Il tema delle origini di Roma è stato da sempre uno dei più dibattuti dalla storiografia.
All’inizio del XIX secolo, lo storico danese Niebuhr mise in evidenza il problema di una possibile ricostruzione della storia romana arcaica attraverso la critica delle fonti.
Dalla fine dell’800 l’archeologia, con nuove importanti scoperte trovò alcune conferme alla veridicità del racconto tradizionale su Roma arcaica. Così la negazione radicale della tradizione letteraria, o ”ipercritica”, caratteristica del positivismo scientista della fine del XIX secolo, non parve più accettabile.
Una posizione moderata, definita poi «critica temperata» fu assunta da Gaetano De Sanctis, che nel I volume della sua Storia dei Romani, pubblicata nel 1907, propose una riconsiderazione meditata delle fonti letterarie, contro gli eccessi dell’ipercritica, alla luce delle nuove conoscenze archeologiche.
Oggi sappiamo che testimonianze letterarie e archeologiche non possono prescindere le une dalle altre, e che solo attraverso una loro analisi critica e integrazione potremo ricostruire le più antiche fasi della storia di Roma.
Le testimonianze delle fonti letterarie, in particolare quelle storiografiche, rappresentano il primo e fondamentale blocco di informazioni con cui ci si deve confrontare per ricostruire la storia di Roma arcaica. Tali fonti ci offrono un chiaro quadro narrativo, una cronologia ben definita e una notevole quantità di informazioni. Tuttavia si tratta di opere che risalgono ad epoche molto posteriori agli eventi narrati.
I primi storici dei quali possiamo tuttora leggere, in forma più o meno completa, le narrazioni su Roma arcaica vissero infatti nel I secolo a.C. Tito Livio, di Padova, contemporaneo dell’imperatore Augusto (59 a.C.-17 d.C.), scrisse una grande storia di Roma dalla sua fondazione, in ben 142 libri. Il primo libro è dedicato alla Roma monarchica. Livio stesso, peraltro, si rendeva conto della fragilità delle basi su cui poggiava la sua ricostruzione della storia di Roma almeno fino all’incendio della città da parte dei Galli nel 390 a.C.
Molto importante è anche lo storico greco Dionigi di Alicarnasso, anche lui attivo a Roma in età augustea. Le sue Antichità romane, in 20 libri, coprivano il periodo che andava dalla fondazione di Roma allo scoppio della prima guerra punica (264 a.C.) Lo scopo principale di Dionigi nell’esposizione della storia romana arcaica è quello di dimostrare che i Romani era una popolazione di origine ellenica. A tale dimostrazione è dedicato quasi per intero il primo libro della sua opera, in cui è spiegato come il popolo romano si fosse formato dalla fusione di successive ondate migratorie provenienti dalla Grecia. Ma un po’ dovunque Dionigi si impegna ad apportare argomenti a sostegno della grecità dei Romani, attraverso confronti tra le istituzioni politiche, gli usi, i riti e i culti dei due popoli.
Sia Livio che Dionigi però basarono i loro racconti su fonti che appartenevano ad epoche precedenti, vediamo quali sono.
Livio, in particolare, nel I libro delle sue Storie riporta la versione più nota e diffusa della leggenda delle origini di Roma, nella quale sono state fuse due versioni di diverso tipo: una greca, che ricollegava la fondazione della città alla leggenda di Enea, ed una indigena, nella quale Romolo rappresentava un mitico re-fondatore autoctono.
