Nell'età classica (secc. V-IV a.C.) Sparta e Atene si imposero come potenze egemoni nel mondo ellenico, lo salvarono dalla minaccia persiana, lo coinvolsero nelle loro lotte di predominio: divennero insomma i due punti di riferimento fondamentali di quel mondo. Sparta fu la protettrice e il modello di tutte le poleis rette da regimi oligarchici; Atene fu il modello di tutte le poleis democratiche e la capitale culturale dell'intera comunità greca. Per questa ragione tracceremo ora una breve storia delle due città sin dalle loro origini, che però non può essere assolutamente esaustiva per l'intero mondo greco. Esso infatti presenta aspetti molteplici e diversi che non si lasciano ridurre facilmente all'unità di uno schema: mentre in alcune città è in corso lo sviluppo economico-sociale di cui abbiamo detto, in altre si resta fermi alla vecchia struttura dello stato aristocratico; in altre ancora (per esempio in Epiro, in Macedonia e in Tracia) sopravvivono addirittura gli ordinamenti monarchici.
La situazione delle poleis varia inoltre a seconda delle epoche. Sparta e Atene sono le massime potenze elleniche fra il V e il IV secolo, ma nel VI il primato era spettato a Mileto e alle altre città greche della Ionia. La Macedonia, appena citata fra le regioni più arretrate, alla fine del IV secolo occuperà sotto Filippo II e Alessandro Magno una posizione di primissimo piano. Se dunque ora, per le ragioni già dette, noi ci rifacciamo alle origini di Sparta e Atene, non si commetta l'errore di anticipare di alcuni secoli il primato delle due città, che – ripetiamo – si affermò solo in età classica.
Mentre le fonti antiche per Atene sono, tutto sommato, numerose ed esaurienti, quelle su Sparta sono pochissime e, nella grandissima maggioranza, sono assai più leggendarie che veritiere. Da qui la difficoltà di ricostruire la storia della Sparta arcaica.
Gli ordinamenti politico e sociale di Sparta classica che, per la loro staticità e compattezza, fecero della città il più importante esempio di oligarchia aristocratica di impronta militare, non nacquero con Sparta stessa. Anzi, stando alla tradizione, inizialmente la città fu scossa da conflitti interni, finché non intervenne il legislatore Licurgo che, dando agli Spartani una costituzione, ristabilì l'ordine senza che si dovesse imboccare la strada della tirannide. La costituzione, severa e stabile, fu sempre considerata un modello di eunomìa, cioè di «buon governo» e sembra che sia stata ispirata a Licurgo dall'oracolo di Delfi (Plutarco la chiama infatti rhetra, cioè parola detta dal dio) e dalle istituzioni cretesi.
Tuttavia la storicità di Licurgo, come del resto di molti altri legislatori, è oggi messa in dubbio. D'altro canto è lo stesso Plutarco nella sua Vita di Licurgo, maggiore fonte di informazione sulle presunte «leggi di Licurgo» ad affermare l'ambiguità del legislatore dicendo che «nulla si può dire di lui che non sia dubbio». Per non parlare poi delle numerose incertezze delle fonti antiche riguardo alla cronologia di Licurgo.
I moderni quindi tendono in generale a vedere nella costituzione spartana (che gli antichi, pieni di ammirazione, chiamavano kosmos, l'ordine per eccellenza e di conseguenza immutabile) il prodotto di una lunga evoluzione compiutasi gradualmente fra il IX e il VI secolo a.C., sotto l'influenza, a quanto sembra, delle guerre messeniche, combattute nell'VIII e nel VII secolo e terminate, nonostante l'eroica resistenza dei Messeni e dei loro capi (Aristodemo nella cittadella di Itome, nella prima, e Aristomene nella fortezza di Ira, la seconda), con la conquista spartana. Fu forse proprio la conquista della Messenia e la riduzione dei suoi abitanti in schiavitù che spinse l'aristocrazia militare, gelosa delle sue prerogative, e timorosa della crescente potenza degli asserviti, ora aumentati, a dare alla struttura sociale e politica una impronta rigida e conservatrice e una ferrea inquadratura militare che, trasformando Sparta in una grande caserma, permetteva ad essa di fronteggiare i pericoli sempre presenti di una rivolta.
Per quanto riguarda l'ordinamento sociale, la popolazione spartana era suddivisa in tre gruppi: gli Spartiati, gli Iloti e i Perieci.
Gli Spartiati rappresentavano il ceto dominante ed erano i discendenti dei conquistatori Dori. Erano gli unici cittadini di pieni diritti politici e civili ed erano tali per nascita e solo a condizione che il neonato fosse accettato dalla comunità (si diceva che i neonati deboli o malformati venissero gettati dal monte Taigeto). Questo creò dunque una certa fissità nel numero di abitanti. Essi si dichiaravano homòioi, «uguali», anche se pare che la loro uguaglianza fosse solo di carattere giuridico e non economico. Gli Spartiati si dedicavano esclusivamente alle attività belliche, alle quali venivano addestrati fin dai sette anni in un regime di vita comunitario: caratteristici in questo senso erano i sissizi, cioè i «pasti comuni», cui dovevano partecipare quotidianamente. Il mantenimento della famiglia era assicurato dalla rendita del kleros, l'appezzamento di terreno cui ogni Spartiato aveva diritto, che, per evitare frazionamenti, poteva essere lasciato in eredità solo al figlio maschio primogenito e che era inalienabile, cioè non vendibile, né cedibile.
