicilia, in Corsica, in Sardegna, nelle penisola iberica eccetera. Ma come si è detto, gli Etruschi sono spesso presentati anche come pirati. A questo riguardo un giudizio di Cicerone (De re publ. II 4,9) è per così dire lapidario: «i barbari invero non erano navigatori all’infuori degli Etruschi e dei Fenici, questi per commercio e quelli per pirateria». Il primo testo che parla degli Etruschi come pirati è l’inno «omerico» a Dioniso, datato comunemente tra la seconda metà del VI e i primi del V secolo a.C.: alcuni pirati etruschi avrebbero rapito un giovane bellissimo per ottenere il prezzo del riscatto senza accorgersi che questi era Dioniso, il quale per punizione li avrebbe trasformati in delfini (il mito è noto nella tradizione figurativa ellenica ed etrusca contemporanea). In attesa del pagamento del riscatto egli avrebbe dovuto viaggiare con la loro nave «verso l’Egitto, verso Cipro o verso il paese degli Iperborei». Pertanto questi etruschi predoni sono anche commercianti. Se ne deve dedurre che nel periodo suddetto per gli Etruschi le due attività, commercio e pirateria, potevano essere concomitanti. Del resto, stando a Tucidide (I 5), nei tempi antichi, prima che si affermasse la città-stato come entità politico-istituzionale, la pirateria non era considerata un’attività riprovevole. I capi di ciurme, traendo attraverso le razzie guadagni per sè e per i più deboli, si comportavano sul mare come i ricchi sulla terraferma: si tratta di azioni di carattere privato, che la città-stato con le sue leggi «democratiche» condannerà. I dati archeologici confermano a grandi linee queste testimonianze. Tuttavia la massiccia e variatissima importazione, a partire dall’VIII secolo a.C., di oggetti e d’influssi stranieri dalla quale deriva in primo luogo il fenomeno di civiltà che chiamiamo orientalizzante, anche se peraltro continuerà ben oltre la fase orientalizzante e la stessa età arcaica, di per se stessa non dimostra l’esistenza di traffici etruschi oltremare, potendosi attribuire — come in gran parte è da attribuire — ad attività mercantili di navigatori stranieri. Al contrario, è il diffondersi di prodotti etruschi (soprattutto vasi di bucchero, etrusco-corinzi, anfore, talora anche bronzi e avori), oltre che sulle coste tirreniche d’Italia, in Sicilia, in Sardegna, nella Francia meridionale, in Spagna, nell’Africa settentrionale, anche in Grecia, in Asia Minore fino a Cipro e in Siria, che testimoniano l’esistenza di movimenti di navi etrusche soprattutto tra gli ultimi decenni del VII e i primi decenni del VI secolo a.C.
Cerchiamo ora di definire, per quanto possibile, alla definizione i tempi, i luoghi e e i modi della «talassocrazia» etrusca. La recente scoperta dell’esistenza di una facies culturale di tipo villanoviano sulla costa salernitana, in particolare nella zona di Pontecagnano, con penetrazioni anche verso l’interno (valle del Tanagro), sembra avere un notevole rilievo cronologico. Infatti, per queste aree possiamo rilevare, pur così a grande distanza e senza anelli intermedi, particolari affinità con i centri villanoviani dell’Etruria meridionale (Tarquinia, Vulci). Questo significa che l’ipotesi di primordiali approcci marittimi dall’Etruria all’inizio dell’età del ferro, anche se per certi versi sconcertante (fino a che punto ciò si riterrà conciliabile con il livello di sviluppo delle comunità villanoviane? perché la scelta del golfo di Salerno e non del golfo di Napoli?), non è certo da scartare. Essa difatti trova un non trascurabile appoggio dalla notizia di Eforo — se degna di fede come crediamo — secondo cui navigli etruschi non soltanto percorrevano, ma si spingevano anche oltre lo stretto di Messina già almeno nella prima metà dell’VIII sec. a.C.; inoltre il fatto che gli approdi avvenissero sul golfo di Salerno, con il «salto» del golfo di Napoli, è forse spiegabile considerando che quest’ultimo era densamente popolato (tra Cuma e la valle del Sarno) da popolazioni della cultura delle tombe a fossa e presumibilmente già meta ambita di frequentazioni ed installazioni precoloniali greche (euboiche? rodie?), preludio della vera e propria imponente colonizzazione euboica di Pitecusa (Ischia) e Cuma. È pensabile che gli Etruschi cercassero inizialmente sulle coste campane sedi di appoggio per la navigazione indirizzata verso il sud; ma, in ogni caso, almeno a partire da un certo momento, si può parlare di veri e propri impianti coloniali, visto che la città di Marcina — la cui ubicazione precisa è ancora incerta, ma probabilmente sarà da porre nella zona di Vietri e Salerno stessa — è esplicitamente ricordata da Strabone come fondazione (ktisma) degli Etruschi. La fascia litoranea campana diviene quindi presto oggetto di antagonismo tra Greci ed Etruschi, con una partizione di settori di influenza: il controllo etrusco sarà stabilito tra la foce del Sarno e la foce del Sele, mentre il dominio etrusco si imporrà nella Campania interna alle spalle degli impianti greci nel golfo di Napoli, in rapporto con correnti d’espansione provenienti per via terrestre (*).
L’attività marittima degli Etruschi, intesa su più larghi spazi nel Tirreno, dovette essere essenzialmente di commercio e di rapina, come detto, oltreché di difesa e di controllo di alcune principali rotte. In questo senso dovranno intendersi le notizie relative ai conflitti, probabilmente ripetuti a lungo, per il possesso delle Isole Eolie, tappa obbligata per il passaggio dello stretto di Messina, a partire dal momento in cui quest’ultimo fu assicurato alla navigazione greca, grazie alla fondazione «strategica» di Zancle (Messina) e di Reggio. La ricerca di località di appoggio costiere non può confondersi con fatti di colonizzazione; e ciò vale anche per le grandi isole antistanti l’Etruria, cioè per la Sardegna e per la Corsica, come per altre terre più lontane; solo in una fase più avanzata e per ragioni particolari come è il caso della Corsica dopo la battaglia del Mare Sardo (540 a.C. circa) si potrà parlare di conquiste territoriali (*).