Secondo questa leggenda, il troiano Enea, figlio di Anchise e della dea Venere, scampato all’incendio di Troia col vecchio padre e col figlioletto Ascanio (o Iulo), dopo un lungo peregrinare per mare alla ricerca della terra assegnataglidagli dèi come nuova patria, giunse alle coste del Lazio dove il re del luogo, Latino, gli diede in sposa la figlia Lavinia. Alla morte di Enea, Ascanio fondò sui Colli Albani una nuova città, Albalonga (l’attuale Castelgandolfo) di cui, dopo alcune generazioni, divenne re Numitore che fu cacciato dal trono dal fratello Amulio mentre la figlia Rea Silvia venne costretta dall’usurpatore a diventare vestale affinché, essendo legata al voto di castità, non potesse garantire a Numitore una discendenza legittima. Ma Rea Silvia generò dal dio Marte due gemelli, Romolo e Remo che, posti in una cesta, furono abbandonati per ordine di Amulio sulle rive del Tevere in piena; quando il livello dell’acqua diminuì, il canestro restò all’asciutto e i gemelli furono prima allattati da una lupa poi raccolti e allevati dal pastore Fàustolo e dalla moglie Acca Larenzia. Cresciuti tra i pastori, Romolo e Remo, quando scoprirono il segreto della loro discendenza, uccisero Amulio, restituirono il trono al nonno Numitore e decisero di fondare una loro città nel luogo dove erano stati esposti. Ma per un diverbio sorto in seguito ad un ambiguo responso degli dèi consultatiper sapere chi dei due dovesse dare il nome alla città, Romolo uccise Remo che per scherno aveva valicato con un balzo il solco tracciato dal fratello sul Palatino: così da Romolo fu fondata Roma che da lui prese il nome. Secondo la leggenda dunque il nome della città sarebbe derivato da quello del suo fondatore, mentre è storicamente valida l’ipotesi che sostiene il contrario, cioè che il nome Romolo sia derivato da Roma, etimo di incerta origine che viene ricondotto ora a Rumon, termine latino arcaico che designava il Tevere, ora a Ruma «mammella» nel senso di collina.
Contrariamente a quanto afferma la leggenda, l’archeologia ha dimostrato che Roma non nacque dal nulla, dall’oggi al domani per una scelta individuale: la nascita della città fu piuttosto il risultato di un processo formativo lento e graduale, per il quale si deve presupporre una sorta di federazione di comunità separate che già vivevano sparse sui singoli colli. Il Lazio antico (Latium vetus) era costituito da una vasta pianura collinosa che si estendeva dai Colli Albani al basso corso del Tevere lungo la fascia costiera fino al monte Circeo. Le recenti scoperte archeologiche attestano la presenza in questa regione di insediamenti umani permanenti della cultura «appenninica» del bronzo già verso la metà del II millennio a.C. Nel X-IX secolo a.C., poi, con l'avvento dell'età del ferro, apparvero, soprattutto sui Colli Albani, numerosi piccoli villaggi della cultura detta «laziale», imparentata con quella villanoviana sviluppatasi a nord del Tevere. Gli abitanti di queste unità territoriali (pagi) sono da considerarsi Protolatini, cioè gli antenati dei Latini. In tempi successivi (VIII-VII secolo a.C.) questi villaggi posti su alture idonee alla difesa si fusero in organizzazioni più ampie che, circondate da mura di pietra, costituirono dei nuclei proto-urbani.
E così, attraverso un lento processo di aggregazione di comunità di villaggi limitrofi si formò anche Roma, sulla riva sinistra del basso corso del Tevere dove sorgeva un gruppo di colli dalle pendici scoscese, quindi facilmente difendibili, e in felice posizione geografica perché all’incrocio delle due importanti vie che univano l'Etruria alla Campania e il Tirreno alla zona appenninica interna.
È opinione concorde degli studiosi che accettano l'antica tradizione, che gli inizi di Roma siano da ricercarsi sul Palatino, il primo dei colli romani ad essere abitato perché la sua somità abbastanza vasta, rendeva possibile l'insediamento di una o più comunità, le sue pendici fortemente scoscese su tre lati rappresentavano una naturale fortezza difensiva e la sua posizione nei pressi dell’Isola Tiberina garantiva il controllo del guado del Tevere attraverso cui passava la via del sale (poi Via Salaria) proveniente dalle saline del Tirreno poste alla foce del fiume. Sul Palatino sono venuti alla luce fondi di capanne, risalenti all’Questo primo insediamento risalente all’inizio del I millennio, il più antico nucleo della futura città di Roma è chiamato «Roma quadrata» per distinguerlo dalle successive fasi di sviluppo della città. Gli abitanti, forse provenienti dai Colli Albani, usavano cremare i morti e ne seppellivano le ceneri nella valletta dove più tardi sorse il Foro.
Intorno all’800 a.C. cominciarono ad apparire, prima sull’Esquilino e sul Quirinale, poi sui colli esterni, i primi insediamenti di genti provenienti dall’interno della penisola, i Protosabini, il cui tratta distintivo era rappresentato dalla consuetudine di seppellire i cadaveri non cremati. Questi villaggi di inumatori si unirono poi, nel corso dell’VIII secolo a.C. al villaggio di crematori del Palatino (dove si sono trovate tracce di inumazione), secondo un processo noto in archeologia con il nome di «sinecismo», andando a costituire il primo passo verso la «fondazione» di Roma.