Questi lotti degli Spartiati erano erano coltivati a loro spese dagli Iloti, ai quali non era riconosciuto nessun diritto civile e politico. Si può parlare di loro come di veri e propri schiavi. Secondo Plutarco, gli Spartiati facevano largo uso della kryptéia («assalto furtivo»), vale a dire la caccia agli Iloti. Più precisamente, la kryptéia era una prova d'abilità o un rito iniziatico che i giovani Spartiati compivano poco prima di terminare il loro addestramento nascondendosi di giorno nei cespugli e uscendone notte-tempo, disarmati o armati di soli pugnali, al fine di uccidere il maggior numero possibile. Forse la kryptéia era praticata per la minacciante consistenza demografica degli Iloti.
Secondo l'ipotesi più diffusa, le origini della ilotéia sarebbero da ricondurre alla diversità etnica degli Iloti, discendenti dagli indigeni che i Dori avevano asservito al momento della conquista.
Come dice il loro nome (da perì oikéo, «abito attorno) i Perieci erano gli abitanti delle comunità indigene situate attorno alla città. Neppure i Perieci erano di stirpe dorica, ma la loro condizione era senza dubbio migliore di quella degli Iloti. Essi godevano di diritti civili ma non politici: come membri di comunità conquistate dovevano combattere a fianco di Sparta in caso di guerra e dovevano tollerarne le decisioni unilaterali, che a volte riguardavano questioni amministrative interne. Tuttavia i Perieci rimanevano cittadini della loro città e, all'interno di questa, erano liberi e autonomi nelle scelte individuali di vita.
Il divieto fatto agli Spartiati di praticare il commercio e l'industria e di possedere monete d'oro e d'argento, congiunto con l'obbligo si sottoporre allo stato l'educazione comune dei propri figli e di partecipare a pasti in comune, tendeva a risolvere nella disciplina militare della comunità ogni iniziativa individuale e a rendere statica la situazione.
Lo stesso conservatorismo che caratterizzava la struttura sociale di Sparta, ne caratterizzava anche la costituzione politica: al vertice dello stato c'erano due re (diarchia) che secondo la tradizione erano di discendenza Eraclide, scelti tra le dinastie degli Agiadi e degli Euripontidi. Questo dualismo sarebbe da spiegare, secondo alcuni studiosi, con il dualismo che starebbe alla base dello stato spartano, tra la città già micenea sulla collina di Terapne e la nuova città della pianura, fondata fra il X e l'VIII secolo dai conquistatori dori, o con un compromesso realizzato fra la dinastia regnante e un ghenos aristocratico più potente degli altri. Secondo altri studiosi la diarchia sarebbe da ricondurre ad una spartizione delle funzioni.
I due re spartani dovevano essere i capi militari e doveva svolgere funzioni religiose.
Probabilmente nei secoli VIII-VII a.C. furono istituiti i cinque efori: nominati in origine dai re, probabilmente con lo scopo di contenere la pressione dell'aristocrazia contro il potere monarchico, essi divennero poi elettivi e assunsero il compito di sorvegliare l'operato dei re, limitandone quindi l'autonomia. Non solo, ebbero anche molte altre funzioni, tanto da divenire l'organo più importante della costituzione cittadina.
Il potere legislativo spettava alla gerusia, il consiglio degli anziani formato da trenta membri, i due re e ventotto geronti, di famiglia nobile e di età superiore ai sessanta anni, eletti a vita dall'apella e destinati originariamente ad assistere i re, come il consiglio omerico, e alla apella (assemblea popolare), formata da tutti gli homoioi da trenta anni in su. Essa eleggeva i magistrati e i geronti, dichiarava la guerra e stipulava paci ed alleanze, approvava o respingeva, senza discuterle però né modificarle, le proposte della gerusia.
Dopo aver sconfitto e conquistato la Messenia, Sparta era giunta al culmine dell'espansione: con l'appoggio di Delfi, perseguiva l'obiettivo di rovesciare le tirannidi a favore di regimi moderati vicini a Sparta e al tempo stesso di accrescere la sicurezza nei suoi confini; intorno al 582 liberò Corinto, nel 560 conquistò Tegea, con cui strinse alleanza, invece di annettersene il territorio. Da allora cominciò a prendere corpo la lega peloponnesiaca, nella quale confluirono le alleanze bilaterali di Sparta con quasi tutte le città del Peloponneso (fuorché Argo e l'Acaia) nonché l'Egina e con Megara. La lega peloponnesiaca era un'alleanza di tipo militare (symmachia) permanente, di carattere originariamente difensivo. Le città che ne facevano parte conservavano la loro autonomia – erano tenute a fornire, almeno fino a tutto il secolo V e l'inizio del IV, contingenti militari, non tributi in denaro – ma accettavano in guerra il comando spartano: quello che i Greci chiamavano col termine egemonia. Il Consiglio (Sinedrio) della lega, formato dai rappresentanti degli alleati, che disponevano ciascuno di un voto, indipendentemente dall'importanza della città che rappresentavano, prendeva le sue decisioni secondo il criterio della maggioranza. Questo metteva tutti gli stati aderenti sullo stesso piano, ma solo apparentemente perché Sparta, grazie all'influenza che esercitava sulle città minori, il cui voto, come abbiamo visto, contava come quello delle grandi, e grazie anche alla cura che poneva a far sì che nelle piccole come nelle grandi avessero il governo partiti oligarchici filospartani, riusciva sempre a far prevalere la propria volontà. . Le forze degli alleati permettevano così a Sparta di possedere, tra il VI e il V secolo, il più valido esercito terrestre della Grecia continentale e, grazie soprattutto al contributo dei Corinzi e alle loro tradizioni marinare, una buona flotta. Con questo strumento di potenza Sparta tenterà già da adesso l'unificazione di tutta la Grecia sotto la sua egemonia. Questa sarà infatti l'aspirazione che Cleomene perseguirà con i suoi interventi contro Atene: prima contro i Pisistradi ad Atene (510), e poi contro Clistene, nel 508 e 506.