Nel quadro dei più antichi contatti marittimi si inserisce — e merita particolare menzione — il problema dei rapporti tra Etruria e Sardegna, sede della peculiare e relativamente evoluta civiltà nuragica, che dalla preistoria perdura fino ai primi secoli del I millennio a.C. Alla presenza in Etruria di genti provenienti dalla Sardegna, si riferisce la leggenda della fondazione di Populonia da parte di Corsi (Servio, ad Aen., X, 172). Strabone menziona esplicitamente le incursioni di pirati sardi sulle coste della Toscana e fa allusione alla presenza di Tirreni in Sardegna. Non mancano d’altra parte testimonianze archeologiche che documentano relazioni commerciali e culturali tra la Sardegna e l’Etruria villanoviana e orientalizzante. Tra di queste abbiamo la presenza di oggetti sardi soprattutto nella zona mineraria: a Vetulonia fu scoperta una delle più ricche navicelle di bronzo di produzione nuragica mentre a Populonia è venuto alla luce un ripostiglio contenente bronzi sardi. Tuttavia le importazioni sarde appaiono anche più a sud (Vulci, Gravisca) tra il XI e il VI secolo. Ad esempio, da una tomba villanoviana dell’iniziale VIII secolo a.C. della necropoli di Cavalupo di Vulci sono venute alla luce tre interessanti bronzetti nuragici: una statuetta di «capo» in atto di saluto (?), uno sgabello ed un cesto, tutti di grande significato ideologico, in quando simboli del potere (la statuetta e lo sgabello) e dello status femminile (il cesto?). La sepoltura, certamente femminile, come testimoniano, oltre al cesto?, anche il coperchio del cinerario in forma di ciotola, le fibule e il cinturone, forse racchiudeva le ceneri di una donna sarda di alto rango che possiamo immaginare venuta dall’isola in sposa ad un esponente della società villanoviana. Non mancano inoltre affinità tipologiche e decorative di alcuni prodotti: alludo, tra gli altri, alla forte somiglianza per forma e per decorazione, tra un tipo di brocchetta askoide decorata a cerchielli impressi, ben noto in ambito sardo, e brocchette di forma e decorazione analoghe scoperte in numerose tombe vetuloniesi. Ma anche in Sardegna appaiono tracce di influenza etrusca: numerose, ad esempio, sono le fibule etrusco-villanoviane presenti sull’isola. Diciamo che le fibule, questo particolare oggetto di abbigliamento ignoto al costume sardo, non sono importate se non con un preciso modo di vestire: gli usi dell’abbigliamento, soprattutto in ambiti culturali «primitivi», come è noto, non si esportano senza le persone. Quindi il ritrovamento delle fibule in Sardegna costituisce un indizio prezioso circa possibili spostamenti di persone di origine tirrenica nell’isola.
Nella prima metà del secolo VII a.C., giunto ormai a conclusione il processo d'urbanizzazione, le città dell'Etruria meridionale iniziano una vicenda che le vedrà per circa un secolo e mezzo tra le principali protagoniste della grande storia mediterranea. La vitalità e il dinamismo che le caratterizzano (e che si manifestano sul piano sociale con l'apertura all'accoglimento e all'integrazione nei contesti urbani di mercanti, artigiani e imprenditori stranieri, segnatamente greci) si traducono prima di tutto in un accentuato sviluppo delle attività produttive. Queste non sono piú limitate a soddisfare le richieste pure crescenti del mercato interno ma vengono destinate soprattutto all'esportazione alimentando e dilatando le attività mercantili nelle quali passano in seconda linea quelle legate allo smercio e all'intermediazione di materie prime (come i metalli) o di manufatti acquisiti altrove.
La produzione per l'esportazione riguarda in maniera massiccia sia il settore agricolo, con la coltivazione intensiva della vite e dell'olivo (introdotta in Etruria dai Greci), sia il settore artigianale, con la fabbricazione a livello «industriale» delle ceramiche, soprattutto dei vasi «etrusco-corinzi» (imitazione della celebre e diffusissima ceramica prodotta a Corinto) e di quelli di bucchero (che imitano nelle forme i vasi greci e li sostituiscono nelle versioni in metallo). Ma la produzione «industriale» e l'attività d'esportazione propongono come naturale conseguenza e in tutta la loro ampiezza i problemi relativi agli sbocchi commerciali. E cosí, per assicurarsi mercati e vie di comunicazione, le città economicamente e politicamente piú potenti e intraprendenti (come Caere, Veio, Vulci) danno vita, a partire dalla metà del VII secolo a.C., a precisi e arditi programmi espansionistici, che per via di mare e per via di terra hanno di mira le regioni piú vicine come il Lazio, o strategicamente importanti, come la Campania (per le possibilità d'incontro offerte con il mondo greco che, nonostante le rivalità, resta sempre il "partner" commerciale piú importante), e perfino le regioni piú lontane, ancora sprovviste di un'autonoma rete mercantile, come la Liguria e la Provenza. L'espansione avviene in modi e forme diverse. Nel Lazio essa si concretizza con l'imposizione di una supremazia politica o, comunque, con l'acquisizione di un saldo controllo delle principali vie di comunicazione e dei piú importanti nodi di traffico, sia marittimi che terrestri. Cosí avviene a Praeneste, l'odierna Palestrina, all'ingresso della valle del Sacco; a Satricum, presso Aprilia, sulla via «pontina»; e soprattutto a Roma, che domina il piú importante guado del Tevere e dove nel 616 a.C., secondo la tradizione sostanzialmente confermata dall'archeologia, s'insedia la dinastia d'origine etrusca dei re Tarquini. In Campania l'espansione avviene attraverso l'intensificazione dei contatti già in atto da tempo con antichi centri di cultura "villanoviana" come quello di Capua (l'odierna Santa Maria Capua Vetere) sul fiume Volturno, e quello di Pontecagnano presso Salerno, che danno origine a un processo di graduale etruschizzazione. Ma l'affermazione etrusca in questa regione, che favorisce proficui contatti con l'ambiente greco d'estrazione ionica attraverso la mediazione di Poseidonia direttamente legata a Sibari (e quindi alla metropoli della Ionia asiatica Mileto), provoca però l'accendersi delle rivalità e dei contrasti con l'altra grande e piú antica componente del mondo greco d'Italia: quella di provenienza euboico-calcidese che proprio nell'area campana aveva creato, come s'è visto, gli avamposti e i capisaldi della sua colonizzazione. In Liguria e in Provenza, infine, l'espansione etrusca si traduce nella creazione di scali marittimi e di piccoli empori, ai quali fanno capo le rotte provenienti dall'Etruria e le vie naturali del retroterra.
La fase di prepotente dinamismo esterno delle città etrusche non è senza risvolti nelle strutture sociali e nell'organizzazione politica e istituzionale. In conseguenza dello sviluppo delle attività produttive e commerciali, infatti, prende corpo e via via s'afferma in tutto il corso del VI secolo, accanto e in contrapposizione al vecchio ceto aristocratico formatosi sullo scorcio del secolo VIII e protagonista della storia del VII, il nuovo ceto degli imprenditori e dei mercanti che sempre piú numeroso, attivo e vivace, finirà per costituire il nerbo della popolazione urbana e per condizionare, non senza profondi contrasti, la vita delle città.
Queste, infatti, continuano a reggersi con governi di tipo monarchico; ma alla tradizionale figura del re, espressione della classe aristocratica, si sostituisce o forse piú spesso s'alterna, tra fasi di lotte intestine, quella di derivazione greca del «signore», che si impadronisce del potere e lo esercita in forma personale appoggiandosi proprio al nuovo «ceto medio». Le città ne traggono giovamento. Divenute ormai, sul modello della polis greca, autentiche città-stato, ognuna a capo di un determinato territorio che si sono saldamente assicurato smantellandone sistematicamente tutte le strutture «decentrate», esse assumono il ruolo e l'impronta di piccole «metropoli», potenziandosi e consolidandosi nei mezzi e nelle strutture, arricchendosi di monumenti e d'opere d'arte ispirate alla cultura ionica proveniente dalle regioni greche dell'Asia Minore. È probabile che proprio in questo periodo (e ancora una volta dietro le suggestioni di modelli greci), si sia venuta creando quella alleanza (o «lega») politica e religiosa che in età più recente vedremo incentrata intorno al santuario del dio Voltumna, il Fanum Voltumnae, a Volsinii o presso Volsinii, e che farà di questa città la «capitale d'Etruria», Etruriae caput (Valerio Massimo, IX, 1). Di fatto, ogni città sviluppa autonomamente le sue iniziative politiche ed economiche; e la mancanza d'intese e di programmi comuni porta a diversità e contraddizioni di atteggiamenti, specialmente nei confronti dei Greci.
