Secondo gli antichi storici, tre popolazioni abitavano la Sicilia prima dell'avvento dei Greci: i Siculi, i Sicani e gli Elimi.
I Siculi, originari dell'Italia continentale (si dice specificamente del Lazio), occupavano l'area orientale; i Sicani, autoctoni o comunque di non definita origine, si trovavano in quella centrale; gli Elimi, che secondo Ellanico scesero in Sicilia dall'Italia peninsulare e secondo Tucidide erano invece originari dell'Asia Minore, erano nella parte occidentale.
A parte queste generali indicazioni, poco ci dicono le fonti riguardo alla cultura di questi popoli e in particolare riguardo alla loro lingua. D'altro canto è noto l'assoluto disinteresse dei Greci per le lingue parlate dalle popolazioni barbare con cui entrarono in contatto nel corso della loro enorme espansione coloniale, commerciale e militare. È assai probabile che alla base di ciò, vi fosse quel pregiudizio, comune a diversi popoli antichi, che la propria lingua fosse chiara, distinta e significativa, mentre quella degli stranieri poco più che un oscuro balbettio senza significato. Tale sentimento nei Greci era ben radicato, sostenuti in ciò dalla consapevolezza della loro superiorità culturale.
Singolare è la situazione per il siculo, lingua parlata dai Siculi. Per essa, infatti, se non testimonianze esplicite sui tratti linguistici che la caratterizzano, gli antichi scrittori storici come Tucidide o antiquari come Varrone - ci hanno almeno fornito le «glosse sicule»: vale a dire, uno stock di un centinaio di parole da loro attribuite ai Σικελόι (ai Siculi le fonti latine). In realtà è assai probabile che una parte di queste parole vada assegnata non ai Siculi ma ai Sicelioti (i greci di Sicilia), e che quindi siano greche dialettali, perché con Σικελόι / Siculi le fonti intendevano anche i Sicelioti. È infatti da ritenere che la scarsa sensibilità dei Greci in fatto di lingue dei «barbari» li abbia portati a riunire sotto il nome della cultura più «emergente», quello dei Siculi, anche le lingue dei Sicani e degli Elimi. Non si può, dunque, escludere che tra le glosse «sicule» ve ne siano alcune che sarebbero forse in realtà da attribuire al sicano e all'elimo. Sfortunatamente non c'è modo, in assenza di indicazioni delle fonti, di andare più in là di questa pura e semplice congettura.
Visto tutto questo, chi intenda studiare le lingua sicula, sicana ed elima non può far altro che cercare di ricostruirne i tratti a partire da quella ristretta documentazione linguistica diretta, rappresentata dalle iscrizioni in lingua locale che i Siculi, i Sicani e gli Elimi stessi ci hanno tramandato.
Il siculo, documentato da alcune iscrizioni – parecchie delle quali di una certa lunghezza, come quella del cosiddetto guttus di Centuripe, una specie di vaso dal collo stretto - databili dal VI al IV secolo a. C - presenta grossi problemi di interpretazione, se non altro perché i testi sono generalmente in scriptio continua e di conseguenza non è sempre facile distinguere le parole.
Questa lingua è stata catalogata via via in varie maniere. Per K. Kretschmer si trattava di una lingua non indoeuropea. R. Thurneysen la considerò indoeuropea di tipo italico, particolarmente vicina al latino. Infine, Schmoll lessicografi e grammatici, ma anche ritenne di aver identificato delle affinità tra siculo e illirico.
Il sicano è la lingua più sconosciuta della Sicilia antica, tant'è che è documentata da un'unica iscrizione, dipinta su un vaso del IV secolo a. C., che secondo alcuni studiosi non sarebbe neanche in lingua sicana.
Per ricostruire l'elimo, come per il siculo e il sicano, siamo costretti a ricorrere alle sole testimonianze epigrafiche che sono sì numericamente cospicue, ma per lo più di una brevità e di una frammentarietà sconfortanti. Si capirà quindi che la loro analisi è un'operazione da condurre con estrema delicatezza e cautela.
La documentazione epigrafica più interessante dell'elimo sono le iscrizioni su monete (o «leggende monetarie») di Segesta e di Erice. In queste iscrizioni è impiegato un alfabeto greco, la cui origine è indiscutibilmente selinuntina. A Selinunte rimanda, in generale, la tipologia delle lettere e, soprattutto, un beta di forma peculiare, a N rovesciato, che è appunto esclusivo di Selinunte.
Di difficile lettura è un segno corrispondente al beta greco, che qui trascriveremo convenzionalmente con B. E non è un problema secondario, perché la lettera in questione compare nella più diffusa leggenda monetaria elima, rappresentata da Σεγεσταζιβ a Segesta, da Ιρυκαζιβ a Erice, ed è uno degli elementi qualificanti per la caratterizzazione dell'elimo.
Chi intenda affrontare il problema del valore fonetico di questo segno non può non partire dalla constatazione che, siccome a Segesta il suono b appare rappresentato da N rovesciato (e questo è indubbio), allora il valore di B deve essere diverso da b. A questo punto, però, le strade divergono. Secondo l'opinione più diffusa, infatti, sostenuta autorevolmente da Michel Lejeune, B rappresenterebbe una vocale, qualcosa come un a palatale. Secondo l'altra ipotesi, sostenuta tra gli altri da Luciano Agostiniani, rappresenterebbe una specie di f.
I sostenitori del valore vocalico di B si basano sul fatto che, negli alfabeti del gruppo corinzio-megarese (e Selinunte è colonia di Megara Hyblea), il B serve effettivamente a rappresentare una e. Tuttavia non vi è traccia di B nell'alfabeto selinuntino poi passato a Segesta e a Erice, né un B con questo valore è attestato altrove in Sicilia.
I sostenitori della seconda ipotesi ritengono che il B sia stato introdotto a Segesta e ad Erice da uno degli alfabeti arcaici siciliani dove valeva b, e che sia stato reimpiegato a rappresentare un suono elimo vicino a b ma estraneo al greco, dunque una sorta di f.
Quindi, per tornare al problema della lettura di Σεγεσταζιβ e Ιρυκαζιβ possiamo dire che: chi attribuisce a B il valore di una vocale, la finale sarà più o meno equivalente a quella di Σεγεσταζια: dunque qualcosa come «la segestana», sott. «moneta». Per chi, invece, sostiene che B segni una consonante vicina a b ma diversa, e quindi una specie di f, allora il tipo Σεγεσταζιβ può essere agevolmente interpretato in chiave indoeuropea (più propriamente italica), considerando il finale ιβ come derivante da un suffisso indoeuropeo *-ibh vicino all'ibus latino con funzione di dativo plurale. Un dativo plurale che esprime il possesso da parte di una pluralità, ovvero dei cittadini della città che batte moneta.