Nel frattempo, nel 546, infine, Sparta aveva affrontato il tradizionale nemico, Argo, e dopo complesse vicende lo sconfisse, consolidando il proprio potere.
Nell'epoca più antica Atene era governata da una monarchia, ma anche qui gli aristocratici riuscirono a spodestare i re e, come a Sparta, per far fronte ai successivi contrasti sociali, si dovette ricorrere all'opera di legislatori. Prima, però, di parlare della storia politica ateniese dobbiamo affrontare il problema dell'ordinamento sociale, probabilmente precedente alla formazione della città-stato.
I quadri sociali dell'Atene arcaica si ritrovano, con alcune varianti nei particolari, in molte città ioniche. Vi sono dunque buone ragioni per supporre che essi rappresentino l'organizzazione primitiva delle società ioniche e che risalgano ad epoca molto antica. Secondo altri questa struttura tribale si andò formando in seguito alla caduta della monarchia. La popolazione era organizzata in una serie gerarchica di gruppi che erano, in ordine gerarchico, l'òikos (la famiglia), il ghénos (il clan), la fratria e la tribù.
È difficile accertare quale fosse la precisa funzione di questi gruppi, perché alcuni scomparvero molto rapidamente, e altri assunsero un significato completamente differente: merita comunque fare alcune considerazioni.
L'òikos o famiglia, l'istituzione primaria attraverso cui veniva in gran parte organizzata la vita, conservata la proprietà (la maggior parte dei capifamiglia erano possidenti terrieri che producevano per la sussistenza), e assicurata la continuità, era composto da un gruppo di parenti più o meno esteso.
Il ghénos o clan era costituito da un gruppo di famiglie (o forse in alcuni casi da una sola grande famiglia) che vantava la discendenza da un antenato comune, spesso un eroe o una divinità ed era unito nella pratica di culti particolari. Non si sa per certo se tutti gli Ateniesi dei tempi antichi fossero membri di un ghénos; forse no, poiché i ghéne erano sicuramente dominati dai nobili, ed è possibile che, all'inizio, questi fossero riservati a loro. Ogni ghénos aveva il proprio capo, colui che discendeva in linea quanto più retta possibile dal supposto capostipite, ed era anche il sacerdote dei culti. Costui possedeva un potere assoluto sui suoi prossimi, dispensava la giustizia nell'ambito del ghénos ed era a capo dei guerrieri provenienti dai vari nuclei familiari che componevano il ghénos. La solidarietà all'interno del clan era molto forte e quindi quando uno dei componenti del ghénos veniva offeso o ucciso da uno straniero, era come se la ferita fosse stata inferta all'intero ghénos, il quale faceva propria l'azione di vendetta, dando avvio ad una vera e propria faida.
La fratria era costituita dall'unione di più ghéne ed era un'associazione a carattere prevalentemente religioso, anche se aveva una grande importanza per il diritto civile. In effetti, essa aveva la possibilità di pronunciarsi sulla legittimità o meno dei bambini nati ai loro membri.
Le fratrie erano a loro volta riunite in raggruppamenti più ampi chiamati phylai o «tribù». Le due forme di organizzazione, la fratria e la tribù, sono nominate insieme nell'Iliade. La prima funzione delle tribù di cui si abbia conoscenza (se ne ritrova un riflesso in Omero) era di tipo militare ed è improbabile che fossero delle realtà esclusivamente geografiche. Le tribù dell'Attica erano quattro: gli Egicori, gli Opleti, i Geleonti e gli Argadi. Ognuna di esse era guidata da un capo: il phylobasileus, ma non siamo certi che questa istituzione sia esistita sin dagli inizi.
Aristotele afferma che le quattro tribù erano divise ciascuna in tre fratrie, le fratrie in trenta ghéne e i ghéne in trenta famiglie. Questa suddivisione che voleva rispecchiare l'articolazione dell'anno in quattro stagioni, dodici mesi e 360 giorni, appare però al quanto artificiosa e sembra dunque essere una invenzione creata a posteriori.
Per quanto riguarda le classi sociali, si distingue fin dagli inizi un'aristocrazia ricca che possiede le terre migliori: gli eupatridi (coloro che hanno dei buoni padri) e che probabilmente sono gli unici che possono appartenere ad un ghénos; mentre il resto della popolazione, stando ad Aristotele, era suddiviso in georgòi, agricoltori che coltivano dei piccoli lotti meno fertili, e demiurgoi, lett. artigiani.