Pochi sono i dati relativi alle vicende politiche e storiche dei centri etruschi della metà del VI secolo a.C. Tuttavia un affresco della Tomba François di Vulci, datato al 340 a.C. ma riferibile alla prima metà del VI secolo a.C., ci può dare qualche interessante indicazione. In questo fregio è rappresentato un certo Macstrna, identificato dall’imperatore Claudio con Servio Tullio, in atto di liberare i due fratelli Caile e Avle Vipinas, mentre altri eroi suoi alleati (ritenuti vulcenti visto che compaiono in una tomba di Vulci senza etnico) hanno la meglio su di un Laris Papathnas di Volsinii, un Pesna Arcmsnas di Sovana, un Venthi Caules (?) di Falerii (?) ed un Cneve Tarchunies di Roma. L’uccisione di quest’ultimo, sia pure per mano di un ignoto eroe etrusco Marce Camitlnas, rappresenterebbe il momento in cui Servio si sostituisce in qualità di re di Roma, a Tarquinio, il Tarchunies degli affreschi, ma qui con un altro prenome, Cneve in luogo di Lucius. Inoltre queste immagini raffigurerebbero il ricordo, vivo nella tradizione etrusca, di conflitti tra Vulci e alcune città etrusche collegate a Roma, Volsinii e Falerii (?) sulla valle del Tevere e Sovana nell’entroterra.
Mentre l'archeologia ci documenta soprattutto dell'espansione commerciale, le notizie delle fonti letterarie greche ci parlano esclusivamente di accese rivalità per il controllo delle rotte marittime e ci danno notizia di vere e proprie battaglie navali, che sono le prime che si conoscano nella storia dell'Occidente. Cosí è per quanto riguarda i ripetuti scontri avvenuti nel corso del secolo VI, e fino agli inizi del V, al largo delle isole Eolie tra i coloni Rodii e Cnidii di Lipari e gli Etruschi, non sappiamo di quale città, che disturbavano i traffici (o addirittura miravano a porli sotto il loro controllo) transitanti per lo stretto di Messina sulla grande rotta dall'Egeo (e dal Mediterraneo orientale) al Tirreno. Gli storici greci sono tutti concordi nell'assegnare le vittorie ai loro compatrioti. Scrive infatti Strabone: «Lipari resistette per molto tempo alle incursioni dei Tirreni... spesso ornò il tempio di Apollo a Delfi con primizie del bottino», Diodoro Siculo: «Piú tardi, poiché i Tirreni saccheggiavano le regioni della costa, per far loro guerra allestirono una: flotta... Dopo ciò vinsero in molte battaglie i Tirreni e dai bottini dedicarono piú volte decime cospicue nel santuario di Delfi», Pausania: «Posero statue nel santuario di Apollo anche i Liparesi che avevano vinto in battaglia navale i Tirreni»
Cosí è per quanto riguarda il grosso scontro avvenuto, intorno al 540 a.C., nelle acque del Tirreno tra la Sardegna e la Corsica del quale c'informa Erodoto: uno degli episodi piú salienti, forse, di tutta la storia etrusca. Esso fu provocato dall'intrusione greca nello stesso mare «di casa» degli Etruschi e, in particolare dalla fondazione della colonia di Alalia (Aleria) sulla costa orientale della Corsica dirimpettaia dell'Etruria. Protagonisti di quest'impresa, per parte greca, furono i profughi della città di Focea nella Ionia asiatica i quali, per sfuggire alla minaccia persiana, s'erano trasferiti a piú riprese in Occidente e già intorno al 600 a.C. s'erano stabiliti alle foci del Rodano fondandovi la colonia di Massalia (Marsiglia). La serie di scali marittimi e di stazioni commerciali che i Massalioti s'erano affrettati ad installare sulle coste del mar Ligure e del Golfo del Leone aveva già dura-mente colpito gli interessi degli Etruschi e messo in crisi il loro fiorente commercio con quelle regioni al punto da farlo cessare completamente, visto che nei numerosi scavi archeologici non si trova piú nulla di etrusco — bucchero, vasi etrusco-corinzi, anfore vinarie — dopo il 580 a.C. Quando l'ultima ondata di Focei provenienti dalla madrepatria occupata dai Persiani, intorno alla metà del secolo VI, si stabilisce in Corsica iniziando scorrerie e saccheggi, gli Etruschi sono costretti a reagire. Protagonista da parte loro è Caere, la città in quel momento forse piú vitale e potente, la quale per meglio rintuzzare i nuovi antagonisti si allea con Cartagine, anch'essa seriamente danneggiata nei suoi interessi commerciali dall'intrusione focea. L'alleanza porta allo scontro armato che Erodoto così ci riferisce: «Quando (i Focei) giunsero a Kyrnos (la Corsica), vi soggiornarono per cinque anni insieme ai coloni che vi si erano stanziati precedentemente e vi eressero templi. Poiché intrapresero scorrerie saccheggiando tutte le popolazioni limitrofe, allora Tirreni e Cartaginesi si strinsero in un accordo e mossero guerra contro di loro, con sessanta navi. I Focei, a loro volta, armarono altre sessanta navi e si diressero contro i nemici nel mare che si chiama Sardonio (o Sardo). I Focei ottennero una vittoria "cadmea" [che equivale a "una vittoria di Pirro"], poiché quaranta delle loro navi furono distrutte e le restanti venti rimasero inservibili, dato che i rostri erano rovinati. Ritornarono dunque ad Alalia, presero a bordo i figli, le donne e quanti dei loro beni potevano trasportare. Lasciata Kyrnos partirono verso Reggio».
La battaglia del Mare Sardo può essere presa come punto di riferimento per segnare l'apogeo della "presenza" etrusca nella storia dell'Italia e del Mediterraneo occidentale; una presenza che può essere brevemente sintetizzata nel modo seguente. Nel versante centro-settentrionale, assicuratasi una sostanziale libertà d'azione nel medio e alto Tirreno e consolidati, nell'ambito di rispettive aree d'influenza, i rapporti di reciprocità con l'alleata Cartagine alla quale lasciarono la Sardegna, gli Etruschi da una parte riorganizzano, d'intesa con Marsiglia, la loro rete commerciale lungo le coste a nord dell'Arno appoggiandola alla nuova base strategica di Pisa e ad empori fissi come quello creato presso il centro ligure di Genova; dall'altra si sostituiscono ai Greci in Corsica, stabilendosi nella stessa Aleria, forse da identificare ora con quella che lo storico greco Diodoro Siculo menziona come la «colonia» etrusca di Nikaia, ossia «Vittoria». Quindi, per opera delle città settentrionali e interne, come Volsini, Chiusi, Volterra, gli Etruschi iniziano una vigorosa penetrazione nei territori transappenninici della pianura padana, e segnatamente dell'Emilia, attraverso la graduale etruschizzazione ed urbanizzazione di antichissimi centri «villanoviani» (come quello di Felsina, cioè Bologna), la fondazione di vere e proprie «colonie» (come a Marzabotto nell'alta valle del Reno) e del grande emporio fluviale-marittimo di Spina alle foci del Po. Sul versante centro-meridionale, mentre i porti delle grandi città marittime continuano ad ospitare gli empori dei mercanti greci e perdurando l'egemonia sul Lazio, s'intensificano e si potenziano gli insediamenti della Campania: da Capua alle zone periferiche del golfo di Napoli, nella valle del Sarno e attorno al golfo di Salerno dove, essendo in declino il vecchio centro di Pontecagnano, fiorisce ora quello di Fratte e da dove partono verosimilmente le spedizioni verso il basso Tirreno e lo Stretto che portano ai già ricordati scontri coi Liparesi.