Se dunque l’archeologia sembra smentire la leggenda sul fatto che Roma sia nata dal nulla per volere di un singolo, ha però trovato conferme ad altri elementi: la data della fondazione di Roma fissata dalla tradizione nel 753 a.C. può essere sostanzialmente confermata cosi come il ruolo svolto nella fondazione dall’apporto di popolazioni diverse, i Latini e i Sabini.
Una recente scoperta archeologica però ha complicato ulteriormente le cose. Nel 1988, durante alcuni scavi condotti sulle pendici meridionali del Palatino, sono stati riportati alla luce i resti di una palizzata e, più a valle, di un muro databile all’VIII secolo a.C. Secondo la brillante e clamorosa ipotesi dello scopritore, l’archeologo italiano Andrea Carandini, nella palizzata di deve vedere la linea dell’originario solco di confine, detto pomerio, e nel muro arcaico in scaglie di tufo, largo circa 1 metro e 20, il «muro di Romolo». Il racconto tradizionale risulterebbe allora sostanzialmente confermato: verso la metà dell’VIII secolo a.C. un re-sacerdote eponimo (Romolo, appunto) avrebbe celebrato un vero e proprio rito di fondazione tracciando con l’aratro i limiti della città. Un ipotesi questa profondamente diversa da quella dell’aggregazione di villaggi vicini e molto più vicina alla tradizione.
La fondazione di ogni città italica avveniva seguendo un rituale ben preciso che viene descritto da Marco Terenzio Varrone, un antiquario latino attivo nel I secolo a.C.:
Come si desume dal passo di Varrone, nella fondazione di una città un’importanza fondamentale dal punto di vista religioso era rivestita dal pomerio (dal latino pomerium che derivava, secondo gli antichi da post murum «che si trova al di là del muro»). Il pomerio era in origine la linea sacra che delimitava il perimetro della città in corrispondenza con le mura. In un secondo tempo il nome servì a designare anche una zona di rispetto che separava le case dalle mura stesse, dove non era permesso fabbricare né seppellire, né piantare alberi. Il pomerio però non sempre coincideva con le mura, in quanto esso era tracciato secondo la procedura religiosa, cioè secondo gli auspici che avevano preso gli auguri. Le mura invece rispondevano ad esigenze di difesa in rapporto al territorio. Poteva così capitare che fra le due linee ci fosse una notevole distanza. La coincidenza tra mura e pomerio in realtà non sembra sussistere neppure nella primitiva città edificata sul palatino. Le mura infattigiravano a mezza costa della collina mentre il pomerio girava attorno alla sua base con un perimetro notevolmente più esteso.
Un’altra scoperta archeologica che riguarda il fondatore Romolo è quella del Lapis Niger. Nel gennaio 1899 Giacomo Boni scoprì, nell’angolo settentrionale del Foro, una pavimentazione in marmo nero distinta dalla restatnte pavimentazione in travertino. La scoperta fu subito associata ad una fonte letteraria che accennava all’esistenza di una «pietra nera nel Comizio» che contrassegnava un luogo funesto, forse la tomba di Romolo. Al di sotto del pavimento fu scoperto un complesso monumentale arcaico, comprendente una piattaforma sulla quale sorgeva un altare. Vicino ad esso era un tronco di colonna, o una base di una statua recante il testo mutilo di un’iscrizione, scritta in un latino molto arcaico. Dalle poche parole leggibili si deduce che si tratta di una dedica fatta a un re e che si minacciano pene terribili a chi avesse violato questo luogo. È interessante che il re in questione doveva essere un vero monarca, il che riconduce questo complesso a un’età molto arcaica. Naturalmente, quand’anche si trattasse davvero di un luogo di culto di Romolo, la cosa non deve essere necessariamente intesa come una prova dell’esistenza storica del primo re di Roma ma, semplicemente, dell’antichità del mito che ne faceva il fondatore della città.