Come detto, nell'epoca più antica Atene era governata da una monarchia: la tradizione ricorda oltre a Teseo altri dieci re, quattro prima di lui, sei dopo di lui, appartenenti ad almeno due dinastie, quella degli Eretteidi e quella dei Medontidi. Non tutti però sembrano essere personaggi storici, piuttosto eroi mitici. Qui, come altrove, però gli aristocratici riuscirono a spodestare i re. Se si vuol prestare fede ad Aristotele, ad Atene il passaggio da un regime all'altro fu molto discreto: il re, dapprima eletto a vita, ebbe un potere decennale, quindi annuale; contemporaneamente la scelta, che prima avveniva solo tra i Medontidi, fu estesa a tutte le famiglie degli eupatridi. Successivamente il re fu sostituito da un collegio di nove membri (i cosiddetti arconti) che veniva rinnovato annualmente e che perdurò per tutto il periodo classico. Secondo la tradizione, il passaggio dalla monarchia all'arcontato avvenne nel 752/1, tuttavia la lista degli arconti annuali, che gli antichi possedevano, cominciava soltanto col 683/2 (o 682/1) ed è solo con questa data che possiamo essere certi della cessazione ad Atene della monarchia. In quell'epoca gli arconti erano 3: l'arconte re, che conservava delle antiche attribuzioni del sovrano le competenze religiose e il compito di giudicare i reati di empietà e di omicidio; l'arconte polemarco che ebbe la funzione di supremo capo militare finché questa non fu trasferita, all'inizio del sec. V a.C., agli strateghi, restando a lui riservate mansioni onorifiche legate alla guerra e le controversie in cui fosse attore o convenuto uno straniero o un meteco; l'arconte eponimo, così chiamato perché dava il nome all'anno, che fino al 487 a.C. fu in Atene il magistrato supremo e anche in seguito, rimase, nominalmente, a capo dello stato; regolava l'amministrazione civile e la giurisdizione pubblica e si occupava anche delle liti familiari e delle questioni legate alla eredità.
Poco dopo il 682 a.C. vennero aggiunti 6 arconti detti «tesmoteti», cioè preposti alla promulgazione e alla esecuzione delle leggi. Loro compito era anche quello di segnalare le leggi in contraddizione e le lacune del codice.
Accanto agli arconti esercitava nella più antica costituzione ateniese la funzione di consiglio e assieme quella di tribunale per i delitti di sangue e di suprema corte costituzionale, la bulé che più tardi – senza dubbio per distinguerla dalla nuova bulé – sarà chiamato Areopago dal nome della collina vicina all'Acropoli sulla quale risiede. Di essa, che probabilmente derivava dal consiglio di anziani del periodo monarchico, facevano parte gli arconti usciti di carica. I suoi compiti, oltre a quello di tribunale e di suprema corte costituzionale, erano molto vasti; Aristotele dice (Costituzione di Atene, 3): «Esso ha una parte importantissima in ogni campo dell'amministrazione cittadina». Sorveglia in particolare i magistrati, che devono sottoporsi al suo esame prima di entrare in carica (docimasia), e rendere conto ad esso di tutto quando ne escono, prima di raggiungere gli anziani nei ranghi del consiglio stesso. Per il modo in cui è composto e per il ruolo che ha, assomiglia molto al senato di Roma primitiva: assicura il mantenimento del controllo aristocratico sullo stato.
L'assemblea del popolo (ecclesia) al suo confronto possiede poteri indubbiamente abbastanza ridotti; è vero infatti che designa i magistrati, ma Aristotele (ibid.) precisa bene che essi vengono scelti «in base alla nobiltà e alla ricchezza». Era tenuto a parteciparvi ogni cittadino in possesso di tutti i suoi diritti, ma gli abitanti dei demi lontani da Atene e i ricchi, nemici della democrazia, non potevano presenziarvi o evitavano di comparirvi. Sembra che l'ecclesia e l'eliea fossero composte dalle stesse persone, che però compivano funzioni differenti a seconda che fosse convocata l'una o l'altra istituzione.
La crisi che, alla fine del VII secolo, sconvolge tutte le città evolute del mondo greco, tocca anche Atene. Qui essa trova le sue ragioni profonde nell'egoismo forsennato dei grandi proprietari, che aumentano i loro beni eliminando a poco a poco i piccoli contadini liberi: questi ultimi, obbligati da un cattivo raccolto a far debiti, non possono restituire quanto hanno ricevuto in prestito e sono costretti a vendere la terra ai loro creditori eupatridi. Allora o vengono impiegati nei grandi possedimenti degli aristocratici e divengono hektemoroi costretti ad accontentarsi di un sesto del raccolto che ottengono; o, peggio ancora, sono venduti come schiavi con i loro familiari. La condizione del popolo minuto in campagna diviene intollerabile: questo proletariato miserabile, che Solone (in Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 12) descrive come «tremante davanti all'umore dei padroni», è sempre pronto alla rivolta e mira a quelle che sono le eterne rivendicazioni degli insoddisfatti in Grecia: abolizione dei debiti, divisione delle terre. Allora l'aristocrazia deve concedere una maggiore libertà.
Il problema più urgente è quello di redigere delle leggi scritte che sfuggano all'arbitrio dei gene. Una prima riforma, che assegnava questo compito a sei tesmoteti fallisce. Dopo, il tentativo di Cilone, che cerca d'impadronirsi dell'Acropoli e d'instaurare ad Atene la tirannide, ma urta contro la resistenza vittoriosa dell'arconte Megacle della famiglia degli Alcmeonidi, la tensione rimane viva nella città divisa, e Dracone, sotto l'arcontato di Aristecmo, si vede affidare il compito di mettere le leggi per iscritto (621). Conosciamo a fondo solo la sua legislazione sugli omicidi. La severità del suo codice, il primo che conobbe Atene, è rimasta leggendaria (tant'è che l'aggettivo «draconiano» è divenuto sinonimo di implacabile), e la morte puniva colpe che ci appaiono assai lievi. Tuttavia, per comprendere la portata delle sue leggi, bisogna porsi nei tempi violenti in cui viveva Dracone. L'Attica era infatti dilaniata dalle lotte dei clan e delle vendette che imperversavano tra le potenti famiglie nemiche. La giustizia era un affare da regolare in famiglia e i crimini gridavano una vendetta che provocava una catena di ulteriori crimini. C'era dunque la necessità di togliere alle famiglie potenti il diritto di vendicarsi e di dar loro l'assicurazione di una sufficiente vendetta esercitata dalla società. A Dracone va anche il merito di aver fatto la distinzione, nel diritto criminale, tra l'assassinio volontario e l'omicidio involontario, che doveva essere stabilita in un processo da svolgersi in presenza dell'Areopago.