Si può dunque affermare che nella seconda metà del secolo VI a. C. le città etrusche, ricche e potenti, estese e popolose, culturalmente evolute, affermano in vario modo con la loro multiforme attività un autentico primato su buona parte della Penisola. Proprio cosí pensa lo storico romano Tito Livio quando scrive: «La potenza dell'Etruria era tanto grande che la gloria del suo nome riempiva non solo la terra ma anche il mare, per tutta la lunghezza dell'Italia, dalle Alpi allo stretto di Messina». La constatazione di Livio trova riscontro nella notizia appena esagerata, attribuita da Servio a Catone, secondo la quale «quasi tutta l'Italia era stata sotto il dominio degli Etruschi». Il prodigioso periodo di fioritura dell'Etruria non è però destinato a durare a lungo, a causa della fragilità del «sistema». Le singole città-stato, infatti, continuano ad operare ognuna per proprio conto, con iniziative frammentarie ed occasionali, senza programmi di largo respiro e in assenza di qualsiasi effettivo coordinamento. La disunione porta poi facilmente alle rivalità e agli scontri interni, senza che abbia successo nessuno dei pur probabili tentativi egemonici messi in atto dalle città piú importanti. S'aggiungano i travagli istituzionali che sfociano nella presa diretta del potere da parte delle oligarchie aristocratiche, con l'instaurazione di regimi repubblicani che però non risolvono i tradizionali conflitti sociali. Si capisce cosí come quelle città si trovano del tutto incapaci di affrontare con qualche possibilità di successo l'insorgere di nuovi problemi e delle gravi minacce esterne che cominciano a profilarsi sullo scorcio dello stesso secolo VI. Una prima crisi si presenta come contraccolpo degli eventi che con l'occupazione della Ionia da parte dei Persiani, in Asia Minore, e con la distruzione di Sibari ad opera della rivale Crotone, in Italia, nel 510 a.C., provocano il crollo del sistema commerciale ionico in cui gli Etruschi erano inseriti come interlocutori privilegiati. Nello stesso tempo, la fine a Roma della monarchia etrusca, con la cacciata di Tarquinio il Superbo (tradizionalmente fissata al 510/9 a.C.), determina la rottura dell'equilibrio politico-economico creato da quel re nel Lazio e di riflesso nell'Etruria meridionale, con il riesplodere delle lotte tra le città etrusche (Caere, Vulci, Volsini, Chiusi) che già piú volte s'erano violentemente contesa la supremazia sulla città del Tevere e sul territorio da essa controllato ed organizzato.
Del vuoto improvviso tenta d'approfittare Chiusi (d'intesa con Volsinii), ma il suo tentativo provoca la reazione della greca Cuma la quale alleatasi con i Latini infligge ad Ariccia, nel 504 a.C., una pesante sconfitta all'esercito chiusino. Ciò non impedisce a Chiusi (e al suo re Porsenna) di affermare su Roma un'effimera egemonia; ma quando questa s'esaurisce, nei primi anni del secolo V, per la reazione dell'elemento latino (e per altri fatti che ci sfuggono), cessa con essa ogni ulteriore velleità degli Etruschi di riconquistare il terreno perduto.
La perdita del Lazio non sarà senza conseguenze per il dominio etrusco in Campania, dove peraltro Capua raggiunge proprio in questo momento la sua massima fioritura. Tuttavia proprio questa perdurante presenza etrusca nella regione e i continui tentativi messi in atto dalle città dell'Etruria meridionale di tenere aperti con essa i contatti via mare e di mantenere una certa pressione in direzione della Sicilia provocheranno l'intervento determinante della nascente potenza di Siracusa.
La situazione, già così gravemente compromessa per gli Etruschi, precipita all'inizio del terzo decennio del secolo V quando proprio Siracusa, dopo essersi sbarazzata dei Cartaginesi sconfitti nella battaglia di Himera del 480 a. C. e assicurato il predominio sulle città greche della Sicilia e dello Stretto, rivolge le sue mire alla Campania correndo in aiuto di Cuma contro un'ennesima aggressione degli Etruschi. Scrive in proposito Diodoro Siculo: «Quando era arconte ad Atene Akestoridos e consoli a Roma Cesio Fabio e Tito Verginio (cioè nell'anno 474 a.C.), giunsero a Gerone, signore di Siracusa, ambasciatori da Cuma in Italia per chiedergli aiuto nel combattere i Tirreni che dominavano il mare. Mandate come aiuto triremi capaci, i comandanti di queste navi, giunti a Cuma, danneggiarono molte navi dei Tirreni e, avendoli vinti in una grande battaglia, li umiliarono». La sconfitta subita nelle acque di Cuma è probabilmente per gli Etruschi il piú grave degli eventi negativi succedutisi a partire dall'ultimo decennio del secolo VI. Di fatto, per le sue immediate conseguenze e per gli effetti di lunga durata, essa segna la fine dell'apogeo etrusco e l'inizio di una fase di declino che, pur con alterne vicende, sarà inarrestabile.
Il blocco del Tirreno meridionale attuato dai Siracusani dopo la vittoria di Cuma mentre provoca l'isolamento di Capua e degli altri centri dell'Etruria campana, colpisce direttamente gli interessi delle città marittime dell'Etruria meridionale che, abbandonata ogni velleità di riscossa, debbono ripiegare su se stesse. I mercanti greci lasciano allora i già fiorenti empori e scali portuali: ne abbiamo un'eloquente dimostrazione a Gravisca, il porto di Tarquinia, dove il santuario dell'emporio greco installato nel secolo VI appare, dopo il 470 a.C., in completo abbandono. Ma Siracusa che si sta intanto affermando come la piú importante città greca e la principale potenza dell'Occidente, non s'arresta al Tirreno meridionale e spinge le sue flotte fin nel mare «interno» degli Etruschi. Sappiamo infatti, ancora da Diodoro Siculo, che nell'anno 453/2 a.C. «i Siracusani, eletto ammiraglio Faillo, lo mandarono in Tirrenia (cioè in Etruria). Questi, armata la flotta, saccheggiò per prima l'isola chiamata Aithalia (ossia l'Elba); ma, avendo preso danaro dagli Etruschi, tornò in Sicilia senza aver compiuto nulla d'importante. I Siracusani, condannatolo per tradimento, lo mandarono in esilio e inviarono contro i Tirreni un altro comandante, Apelle, al comando di sessanta triremi. Questi dopo aver saccheggiato le coste della Tirrenia, si trasferí nell'isola di Kyrnos (la Corsica) che a quei tempi era soggetta ai Tirreni e avendo devastato la maggior parte delle località dell'isola, s'impadroní di Aithalia e tornò in Sicilia con gran numero di prigionieri e con non poche ricchezze».