La monarchia romana è una realtà storica indiscutibile, anche se la tradizione relativa ai sette re è in massima parte frutto di elaborazioni posteriori. In età successiva rimangono due testimonianze fondamentali che ne documentano la storicità: la prima è data dall’esistenza di un sacerdote che portava il nome di rex sacrorum e che aveva il compito di dare realizzazione ai riti prima eseguiti dal re; la seconda è che col termine interrex veniva definito il magistrato che subentrava nel caso di indisponibilità di entrambi i consoli.
La caratteristica principale della monarchia romana era quella di essere elettiva: l’elezione del re spettava infatti all’assemblea dei rappresentanti delle famiglie più in vista (i cosiddetti patres) che affiancavano il re nell’espletamento delle sue funzioni e che quindi limitavano il suo potere. Questo consiglio di anziani, che rappresenta il nucleo di quello che poi sarebbe stato il senato in età repubblicana, secondo la tradizione sarebbe stato creato da Romolo che avrebbe scelto cento esponenti delle famiglie più in vista. Questo numero sarebbe poi salito a 300, sempre secondo la tradizione, in età tardo-monarchica.
La monarchia dunque fu sicuramente la prima fase di sviluppo della costituzione politica romana. La tradizione data in modo preciso il periodo monarchico dal 754 al 509 a.C, periodo durante il quale, sempre secondo la tradizione, su Roma avrebbero regnato sette re, in questa successione: Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marcio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. A Romolo, in particolare, viene attribuita la creazione delle prime istituzioni politiche, tra cui un senato di cento membri; a Numa Pompilio si assegnano i primi istituti religiosi, a Tullo Ostilio le campagne militari di conquista (tra cui la distruzione di Alba Longa); a Anco Marcio la fondazione della colonia di Ostia, alle foci del Tevere. Nella tradizione, il regno di Tarquinio Prisco segna una seconda fase della monarchia romana, nella quale gioca un ruolo importante la componente etrusca. A Prisco sono attribuite importanti opere pubbliche, mentre a Servio Tullio si fa risalire la costruzione delle prime mura della città (le mura dette appunto serviane) e, soprattutto, l’istituzione della più importante assemblea elettorale romana, i comizi centuriati. Tarquinio il Superbo, l’ultimo sovrano della serie, assume infine i tratti tipici del tiranno che infligge ai cittadini ogni tipo di vessazione.
Il problema che ci si pone di fronte a un racconto di questo genere è quello di distinguere ciò che può essere storicamente vero o comunque probabile da ciò che invece è prettamente leggendario. Sappiamo infatti che i romani certamente conservavano alcuni elementi della loro storia più antica, così come sappiamo che la abbellirono continuamente riempiendo variamente i vuoti considerevoli della tradizione.
Un primo nucleo di verità storica è certamente la presenza di re latino-sabini ed etruschi, che rispecchia lo sviluppo della situazione storica del Lazio e di Roma in particolare. Abbiamo visto che il primo re, Romolo, è probabilmente soltanto il fondatore eponimo, la cui figura è stata costruita artificiosamente con elementi greci e indigeni, anche se la recente scoperta del cosiddetto «muro di Romolo» sembra dare a questo personaggio una maggiore consistenza storica. A Romolo vengono fatti risalire, come si è detto, le prime istituzioni politiche, ma anche una serie di guerre contro i sabini, con il successivo accordo che portò all’associazione di Tito Tazio al trono, che riflette la questione essenziale dell’apporto sabino alle origini di Roma.
Storici appaiono i nomi dei tre re successivi, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marcio. Per Numa, fa fede il nome, d’origine sabina ed assai diffuso. Come si è accennato, a lui vengono attribuiti i primi istituti religiosi, anche se la maggior parte di questi probabilmente sono dovuti all’influenza etrusca, posteriore a Numa.
A Tullo Ostilio viene attribuita la distruzione di Alba Longa che ha un nucleo di verità: la distruzione probabilmente non fu totale, come le fonti fanno ritenere, ma rispecchia un momento di espansione di Roma a danno delle altre comunità latine.
Al governo di Anco Marcio la tradizione fa risalire la fondazione di Ostia, assai controversa nella critica moderna; manca la prova archeologica della fondazione in età così arcaica, ma è anche possibile che l’interesse del controllo delle saline spingesse i romani in quella direzione fin da allora. Allo stesso periodo si fa risalire dagli antichi la venuta in Roma dei Tarquini, essi stessi originari di Corinto, secondo il racconto tradizionale, costretti per varie vicende a lasciare la loro città, Tarquinia.