Ma la causa fondamentale della tensione sociale è dovuta all'ineguaglianza nella ripartizione della proprietà fondiaria. Solamente Solone, incaricato con una decisione unanime, presa dal popolo e dai nobili, di riportare ordine nella città (594-593?), osa affrontare di petto questo problema. Fonti principali per la costituzione soloniana e per le riforme del legislatore ateniese sono, oltre ai frammenti dello stesso Solone, la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele e la Vita di Solone di Plutarco, dipendenti, è stato sostenuto, dall'attidografo Androzione del IV secolo. Non tutte le riforme attribuite dagli antichi a Solone sono però accettate dai moderni: certamente soloniane sono la seisachtheia (lett. «scuotimento dei pesi»), l'abolizione dei debiti, e la riforma dei pesi e delle misure. Della natura della seisachtheia si discuteva già nel IV secolo e si discute anche oggi: sembra che con essa venissero annullate le ipoteche prese sulle persone e sui beni dei cittadini e che venisse impedito, anche con effetto retroattivo, che il cittadino fosse fatto schiavo per debiti. È la prima volta che si adotta nel mondo greco una misura così audace; essa fa deliberatamente passare gli interessi dello stato davanti a quelli dei privati, anche dei grandi proprietari se occorre; così costoro si trovano spogliati delle inique acquisizioni degli ultimi decenni. Gli hektemoroi scompaiono, perché ritornano in possesso delle loro terre.
La riforma dei pesi e delle misure comportava la sostituzione del sistema ponderale eginetico con quello euboico (che l'attività coloniale di Calcide e di Eretria avevano diffuso specialmente in occidente) e sembra mirasse, fra l'altro, a fare di Atene una città commerciale, avviandola sulle grandi rotte del Mediterraneo. Delle altre riforme attribuite a Solone, probabile è l'istituzione della Eliea, il tribunale popolare, a cui potevano partecipare come giudici tutti quei cittadini candidati di sesso maschile che avessero compiuto i trent'anni, che prendeva in esame i ricorsi contro le decisioni dei magistrati; forse già di Dracone, ma da alcune fonti attribuita a Solone è l'istituzione del consiglio dei Quattrocento, o bulé, incaricato di preparare le sedute dell'ecclesia, che a poco a poco si arrogherà le prerogative dell'Areopago.
Discussa è anche la divisione degli Ateniesi in quattro classi di censo (timocrazia), che potrebbe essere anteriore a Solone stesso. Secondo tale divisione gli Ateniesi furono distribuiti in quattro gruppi, distinti in base alle loro rendite annuali, valutate in medimni (1 medimno = 51,86 l) per i cereali e in metreti (1 metrete = 38,88 l) per i liquidi: i pentacosiomedimni (coloro che avevano una rendita di almeno cinquecento medimni o metreti), i triacosiomedimni o cavalieri (che avevano una rendita di almeno trecento medimni o metreti), i diacosiomedimni o zeugiti (che avevano una rendita di almeno duecento medimni), i teti (che avevano una rendita inferiore ai duecento medimni o erano nullatenenti). L'appartenenza alle classi regolava l'accesso alle magistrature (arconti e tesorieri erano eletti solamente tra le prime due classi) e il servizio militare, che i membri delle prime due classi svolgevano nella cavalleria, quelli della terza e della quarta classe fra gli opliti. Tuttavia all'assemblea (ecclesia) potevano partecipare i membri di tutte e quattro le classi.
È impossibile dubitare che Solone abbia tentato di stabilire un equilibrio tra i nobili e il demos. Egli stesso nelle Elegie, insiste sul proprio ruolo di arbitro imparziale e disinteressato: «Privilegi non tolsi e non aggiunsi al popolo, | assegnandoli tanto quanto basta. | Nulla d'ingegno volli che spettassi a quanti | per potenza o danaro erano in vista» (citato in Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 12). Non è affatto un democratico nel senso assunto successivamente dal termine, ma è un fatto indiscutibile che i lineamenti essenziali della futura democrazia siano in germe nelle riforme alle quali resta legato il suo nome.
Conclusa la suo opera rinnovatrice, Solone si allontanò da Atene, intraprendendo lunghi viaggi a Cipro, in Egitto e in Asia Minore. Secondo la leggenda, prima di andarsene egli avrebbe fatto giurare ai suoi concittadini di non cambiare le leggi che aveva dato loro.
Tuttavia le riforme di Solone lasciarono scontenti sia gli eupatridi che non intendevano rassegnarsi alla perdita dei loro privilegi, sia il popolo che chiedeva provvedimenti più radicali. Scoppiarono così dei conflitti sociali che portarono episodicamente anche all'anarchia, mentre si andavano formando tre gruppi di interesse o partiti: i parali, o gente della costa, i pedieci, o gente della pianura e i diacri o gente delle colline. Mentre Erodoto si limita a riportare i nomi dei capi delle tre fazioni, Licurgo per i pedieci, Megacle l'Alcmeonide per i parali e Pisistrato per il terzo gruppo, Aristotele avverte l'esigenza di attribuire ad ogni fazione un'etichetta politica: oligarchi i pedieci, moderati e quindi atti a mantenere le leggi soloniane i parali, democratici i diacri. Quanto al nome delle tre fazioni sembra si possano spiegare non tanto con un sentimento di tipo regionalistico, quanto con l'origine stessa dei tre aristocratici che ne erano a capo, supponendo che ognuno di essi avesse reclutato, nella regione in cui si trovavano i suoi beni patrimoniali, la clientela disposta a seguirlo.