Mentre perdura la lunga eclissi di Cartagine, Caere, Vulci, Tarquinia, Populonia, Roselle sono dunque assolutamente incapaci di contrastare le spedizioni di Siracusa e d'impedire le scorrerie e i saccheggi sulle proprie stesse coste. Intanto sulle rive del Tevere si acutizzano i contrasti, le scaramucce e le piccole guerre di frontiera tra Veio e Roma per il controllo di Fidene che verrà conquistata da Roma nel 426 a.C.; e in Campania Capua e le altre città etrusche cadono una dopo l'altra nelle mani dei Sanniti.
La grave crisi dell'Etruria, che a poco a poco investe tutti i campi della vita organizzata, s'inserisce in un quadro di crisi piú generale che riguarda tutta l'Italia centro-meridionale e della quale sono causa, oltre che i grandi avvenimenti internazionali già ricordati e la fine del vecchio sistema commerciale greco-etrusco, anche le irrequietezze e i movimenti delle popolazioni sabelliche dell'entroterra appenninico. Essa è ampiamente documentata dall'archeologia, che per tutta la seconda metà del secolo V a.C. denuncia un generale regresso del tenore di vita con una drastica riduzione delle importazioni, la contrazione (e lo scadimento) della produzione locale, la diminuzione delle attività urbanistiche ed edilizie; e un diffuso scadimento culturale, con la rarefazione delle iscrizioni e la «provincializzazione» delle manifestazioni artistiche. Tuttavia la crisi non investe le città etrusche piú interne e settentrionali (come Volsini, Chiusi, Arezzo, Cortona, Volterra, Perugia), le quali anzi per dinamismo e vitalità prendono il posto delle declinanti consorelle meridionali. Le loro fortune sono legate alle immense risorse di sfruttamento commerciale che offrono i mercati dell'Italia padana (e delle stesse regioni transalpine) e i traffici dell'Adriatico, attraverso i quali il mondo etrusco stabilisce un nuovo fecondo rapporto col mondo greco. Questo è ora rappresentato da Atene, che vive la sua splendida fioritura dell'età «classica», la quale trova nell'Adriatico la via alternativa per le esportazioni in Italia e nell'Occidente rispetto alla via tirrenica, preclusa dall'incontrastato dominio di Siracusa.
Proprio la rivalità tra le due grandi città greche consente, sullo scorcio del secolo V, alle languenti città etrusche meridionali, o forse soltanto a Tarquinia, di reinserirsi per un momento e in qualche modo nel gioco di una politica internazionale d'un certo respiro. Quando infatti gli Ateniesi decidono di attaccare Siracusa e chiedono l'appoggio dei suoi tradizionali nemici, inviano una triremi a Cartagine ma anche in Etruria, «dove — come c'informa Tucidide — alcune città promettevano di combattere al loro fianco». Quindi, posto dagli Ateniesi l'assedio navale alla città siciliana nel 414 a.C., «dall'Etruria vennero poi tre navi a cinquanta remi». Si trattò dunque d'un contributo poco piú che simbolico, vista anche l'arretratezza delle navi etrusche che erano ancora le pesanti e lente pentecontere ormai superate dalle piú leggere e veloci triremi che costituivano il nerbo della flotta di Atene. Tuttavia i soldati etruschi imbarcati su quelle tre navi antiquate riuscirono a riportare in un piccolo scontro a terra coi Siracusani, nell'estate del 413, uno dei pochi successi di tutta la spedizione conclusasi con la disfatta ateniese. Ce ne parla sempre Tucidide, che scrive a proposito dei Tirreni, cioè degli Etruschi: «Gilippo (comandante dell'esercito siracusano) giunse prontamente sul molo con una parte delle sue truppe. I Tirreni che per ordine degli Ateniesi lo presidiavano, vedendo che giungevano in ordine sparso, si precipitarono contro di loro e, gettandosi sui primi, li cacciarono spingendoli in fuga verso la palude chiamata Lisimelia. I Siracusani e i loro alleati non tardarono a giungere con forze piú consistenti, ma anche gli Ateniesi intervennero ad aiutare i Tirreni, temendo di perdere le navi. Si giunse allo scontro armato, gli Ateniesi vinsero e misero in fuga il nemico uccidendo un certo numero di opliti. Gli Ateniesi, per proprio conto, eressero un trofeo per ricordare la vittoria riportata dai Tirreni su quel gruppo di opliti che avevano fatto fuggire verso la palude e per l'altra vittoria che essi stessi avevano ottenuto nei confronti del resto dell'esercito».
Sul finire del secolo V a. C., due nuove gravissime minacce s'affacciano agli estremi del mondo etrusco: a nord la pressione delle tribú celtiche dei Galli che, penetrate da tempo (forse all’epoca di Belloveso, stando alle tradizioni) in Italia attraverso le Alpi, investono ora direttamente le città dell'Etruria padana; a sud l'incipiente espansionismo di Roma, che riprende con determinazione la guerra contro Veio. Di fronte a questi due pericoli la reazione degli Etruschi è come sempre priva di qualsiasi coordinamento. Anzi l'esasperato particolarismo, la ristrettezza di vedute e le mai sopite rivalità impediscono alle città etrusche addirittura di valutare con esattezza la reale portata di quei pericoli. Così, ad esempio, quando Veio, scaduta l'ultima tregua stipulata con Roma dopo le alterne vicende di un. scontro che s'era prolungato per tutto il secolo V, viene definitivamente attaccata e assediata dall' esercito romano, nessuna città «sorella» accorre in suo aiuto. C'è anzi da ritenere che l'aiuto le fosse deliberatamente rifiutato per iniziativa della rivale Caere che era presumibilmente in contrasto con Veio per il controllo della riva destra del Tevere e che con Roma aveva intanto stretto rapporti di buon vicinato. All'inizio del secolo IV, nel 396 a.C., Veio è conquistata e distrutta e il suo territorio incorporato in quello dello stato romano. Nello stesso anno (ma il sincronismo è sospetto) la tradizione ricorda l'occupazione da parte dei Galli del primo centro etrusco padano: quella città di Melpum della quale non sappiamo altro e che alcuni vorrebbero localizzare nei pressi di Milano.
Una dozzina d'anni dopo, tornano ad affacciarsi sul mare «etrusco» le navi di Siracusa risollevatasi dalla prostrazione in cui l'aveva ridotta la guerra pure vittoriosa contro Atene e poi dalle sconfitte inflittile da Cartagine allo scadere del secolo V. Conclusa una pace con la città punica nel 392 a.C., Siracusa riprende le sue mire espansionistiche nel Tirreno. Nel 384 a.C., mentre Caere è impegnata a difendersi contro un'improvvisa scorreria dei Galli, una flotta siracusana saccheggia il santuario di Pyrgi che della stessa Caere era il porto principale. Poi, raggiunta probabilmente la Corsica, vi stabilisce un presidio militare, se a questo momento è da riferire, come sembra, una notizia isolata ed acronica di Diodoro Siculo che parla appunto della creazione nell'isola di un «insediamento», peraltro non destinato a lunga durata, denominato «Porto Siracusano». Le iniziative di Siracusa non si limitano però questa volta al Tirreno. Con un ardito e fortunato disegno, esse si rivolgono anche all'Adriatico dove sconvolgono i traffici etrusco-ateniesi già compromessi dalla dilagante invasione celtica. In particolare, la rivitalizzazione da parte dei Siracusani del vecchio emporio veneto di Adria mette in crisi l'etrusca Spina, che perde proprio a favore di Adria le sue prerogative di centro nodale dei traffici con il mondo padano.