Anche in questo caso, l’archeologia porta la preziosa conferma di un’influenza corinzia alla fine del VII sec. a.C., documentata dalle importazioni di ceramica. Con il successore di Anco, Tarquinio Prisco, la tradizione fa cominciare in Roma il lungo periodo della monarchia etrusca, durato circa un secolo, dalla fine del VII sec. all’ultimo decennio del VI, e intervallato, sempre secondo il racconto tradizionale, da un ritorno di un re di origine diversa, con un nome latino e servile, Servio Tullio.
Il predominio etrusco sulla città è suffragato dalla documentazione archeologica e da altre prove. Le tracce archeologiche della presenza etrusca sono considerevoli. Intorno alla prima metà del VI secolo a.C. Roma divenne un centro urbano con pianta ordinata secondo lo schema etrusco, la valle del foro fu drenata con la costruzione della Cloaca maxima; artisti e artigiani etruschi di Veio collaborarono alla costruzione dei templi, come quello di Giove Capitolino. Le capanne furono sostituite da case in pietra con soffitto di tegole. Altre testimonianze si riferiscono a istituti politici e religiosi: la scienza augurale e l’aruspicina, le insegne dei magistrati maggiori, i fasci e la sella curule, sono anch’essi un portato dell’Etruria. Livio sapeva che i fasci erano stati adottati per la prima volta da Vetulonia. Tutto questo non vuol però ancora dire che Roma sia divenuta una città etrusca. L’interesse degli Etruschi per il Lazio, e per Roma in particolare, era dettato dalla necessità di assicurarsi il transito per i loro nuovi possessi campani. Questo però non comportò una colonizzazione in profondità: il Lazio, a differenza della Campania e della valle del Po, non vi sottoposto. Roma mantenne pertanto le caratteristiche di una città latina sottoposta al controllo di una dinastia straniera, controllo però che determinò, come si è visto, importanti mutamenti.
Molto probabilmente vi furono varie dinastie, non solo quella dei Tarquini, appartenenti a diverse città etrusche che si contesero il controllo su Roma. La scoperta a Vulci di una tomba etrusca della seconda metà del IV secolo a.C. ha avvicinato la figura di Servio Tullio agli Etruschi. La tomba (chiamata François dal nome del pittore che l’ha scoperta nel 1857) presenta due cicli di affreschi. In uno di questi sono rappresentati episodi di lotte tra capi di città etrusche e laziali. Ogni figura è accompagnata da un’iscrizione dipinta in lingua etrusca, che indica il nome del personaggio. Abbiamo così, tra gli altri, un certo Gneo Tarquinio di Roma in lotta con Mastarna e i fratelli Celio e Aulo Vibenna di Vulci (la storicità di quest’ultimo sembra confermata da un’iscrizione su un calice in bucchero che reca il cuo nome). L’imperatore Claudio, un esperto di cose etrusche, in un discorso al Senato conservato in un passo della famosa Tabula di Lione, sostenne che Mastarna e Servio Tullio erano la stessa persona, rinviando ad autori di storia etrusca. L’episodio gli serviva a illustrare il fatto che Roma aveva sempre beneficiato dell’apporto di elementi estranei (Roma «città aperta») alla classe dirigente locale, a sostegno della sua proposta di concedere la cittadinanza agli abitanti della Gallia Comata. Se questa ricostruzione è buona possiamo affermare che Servio Tullio era un condottiero etrusco, di Vulci in particolare, e che grazie all’aiuto dei suoi compagni (i Vibenna) si sarebbe impadronito del trono romano, usurpando i diritti alla dinastia dei Tarquini. Che ad un certo punto Vulci riuscisse a scalzare Tarquinia dal controllo di Roma è indirettamente confermato dall’archeologia, che mostra l’emergere della città in posizione egemone in Etruria e la presenza dei suoi manufatti a Roma.
Anche l’episodio, ricordato dalla tradizione, del signore di Chiusi, di nome Porsenna, che riuscì probabilmente ad impadronirsi per qualche tempo di Roma dopo aver scacciato i Tarquini, è una storia che si inserisce bene in questa situazione di contesa da parte delle città etrusche per il controllo su Roma.