Sembra tuttavia che Pisistrato, stando ad Erodoto, abbia associato alla sua impresa la maggior parte del demos, attribuendo un nome geografico alla propria fazione solo per imitare gli avversari. Ma questa scelta in favore del demos era forse un mezzo per approfittare del malcontento dei contadini, delusi dal rifiuto di Solone di soddisfare le loro rivendicazioni egualitarie, e impadronirsi della polis.
Erodoto ha raccontato le circostanze della prima fase della presa del potere: Pisistrato, che all'epoca occupava probabilmente una carica pubblica, forse quella di polemarco, finse di essere stato attaccato dai nemici ottenendo dal demos un corpo di guardia di 300 uomini, reclutati tra il popolino, coi quali riuscì ad impadronirsi dell'Acropoli, che all'epoca sembra fosse ancora il simbolo del potere. Erodoto conclude dicendo che da quel momento in poi Pisistrato «regnò sugli Ateniesi senza alterare l'esercizio delle magistrature esistenti e senza cambiare le leggi; governò la città nel rispetto della costituzione vigente, amministrandola in modo eccellente» (I, 59). In realtà, come ricorda Aristotele, le cose non andarono in maniera così semplice: Pisistrato, infatti sarebbe andato per ben due volte in esilio prima di impadronirsi definitivamente della città.
È difficile stabilire l'esatto cronologia degli avvenimenti, dal momento che le indicazioni fornite da Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi presentano numerosi problemi. In genere si ammette che Pisistrato si impadronì una prima volta del potere tra il 561 e il 560 a.C., per poi andare in esilio sei anni dopo, poiché Licurgo e Megacle avevano unito le loro forze ai suoi danni. Ma quando tra i due le divergenze finirono per risorgere, Megacle si riavvicinò all'antico avversario favorendone il rientro in patria e dandogli in sposa la famiglia. Ma presto seguirà un altro esilio. La causa della rottura tra Megacle e Pisistrato sarebbe stato il rifiuto da parte di quest'ultimo di consumare il matrimonio, allo scopo di non avere figli sui quali avrebbe finito per pesare la maledizione degli Alcmeonidi che, durante la sua assenza, si erano macchiati di sacrilegio massacrando nell'Acropoli, in un tempio, i partigiani di Cilone, che aspirava egli pure alla tirannide.
Pisistrato fu dunque costretto nuovamente all'esilio (550-549 a.C.) che lo tenne lontano da Atene per dieci anni. Riuscì però ad arricchirsi con lo sfruttamento delle miniere del Pangeo, raccolse dei mercenari e si stabilì in Eubea, ad Eretria, dove strinse nuove alleanze in attesa del momento favorevole per tornare ad Atene. Sbarcò dunque senza difficoltà nella piana di Maratona per vedere accorrere i suoi seguaci dalle campagne e dalla stessa città. I suo avversari che controllavano l'Acropoli opposero in un primo momento una certa resistenza, ma sconfitti presso il tempio di Atena a Pallena dovettero fare atto di sottomissione. Poco dopo Pisistrato si impossessò dell'Acropoli (539-538 a.C): da quel momento in poi ad Atene si aprì, con un po' di ritardo rispetto alle altre città, un periodo di tirannide che sarebbe durata sino alla caduta di suo figlio Ippia nel 510. Tutti i principali autori dell'antichità hanno lodato la moderazione di Pisistrato, la sua giustizia, le sue qualità elevate e la grandezza della sua opera. Egli lasciò sussistere le antiche istituzioni, servendosi, sembra, di una legge di Solone che stabiliva un limite alla proprietà fondiaria, per distribuire le eccedenze dei latifondi agli agricoltori poveri. Consolidò l'influenza di Atene sull'Ellesponto e sul Chersoneso Tracico attraverso la fondazione di colonie e mantenne buoni rapporti con le città del Peloponneso, Argo, Corinto e Sparta. Pisistrato ebbe cura anche di rendere Atene più bella e sontuosa, chiamandovi, soprattutto dalla Ionia, architetti e scultori (è questa l'epoca in cui nasce la grande scultura attica); tra le altre opere, ornò con propilei l'ingresso dell'Acropoli, eresse il grande tempio di Atena sempre sull'Acropoli e provvide a meglio rifornire d'acqua la città con la realizzazione dell'Enneacrunos, la fontana dalle nove bocche. Pisistrato volle inoltre rendere più solenni le celebrazioni delle Grandi Panatenee e delle Dionise. Probabilmente Pisistrato fece anche coniare le prime monete ateniesi, le famose «civette» che recavano sul diritto la testa della dea protettrice del tiranno e della città e sul rovescio il suo uccello simbolo. Per gli Ateniesi il suo governo costituì un periodo di prosperità che essi rimpiansero spesso come una perduta età dell'oro.