Intanto, nell'Etruria meridionale Caere continua ad essere legata a Roma, tanto che in occasione del «sacco» dei Galli accoglie i profughi romani con i sacerdoti, le vestali e i simboli sacri (i sacra) dell'Urbe, mentre continua ad ospitare i giovani delle famiglie nobili che vi si recano per perfezionare i loro studi. Tuttavia, Caere sta finendo progressivamente emarginata e cedendo proprio a Roma il suo antico ruolo. La conferma ci è data, indirettamente, dal trattato commerciale che nel 348 a.C. Cartagine stipula con i Romani: se, come tutto lascia credere, tale trattato è l’«erede» di quelli che già erano intercorsi tra i Cartaginesi e gli Etruschi, ne consegue che Cartagine ha cambiato interlocutore e che Roma ha preso ormai il posto di Caere, che pure di Cartagine era stata la principale alleata.
Nel frattempo sta però risorgendo Tarquinia, grazie ad un'accorta politica di piú intenso e sistematico sfruttamento delle risorse agricole del territorio, che essa controlla e riesce ad ampliare e a potenziare con un'efficace opera di «colonizzazione» interna (rifonda Ferento, Tuscania, Norchia, Castel d’Asso, San Giuliano, San Giovenale). La stessa Tarquinia riesce ad imporre una sua supremazia sulla Lega intervenendo anche pesantemente negli affari di altre città (sotto la guida del praetor Aulo Spurinna) come nei confronti di Caere, dove toglie il potere dalle mani di un anacronistico re (un certo Orgolnius) e nei confronti di Arezzo, dove stronca una rivolta «popolare» (un bellum servile) ristabilendo l'ordine aristocratico. Ma l'accresciuta potenza, e la sua posizione geografica, portano Tarquinia a una situazione di inevitabile antagonismo con Roma. Nel 358 a.C. scoppia in una guerra aperta mossa da Tarquinia appoggiata dai suoi alleati Falisci e anche dai Ceriti, costretti a un voltafaccia antiromano. Stando alle notizie non sempre chiare delle fonti romane, le operazioni ebbero inizio nel territorio falisco e furono dapprima favorevoli agli Etruschi, che tolsero a Roma le due piazzeforti di Sutri e di Nepi e si spinsero nel 356 a.C. fino alle Saline della foce del Tevere. Poi, nel 354, si sviluppò la controffensiva romana che indusse Caere ad abbandonare il campo e a chiedere la pace con un atto di pressoché completa sottomissione. Dopo la defezione di Caere la guerra, trascinatasi stancamente senza episodi di rilievo, si concluse nel 351 a.C. senza vincitori né vinti, con la stipula di una tregua quarantennale tra le due contendenti che in pratica sanciva lo status quo.
Mentre dunque sul «fronte» meridionale Roma impone la sua definitiva presenza, sul «fronte» settentrionale finisce l'Etruria padana. Infatti, pur avendo a nostra disposizione solo la documentazione archeologica, si può dire che nella seconda metà del secolo IV a.C. furono travolti dall'onda celtica tutti i centri etruschi di quella regione, compreso il piú importante, quello di Felsina, occupato dai Galli Boi (dai quali deriverà poi, al principio del secolo successivo, il nome della colonia romana di Bononia). Forse solo Spina riesce a conservare in qualche modo la sua fisionomia, visto che vi sono state rinvenute iscrizioni etrusche databili ancora nel III secolo; ma essa resta completamente emarginata e immiserita, tanto che quando nel 325 a.C. Atene, tramontate le fortune di Siracusa, si riaffaccerà sulla scena adriatica, essa invierà una sua «colonia» mercantile ad Adria, ignorando l'approdo etrusco che pure era stato il suo vecchio interlocutore.
Ridotta entro i suoi confini originari già gravemente intaccati a sud dall'espansione romana, l'Etruria ripiega verso le sue beghe interne e le lotte intestine. In esse le città meridionali si contrappongono a quelle settentrionali per la supremazia sulla Lega che, perduta da Tarquinia, passerà almeno per un certo tempo a Volsini. Poi sul finire del secolo, nel 311 a.C., riprende la guerra con Roma. Ancora una volta l'iniziativa dovette essere degli Etruschi ma protagoniste dello scontro sono ora le città centro-settentrionali con alla testa Volsinii, subito affiancata da Vulci e poi da Arezzo, da Cortona, da Perugia e dalla stessa Tarquinia. Si può dire, quindi, che per la prima volta tutta l'Etruria muove contro Roma. Questa però, che ha vittoriosamente conclusa la guerra coi Volsci e le città latine e si è assicurata l'alleanza di Capua e delle altre città campane, pur essendo ancora impegnata contro i Sanniti, può rivolgersi al fronte etrusco con ben altre forze e possibilità che nel passato. Così, fra il 310 e il 308 a.C., gli eserciti etruschi vengono piú volte battuti dalle legioni romane, che si portano subito all'offensiva aggirando di sorpresa lo schieramento nemico, attestato sulla frontiera tarquiniese, e spingendosi per la prima volta nel cuore dell'Etruria interna.
Nel 307 a.C. Tarquinia si sottrae alla lotta acconciandosi a rinnovare con Roma la tregua appena scaduta; le città settentrionali (Cortona, Arezzo, Perugia) si arrendono accettando condizioni umilianti che consentiranno a Roma di intromettersi nelle loro vicende interne, come avviene per Arezzo, dove nel 302 un intervento romano pone fine a una sedizione «popolare» contro il governo dell'oligarchia aristocratica; Volsinii e Vulci sono ridotte all'impotenza.
Proprio in questo momento s'inserisce nella nostra documentazione una notizia certamente singolare, che sembra denotare la non ancora spenta vitalità dell'Etruria. Riferita da Tito Livio, essa c'informa di una squadra navale etrusca che nel 307/6 a.C. sarebbe accorsa in Sicilia in aiuto di Siracusa, ancora una volta impegnata contro Cartagine.
Al principio del III secolo a.C. la guerra etrusco-romana, non ancora definitivamente conclusa, torna a riaccendersi; ma essa esce dai limiti del conflitto pur sempre «locale» per inserirsi in una più vasta dimensione "italica", che ormai riguarda le sorti di tutti i popoli della penisola nei confronti dell'espansionismo di Roma. Gli Etruschi riprendono infatti le armi nell'ambito di una grande coalizione antiromana, promossa dai Sanniti e alla quale partecipano anche i Sabini, gli Umbri e i Galli. Quando però, nel 295 a. C., Roma affronta gli eserciti dei coalizzati (senza che si sappia con certezza se vi fossero già compresi gli Etruschi) e li annienta nella grande battaglia di Sentino nelle Marche, le città etrusche sono ancora una volta costrette, una dopo l'altra, a cedere alla piú forte nemica. L'ultimo loro sussulto si ha qualche anno dopo, nel 283 a.C., allorché al lago Vadimone, nei pressi di Orte, gli eserciti etruschi rinforzati da contingenti di Galli combattono l'ultima grande battaglia, che si conclude con l'ultima definitiva sconfitta.