Sia stato latino o etrusco, Servio Tullio rimane comunque un personaggio molto importante. La tradizione gli attribuisce l’introduzione dell’ordinamento centuriato, che prevedeva la suddivisione della popolazione in classi, a loro volta articolate in unità dette «centurie», secondo un criterio che teneva conto della capacità economica dei cittadini. Anche se l’ordinamento «centuriato», nella forma compiuta in cui lo conosciamo (che vedremo), non risale ad un’età così remota, è probabile che già in questo periodo la comunità civica fosse organizzata secondo raggruppamenti non più basati su fattori gentilizi (dovuti alla nascita, cioè) o locali, ma stabiliti sulla base del censo, cioè della ricchezza degli individui. Il censo fu anche il criterio con cui si arruolavano i componenti del nuovo esercito serviano, che prese il nome di classis (da calare = chiamare) e che era formato da cittadini in grado di procurarsi l’armamento pesante oplitico (di derivazione greca, ma ormai diffuso in Italia da alcuni decenni come dimostra la documentazione archeologica) che prevedeva la corazza di bronzo, la spada di ferro, l’elmo e lo scudo rotondo di legno e di cuoio, l’hoplon, da cui il nome di oplita. Con il termine infra classem si designarono invece gli altri soldati, armati alla leggera. Sulla base di questa suddivisione della popolazione, sarebbero poi nati i comizi centuriati molto probabilmente all’inizio dell’età repubblicana.
A Servio viene attribuita anche l’istituzione di tribù territoriali: quattro urbane e tre rustiche, in sostituzione delle antiche tribù romulee, a base gentilizia.
Gli istituti e l’assetto sociale di Roma arcaica non sono ricostruibili con sicurezza, e ampi margini di dubbio permangono per molte importanti questioni. La sopravvivenza in età storica di elementi certamente riferibili a un’epoca precedente, il ricorso all’analogia, la consapevolezza che la ricostruzione degli storici antichi era fondata largamente sulla proiezione nel passato di aspetti in realtà loro contemporanei, e quindi la possibilità, entro certi limiti, di estrapolarne un nucleo autentico, sono tuttavia fattori che concorrono a offrirci un quadro della Roma primitiva attendibili nei suoi connotati generali.
Alla base dell’organizzazione sociale dei romani, vi era la familia. La nozione di «famiglia romana» comprendeva un raggruppamento sociale assai più ampio di quello che siamo abituati ad intendere oggi. Mancava, cioè, nel vocabolario del mondo romano antico, un termine adatto a definire la famiglia nucleare tipica delle società moderne. A rigore a Roma facevano parte di una medesima familia tutti coloro (in primo luogo la moglie, i figli e gli schiavi) che ricadevano sotto l’autorità di uno stesso capofamiglia, il paterfamilias, al quale spettava anche il controllo sui beni.
Si può dire che il vincolo di fondo della famiglia romana non fosse rappresentato dai legami contratti con il matrimonio, ma piuttosto dal potere (potestas) esercitato dal pater sulle persone che rispettavano la sua autorità. Di una stessa famiglia facevano parte non solo i figli generati dal matrimonio del capofamiglia, ma anche tutti quelli che, adottati, sceglievano di sottoporsi alla sua potestas.
Nella sua forma più antica la famiglia romana presentava i caratteri tipici di una società prestatale: era infatti un’unità economica, religiosa e politica. Il fine principale di questa struttura era quello della propria perpetuazione. Questi aspetti originari ebbero dei riflessi anche sull’evoluzione delle norme giuridiche: certe caratteristiche del diritto romano (nel matrimonio così come nelle norme di tutela dei minori e della donna) si possono spiegare solo per la necessità di adottare, in un contesto statale evoluto, gli elementi del primitivo diritto di famiglia.
In età arcaica il primo diritto di un padre rispetto ai figli era quello di rifiutarli al momento della nascita. Persino i figli legittimi, infatti, entravano a far parte della famiglia solo mediante un atto formale. Il loro accoglimento, o il loro rifiuto, veniva palesato dal padre con dei gesti pubblici, come il prendere i maschi tra le braccia o il dare ordine alla moglie di allattare le femmine. L’alternativa era quella di «esporli», cosa che doveva avvenire più frequentemente, almeno in età arcaica, quando il neonato era una bambina, una persona cioè meno «utile» per essere inserita in un contesto di economia agricola.