Alla morte di Pisistrato, avvenuta nel 528 a.C., il potere passò nelle mani dei suoi figli Ippia e Ipparco. Costoro, assai meno abili del padre, finirono per suscitare il malcontento della popolazione, soprattutto per le sconfitte subite all'estero (dissapori con Tebe, occupazione del Chersoneso da parte dei Persiani), di cui tentarono di approfittare gli aristocratici. Vi furono varie congiure contro di loro e Ipparco fu ucciso nel 514 a.C. in un attentato capeggiato da due aristocratici, Armodio e Aristogitone, le cui figure da quel momento divennero simbolo di libertà. L'assassinio di Ipparco rese la tirannide di Ippia più dura, provocando così il risveglio di un'opposizione negli ambienti dell'aristocrazia, dove alcuni esponenti che avevano ripreso la via dell'esilio cercarono più volte di sollevare il demos contro il tiranno. Dopo un primo tentativo fallito, gli aristocratici ateniesi si rivolsero ai Lacedemoni chiedendo il loro intervento. Benché Sparta, come abbiamo visto, avesse intrattenuto rapporti amichevoli con i Pisistratidi, essa finì per lasciarsi convincere. Più esattamente si lasciò convincere uno dei suoi re, Cleomene, da sempre aspirante all'egemonia di Sparta sulla Grecia, e convinto di poter instaurare ad Atene, con il suo intervento, un regime oligarchico filospartano. Così, alla testa di una spedizione, strinse d'assedio Atene costringendo Ippia a fuggire e a rifugiarsi con la famiglia a Sigea, presso i Persiani.
In questa faccenda gli Alcmeonidi avevano avuto un ruolo determinante, sfruttando la propria influenza a Delfi – avevano finanziato la ricostruzione del tempio di Apollo, distrutto da un terremoto – per esercitare pressioni sui Lacedemoni. Essi volevano dunque approfittare della caduta del tiranno, ma le altre famiglie aristocratiche non intendevano lasciarsi privare della vittoria, provocando così un conflitto che, già all'indomani della caduta di Ippia, avrebbe opposto l'Alcmeonide Clistene, figlio dell'avversario di Pisistrato, ad Isagora, figlio di Tisandro, forse imparentato con la potente famiglia dei Filaidi. Ed è proprio da questo conflitto che sarebbe scaturita la più importante riforma della storia di Atene. L'autore della riforma fu l'Alcmeonide Clistene, ma le circostanze che la precedettero rimangono alquanto oscure. Il racconto di Erodoto e quello di Aristotele divergono su alcuni punti e la cronologia degli avvenimenti è particolarmente difficile da ricostruire. Clistene infatti, al tempo in cui era arconte il suo avversario Isagora (508-507), sarebbe riuscito ad imporre, con l'appoggio del demos – scontento del governo di Isagora – una riforma che modificava il numero delle tribù e «concedeva la politeia alla massa», secondo l'espressione di Aristotele. Potremmo chiederci che cosa significasse questa formula che non viene spiegata dal filosofo, ma il seguito degli avvenimenti ci induce a pensare che egli si riferisse al consiglio dei Cinquecento istituito da Clistene, divenuto in seguito la pietra miliare della costituzione democratica ad Atene. Clistene infatti, a differenza dei suoi avversari, non voleva restaurare un regime aristocratico, ma decisamente un regime democratico. Probabilmente si rese conto della notevole forza economica e politica conseguita nel VI secolo a.C. dal demos e quindi non si poteva accontentare di appoggiarsi ad esso, ma doveva concedergli la sovranità politica in cambio del suo appoggio. Questo creò ovviamente la reazione dei suoi avversari: Isagora e i suoi seguaci si rivolsero al re di Sparta che li aveva aiutati a scacciare il tiranno, ricordando il famoso «sacrilegio» degli Alcmeonidi, un argomento sembra, regolarmente utilizzato dagli avversari della potente famiglia. Clistene dunque, venne costretto a fuggire, ma quando Isagora cercò di sciogliere il consiglio istituito dal riformatore, dovette scontrarsi con una forte resistenza. Cleomene infatti riuscì sì in un primo momento ad impadronirsi dell'Acropoli, ma il popolo la strinse d'assedio costringendo i Lacedemoni a lasciare l'Attica nel giro di tre giorni; dopo di che «gli Ateniesi richiamarono Clistene» (Erodoto, V, 73). Se Clistene, dunque, aveva cercato in un primo tempo l'appoggio del demos per impadronirsi del potere, fu il consiglio democratico che egli stesso aveva istituito ad organizzare la resistenza al colpo di mano di Cleomene e Isagora. Questo semplice fatto ci consente di misurare la strada che il demos ateniese aveva percorso nell'arco di mezzo secolo: dall'avvento al potere di Pisistrato alle riforme dell'Alcmeonide.
Ma torniamo alla riforma. Con essa innanzitutto Clistene soppresse le quattro tribù esistenti, istituendo le dieci tribù classiche. Questa riorganizzazione delle tribù si accompagnò alla creazione di 30 gruppi di demi (distretti di piccole dimensioni) o trittie, di cui 10 trittie erano costituite dalla zona montuosa settentrionale più povera (Diacrìa), altre 10 dalla zona costiera (Paralìa) e le ultime 10 dalla pianura centrale più prospera (Pedìa). Il territorio di Atene apparteneva parte alla Pedìa, parte alla Paralìa. Ogni tribù era formata da tre trittie, una di città, una della costa, una dell'interno, con l'effetto di spezzare i legami di solidarietà regionale, ancora molto importanti e dunque di scalzare il potere dell'antica aristocrazia. Infatti gli antichi ghené aristocratici e i loro terreni che si concentravano, per lo più, nelle fertili pianure della Pedìa furono dispersi nei molti distretti e tribù, perdendo così di importanza e non costituendo più un pericolo per lo stato.