Tra il 281 e il 280 a.C. s'arrendono per sempre le irriducibili Vulci e Volsinii, mentre le città settentrionali s'affrettano a concludere (o a rinnovare) i precedenti trattati di pace. Tutte sono infine costrette a sottoscrivere patti associativi con Roma in forza dei quali questa riconosce ad ognuna, con lo stato giuridico di «alleata», una formale indipendenza. Di fatto, però, l'Etruria accetta la supremazia di Roma e si pone nei confronti di questa nella condizione di una sostanziale sudditanza. Comincia così per la storia etrusca, il periodo finale.
La capitolazione delle città etrusche e il loro ingresso in una singolare «federazione» (foedera) con Roma nella quale sono costrette (insieme ad altre città e comunità dell'Italia via via sottomesse) in forza dei patti che, singolarmente, hanno dovuto accettare di sottoscrivere, segnano l'inizio dell'ultimo periodo della storia etrusca: quello che si suole definire, per l'appunto, il periodo dell'Etruria «federata» .
Come tuttavia la «federazione» tra Roma e le città etrusche sarà parte della piú grande «federazione» romano-italica organizzata da Roma in tutta la Penisola (e nella quale i rapporti e i vincoli d'alleanza non sono reciproci tra le diverse entità che ne fanno parte ma riguardano ognuna di queste e la città egemone), cosí la storia dell'Etruria «federata» diventerà la storia parziale di un mondo piú vasto che è quello dell'Italia progressivamente unificata da Roma. Essa finirà, pertanto, col confondersi con la storia stessa di Roma ossia con quella che viene comunemente chiamata storia «romana» e che invece, piú propriamente, sarebbe da chiamare storia dell'Italia che s'avvia a diventare romana. L’ingresso, forzato, nella «federazione», comporta la stipulazione di nuovi trattati, i quali presentano, a seconda dei casi, clausole speciali e diverse, particolarmente dure per le città (soprattutto quelle meridionali) che piú direttamente s'erano opposte a Roma e piú lungamente e duramente avevano lottato contro di essa. Tali clausole potevano comprendere, tra l'altro, anche l'imposizione di tributi e di controlli sulla pubblica amministrazione e in qualche caso arrivano fino alle menomazioni territoriali. Cosí accade ad esempio per Vulci, per Tarquinia e per la stessa Caere (che nel 293 a.C., nel clima della generale guerra antiromana, si era ancora una volta ribellata) le quali subiscono la confisca di ampie porzioni del territorio costiero. Qui Roma fonderà, fra il 273 a.C. e la fine del secolo, una serie di «colonie» marittime (Fregenae, Alsium, Pyrgi, Castrum Novam, Graviscae, Cosa), quasi tutte nei medesimi luoghi dov'erano i porti che tanto avevano contribuito all'antica ricchezza e potenza delle città che ora ne erano private. Vulci inoltre deve cedere anche lembi di territorio interno dove Roma costituisce le «prefetture» di Statonia e di Saturnia. Tarquinia, per parte sua, finisce col perdere anche il controllo di gran parte del territorio rimastole, dove i diversi centri minori, favoriti da Roma, vanno progressivamente acquistando autonomia nei confronti della «capitale». Quanto a Caere, ridotta al rango di «prefettura», viene definitivamente integrata nello stato romano. Al di là di questi casi particolari, a tutte le città i patti impongono di rinunciare a qualsiasi iniziativa politica autonoma, anche nei loro rapporti reciproci, di riconoscere come propri gli amici e gli alleati o i nemici di Roma, di fornire a questa aiuti ogni qualvolta ne fossero richieste (specialmente in occasione di guerre e con contributi di uomini e mezzi); di coordinare con gli interessi romani ogni loro attività anche di natura produttiva e commerciale; di garantire il mantenimento dei propri ordinamenti istituzionali fondati sul potere delle oligarchie aristocratiche (impegnate a loro volta al mantenimento dei patti); di accettare (o richiedere) l'intervento di Roma in caso di gravi turbamenti e di conflitti interni.
Tuttavia, il sistema federale consente d'altro canto alle singole città di continuare a vivere una vita (che si potrebbe definire di livello «municipale») regolata e ordinata secondo i principi e le usanze della tradizione nazionale, mantenendo le proprie leggi, la propria lingua e la propria religione, in un'atmosfera di generale conservazione che sarà solo turbata, di tanto in tanto, dalle rivolte sociali. Queste saranno provocate, dalla contrapposizione di due «classi», una aristocratica filoromana e una «popolare» antiromana, nettamente separate e il cui mantenimento rientra nei patti imposti da Roma. La definitiva consacrazione del «nuovo ordine» — e la «verifica» dei trattati — si ha nell'Etruria così sottomessa, prima della metà dello stesso secolo III, a nemmeno vent'anni di distanza dalla conclusione delle guerre, con un altro evento drammatico, paragonabile a quello che con la distruzione di Veio, al principio del secolo precedente, aveva dato inizio al definitivo cedimento dell'Etruria. Quando nel 265 a. C., a Volsinii, gli esponenti dell'oligarchia dominante, allontanati dalle leve del comando da una rivolta della classe subalterna, si rivolgono al Senato, in forza dei patti, per essere reintegrati nel potere, l'intervento di Roma è immediato e drastico. Un breve assedio si conclude infatti con la conquista e la distruzione della città, cui segue la deportazione degli abitanti in una nuova sede, il sito dell'attuale Bolsena che ancora oggi conserva il nome dell'antica città. La distruzione di quella che può essere considerata la «capitale morale» dell'Etruria, in quanto sede della Lega e del santuario «nazionale», violato e saccheggiato (mentre il suo culto veniva trasferito a Roma!) è cosí l'evento finale che sancí il fatto compiuto dell'irreversibile dominio romano.
Dopo la sua «pacificazione» (mentre Roma, alla conclusione della prima guerra punica nel 246 a.C., si sostituisce a Cartagine nel controllo del Tirreno e occupa la Corsica, antica meta dell'espansionismo etrusco), l'Etruria è per qualche tempo la naturale e utilissima base delle operazioni militari romane contro i Liguri, che avevano sempre resistito ad ogni serio tentativo di penetrazione etrusca. Poi c'è l'ultimo episodio, che vede gli Etruschi coinvolti contro il tradizionale nemico settentrionale. Nel 225 a.C. i Galli si spingono infatti con una poderosa incursione fin nel cuore dell'Etruria e un esercito etrusco raccolto in fretta per arrestarli subisce una rovinosa sconfitta presso Chiusi. Le conseguenze sarebbero state certamente assai gravi per gli Etruschi se i Romani, accorsi in loro aiuto, non avessero annientato i Galli, discesi verso il mare lungo la valle dell'Ombrone, in una sanguinosa battaglia combattuta presso Talamone.
Non molti anni dopo, l'adesione etrusca a Roma viene messa a dura prova dall'invasione cartaginese dell'Italia durante la seconda guerra punica (218-202 a.C.). L'impresa di Annibale toccò l'Etruria soltanto marginalmente, durante la discesa dell'esercito invasore lungo la valle tiberina, ma l'impressione suscitata dalla strage subita dall'esercito romano al lago Trasimeno nel 217 a. C. è tanto forte che nelle città etrusche si risveglia qualche sopito desiderio di rivincita. Ci furono dei movimenti di simpatia nei confronti di Annibale e qualche seria agitazione, che costringe i Romani a rinforzare i loro presidi stanziati in territorio etrusco. Poi prevale ovunque il partito lealista e i patti vengono rispettati.