Tra i vincoli fondamentali della famiglia romana primitiva c’era quello religioso. I riti familiari (sacra privata) si trasmettevano originariamente di padre in figlio e la loro osservanza era ritenuta assolutamente doverosa. Gli antenati del ramo paterno furono i primi manes («le anime dei defunti»), oggetto di culto all’interno della famiglia romana. Il capofamiglia si preoccupava che le cerimonie prescritte venissero eseguite puntualmente e in modo corretto da parte di quanti erano sottoposti alla sua potestà.
Tutte le famiglie che riconoscevano di avere un antenato comune costituivano la gens, un gruppo organizzato politicamente e religiosamente. La gens è una componente di grande rilievo in età arcaica e conservò anche in seguito, malgrado lo sviluppo degli organismi statali che si sostituirono alle comunità familiari, un ruolo importante nella vita politica.
La popolazione dello stato romano arcaico era suddivisa in due gruppi: curie e tribù. Secondo la tradizione,il creatore di tali istituti fu Romolo; in realtà, la natura di tali raggruppamenti rende impossibile trovare un momento specifico per la loro istituzione, senza considerare il fatto che le nostre conoscenze sul loro funzionamento sono assai frammentarie. Le curie comprendevano tutti gli abitanti del territorio, ad esclusione degli schiavi. Molto incerte risulta l’origine delle curie: si sa che praticavano propri riti religiosi e che rappresentarono il fondamento della più antica assemblea politica cittadina, quella dei comizi curiati. Non conosciamo la loro funzione in età arcaica e neppure sappiamo se fossero organizzate su base territoriale (se quindi funzionassero come sorta di distretti) o su base gentilizia (dal momento che le gentes avevano anch’esse una loro base territoriale). In epoca più tarda ai comizi curiati rimasero attribuite determinate funzioni inerenti il diritto civile, per esempio in relazione ad adozioni ed a testamenti; ai comizi spettava inoltre il compito di votare la cosiddetta lex de imperio che conferiva il potere al magistrato eletto.
Eguale incertezza regna a proposito dell’altro importante raggruppamento, le tribù, la cui creazione fu attribuita, come si è detto, a Romolo. Esse originariamente erano tre: i loro nomi, Tities, Ramnes e Luceres fecero pensare agli stessi antichi che la loro origine fosse etrusca.
In un’epoca relativamente tarda, che dovette coincidere grosso modo con il periodo del predominio etrusco, lo stato romano si organizzò secondo criteri più precisi: ogni tribù fu divisa in dieci curie e da ogni tribù furono scelti cento senatori (quindi trecento in tutto). Tale struttura di base fu molto importante, perché su di essa si fondò anche l’organizzazione militare: ogni tribù era infatti tenuta a fornire un contingente di cavalleria e uno di fanteria rispettivamente di cento e mille uomini. La componente fondamentale dell’esercito, la legione, risultava quindi composta da tremila fanti e da trecento cavalieri (detti celeres).
Tuttavia questo primitivo ordinamento fu sostituito sempre in epoca monarchica, secondo la tradizione al tempo di Servio Tullo, da un ordinamento territoriale che prevedeva quattro tribù urbane e tre rustiche, secondo il luogo di residenza dei loro membri.
Come abbiamo già detto, quanto possiamo affermare a proposito della più antica storia di Roma è il risultato della più antica storia di Roma è il risultato di ricostruzioni e interpretazioni abbastanza controverse. La massima incertezza regna anche sull’origine della divisione sociale che è alla base di Roma arcaica e che rimarrà viva per quasi tutta la storia della Repubblica, quella tra patrizi e plebei. Per la tradizione i patrizi erano semplicemente i discendenti dei primi senatori (i patres), la cui nomina, come si è detto in precedenza, si faceva risalire a Romolo. Tra le ipotesi che sono state avanzate c’è quella che fa dei plebei i clienti dei patroni patrizi. Un’altra interpretazione riconosce nei patrizi i Latini abitanti del Palatino e nei plebei i Sabini insediati sul Quirinale ed entrati a far parte della comunità civica in una condizione di inferiorità. Un’ulteriore ipotesi tra le più accreditate mette in primo piano il fattore economico: i patrizi sarebbero stati i grandi proprietari terrieri, mentre i plebei corrisponderebbero alle classi degli artigiani e dei ceti emergenti economicamente, ma tenuti in una condizione di inferiorità politica.