Ogni tribù doveva fornire allo stato una taxis (reggimento) di opliti col suo capo (tassiarco) e uno stratega; inoltre era tenuta a fornire anche, estraendoli a sorte da tutti i suoi componenti (senza distinzioni), cinquanta buleuti alla nuova bulé democratica (o consiglio dei Cinquecento), che risultava così formata di cinquecento membri. Poiché non era obbligatoria la presenza di tutti e cinquecento i membri (anche perché la bulé si riuniva tutti i giorni esclusi i festivi), per poter disporre di un consiglio ristretto ma completo venne creata, nell'ambito della bulé, la pritania. La pritania era costituita da un gruppo di cinquanta buleuti che dirigevano il consiglio dei Cinquecento per un periodo corrispondente alla decima parte dell'anno (l'anno ateniese era diviso in 10 parti e iniziava in luglio).
Anche gli arconti erano eletti (solo più tardi, dal 487/6, sorteggiati) uno per tribù; alla tribù che, a turno, restava esclusa dal diritto di eleggere il proprio arconte (gli arconti erano infatti nove), spettava di fornire il grammateus (segretario) della bulé. All'arcontato, per il momento però, potevano accedere solo i membri delle prime due classi.
Così saldamente inquadrato negli schemi, quasi geometrici del sistema «decimale» ideato da Clistene, il cittadino ateniese parteciperà attivamente, senza distinzione di nascita né di classe, alla politica dello stato, esercitando il suo diritto di voto nelle due assemblee dell'ecclesia e della bulé. Ad esse spettava, oltre che l'elezione dei magistrati, anche l'approvazione delle leggi e la decisione ultima sulla pace, la guerra e le alleanze. Ogni atto di politica sia interna che estera diveniva così oggetto di un decreto comune della bulé e dell'ecclesia e si esprimeva nella formula a noi nota dai testi epigrafici: «Piacque alla bulé e al demo (o ecclesia)». Il procedimento utilizzato per l'approvazione era il seguente: qualsiasi proposta avanzata di fronte alla bulé e approvata da questa veniva sottoposta come probuleuma (consiglio), all'approvazione dell'ecclesia, che poteva, per alzata di mano (cheirotonia) approvarla, respingerla o modificarla. Nel primo caso la proposta diveniva legge con la formula sopra ricordata; nel secondo caso l'ecclesia poteva sostituire alla proposta della bulé, una proposta sua (qualsiasi cittadino aveva il diritto nell'ecclesia di prendere la parola) che, per divenire legge, doveva tuttavia ottenere anche l'approvazione della bulé; nel caso infine di una modifica, questa doveva ugualmente essere approvata dalla bulé.
La tradizione attribuisce a Clistene anche l'istituzione dell'ostracismo che permetteva di esiliare ogni anno per la durata di dieci anni un cittadino reputato nocivo alla democrazia. Una volta l'anno nell'ecclesia si votava per decidere preliminarmente se bisognava procedere all'ostracismo ovvero se vi era la designazione di una vittima. In caso positivo, veniva fissata entro sei mesi una ostrocoforia, un'assemblea straordinaria presieduta dai nove arconti da tenersi nell'Agorà. Durante questa assemblea i partecipanti dovevano scrivere il nome della persona da ostracizzare su un coccio di vaso (ostrakon). Si procedeva all'ostracismo di una persona qualora sul suo nome si fossero concentrati almeno 6000 voti (meno convincente l'ipotesi che il numero 6000 rappresentasse soltanto il quorum per la validità della votazione). La prima persona ad essere ostracizzata fu, nel 488/7 a.C., Ipparco, parente di Pisistrato, l'ultima fu invece Iperbolo nel 418/7 a.C. Nato come strumento per garantire l'ordine politico, l'ostracismo venne però ben presto utilizzato per scopi meno nobili e divenne una delle armi più terribili e sfruttate nelle lotte tra le diverse fazioni politiche.
CRONOLOGIA DEI PRINCIPALI EVENTI DI ETA' ARCAICA
VIII-VII sec. a.C. : guerre messeniche
621 a.C.: riforma di Dracone
594-593 a.C.: riforma di Solone
582 a.C.: liberazione di Corinto da parte di Sparta
560 a.C.: conquista di Tegea da parte di Sparta –> lega Peloponnesiaca
561-560 a.C.: prima presa del potere da parte di Pisistrato ad Atene
555 a.C.: primo esilio di Pisistrato
550-549 a.C.: secondo esilio di Pisistrato
539-538 a.C.: instaurazione della tirannide di Pisistrato
528 a.C.: morte di Pisistrato
514 a.C.: Ipparco viene assassinato
510 a.C.: Ippia viene scacciato da Atene
508 a.C.: riforma di Clistene
((((((Clistene dovette probabilmente prendere la via dell'esilio, ma il popolo ateniese, ormai consapevole della sua potenza, riuscì a respingere intorno al 506 l'attacco quasi contemporaneo compiuto da Cleomene in sostegno di Isagora e della coalizione beotico-calcidese-eginetica e, verso il 500, il nuovo tentativo compiuto da Cleomene, questa volta in favore dei Pisistratidi e d'accordo con i Tessali, di abbattere la democrazia. Negli anni successivi, alla vigilia delle guerre persiane, Atene appare ormai rappacificata con Sparta (si è pensato persino che essa fosse entrata a far parte della lega peloponnesiaca), ma ancora in lotta aperta con i suoi vicini e rivali, gli abitanti di Egina))))))).