Le città etrusche forniscono cosí il loro contributo alla resistenza e poi alla reazione romana; e in particolare, prendono parte in maniera massiccia, nel 205 a.C., all'allestimento della spedizione africana di Scipione. Tito Livio scrive in proposito che esse fornirono aiuti «ognuna secondo le proprie possibilità», elencando dettagliatamente i loro contributi (che sono anche un'utile fonte d'informazione, per noi, sulle risorse delle singole città): Caere fornisce frumento e viveri di vario genere, Tarquinia tela di lino per le vele, Roselle, Chiusi e Perugia legname per la costruzione delle navi e frumento, Populonia ferro, Volterra frumento e pece per le calafature, Arezzo (che piú d'ogni altra era stata sospettata di simpatie filopuniche) grandi quantità di armi (tremila scudi e altrettanti elmi e centomila giavellotti), strumenti e attrezzi da lavoro, centomila moggi di grano e rifornimenti d'ogni genere da servire per quaranta navi.
Alla fine dello stesso secolo che aveva visto gli ultimi disperati tentativi di proseguire la guerra «nazionale», e ad appena sessant'anni di distanza dalla distruzione di Volsinii, l'Etruria contribuisce in tal modo, con tutto il peso del suo ancor notevole potenziale produttivo, alla definitiva affermazione romana nel Mediterraneo. Quel contributo continua poi per tutto il secolo II a.C., nelle numerose guerre che conducono Roma alla creazione dell'impero non senza che l'Etruria ne traesse in cambio concreti vantaggi, soprattutto di carattere economico. Ad approfittare dell'incessante espansione della città egemone, che finisce col riflettersi positivamente anche sugli «alleati», sono soprattutto le città settentrionali come Chiusi, Cortona, Perugia, Fiesole, Volterra e soprattutto Arezzo, che meno duramente avevano patito l'avvento di Roma e che piú realisticamente quell'avvento avevano accettato, cercando di adeguarvisi nel modo migliore con un complesso di attività (agricole, industriali e commerciali) che consentivano loro di raggiungere una notevole prosperità. Le città meridionali invece, che piú fortemente avevano sofferto l'intrusione romana anche per le vistose mutilazioni dei loro territori, continuano a indebolirsi, al punto da subire le peggiori conseguenze della grave crisi che s'andava profilando, nel corso del II secolo, proprio come contraccolpo delle conquiste esterne di Roma. La massiccia «importazione» di manodopera servile (cioè di schiavi catturati nei paesi sottomessi dell'Occidente e acquistati nei mercati d'Oriente), in gran parte destinata al lavoro dei campi, mette in crisi l'economia agricola sulla quale in gran parte si reggevano quelle città. I piccoli appezzamenti di terra a conduzione familiare vengono progressivamente abbandonati e svenduti ai grandi latifondisti romani che, facendoli lavorare agli schiavi, la cui manodopera è molto più conveniente, li destinano alle colture pregiate della vite e dell'olivo. Intanto i contadini diseredati rifluiscono nelle città dove vanno ad ingrossare la plebe urbana, la cui turbolenza finisce per accrescere gli antichi contrasti sociali rimasti irrisolti.
Alla crisi dell'agricoltura non pongono rimedio i tentativi di riforma agraria, promossi a Roma e fatti fallire dalla reazione della classe senatoria. Questa trova anzi in Etruria l'appoggio degli esponenti dell'aristocrazia terriera e degli stessi «coltivatori diretti» dei distretti settentrionali i quali, appena sfiorati dalla crisi, s'oppongono con forza a qualsiasi progetto innovatore. Ma intanto, una crisi piú profonda e piú generale precipita ad investire l'ordinamento romano dell'Italia e le strutture stesse dello stato repubblicano. Questa crisi (che provoca le violente competizioni interne nella Roma della prima metà del I secolo a.C.) tocca direttamente tutta l'Etruria quando, nel 90 a.C., la «secessione» degli alleati italici di Roma dell'area «sabellica» induce il Senato a reagire sul piano militare e su quello giuridico.
Le città etrusche non parteciparono alla secessione e alla guerra che ne segue. Tuttavia vi sono in esse delle agitazioni dei partiti «popolari» che provocano l'intervento di truppe romane. Quando infatti Roma decide, con la lex Iulia de civitate, tra il 90 e l'89, di concedere — o meglio di imporre — i diritti di cittadinanza a tutti gli alleati rimasti fedeli (concessione che sancisce la definitiva sovranità di Roma), nelle città etrusche si verifica una autentica rivoluzione. Infatti, il radicale cambiamento dello stato giuridico dei loro abitanti, ormai finalmente equiparati tra loro come «cittadini romani», provoca il crollo dei regimi conservatori e l'avvento al potere dei partiti «popolari». In questa situazione l'Etruria entra direttamente (e con pieni diritti) nella lotta politica di Roma e, trovandosi automaticamente schierata con la fazione «popolare» guidata da Caio Mario, subisce le pesanti vendette di Silla quando questi, vinti i Mariani, diviene dittatore e padrone dello Stato. Arezzo, Fiesole e Volterra, che s'erano maggiormente esposte con Mario, contro il partito senatorio, vengono assalite, occupate e saccheggiate; i loro territori sono in parte confiscati e assegnati a nutrite colonie di veterani dell'esercito sillano. Arezzo e Volterra, inoltre, sono private del diritto di voto appena acquisito con la concessione della «cittadinanza».
Un'effimera ripresa degli elementi «popolari» si ha nel 78 a.C. alla morte di Silla, manifestandosi tra l'altro con massacri dei coloni sillani (come specialmente a Fiesole) ma ogni velleità viene prontamente stroncata dai nuovi governanti di Roma. Poi, dopo aver appoggiato il fallito tentativo d'insurrezione antisenatoria di Catilina che nel 63/62 a. C. trova in Etruria molti partigiani, le città etrusche si ritraggono in attesa degli eventi che si compiono al di sopra di esse. Nessuna decisa scelta di campo esse fanno al tempo delle lotte tra Pompeo e Cesare; ciononostante debbono acconciarsi a ricevere altre colonie di veterani, inviate sia dai primi sia dai secondi triunviri.
Infine quando, dopo l'uccisione di Cesare, scoppia la guerra tra Antonio e Ottaviano il fratello di Antonio, Lucio, nel 41 a.C., si chiude in Perugia, questa viene assediata dall'esercito di Ottaviano, conquistata e messa a ferro e fuoco. Cosí tra le fiamme e il sangue di Perugia, provocate da uno scontro che le era sostanzialmente estraneo, finisce l'Etruria.
Dopo la battaglia di Azio, vinta nel 31 a.C. da Ottaviano contro Antonio e Cleopatra, la conclusione delle guerre civili e l'affermazione di Augusto segnano finalmente anche per l'Etruria, esaurita da tante contese, il ritorno della pace e dell'ordine civile. Nelle antiche città, ormai «municipi» dell'Italia romana, la vita torna a rifiorire. Rinascono perfino usanze e tradizioni «nazionali» andate dimenticate o interrotte. E mentre la funzione storica di quella città può dirsi terminata per sempre e il loro mondo si dissolve in quello della nuova Italia, alla quale esse consegnano la loro eredità, la realtà culturale e geografica degli Etruschi viene consacrata — per la prima volta in senso unitario — nella regione VII dell'Italia augustea a cui toccò di perpetuare fino alla fine del mondo antico il nome glorioso dell'Etruria.