Le continue e numerose guerre che Roma aveva affrontato portarono conseguenze molto importanti sia dal punto di vista economico-sociale sia dal punto di vista culturale.
Dal punto di vista economico-sociale, possiamo dire che se le nuove conquiste avevano fatto la fortuna di alcune classi che erano riuscite a sfruttare la situazione, le guerre, la crisi economica, l’inflazione e le tasse portavano alla rovina proprio coloro che avevano contribuito in maniera determinante alla grandezza di Roma, primi fra tutti i piccoli proprietari terrieri.
In questo periodo si verificarono due importanti fenomeni sociali: la scomparsa della piccola proprietà terriera e la nascita del proletariato; ma vediamo in che modo avvenne tale trasformazione.
La piccola proprietà terriera, che aveva formato la spina dorsale dello stato romano, andò incontro ad un periodo di grave crisi: infatti gli obblighi militari costringevano i contadini richiamati alle armi ad abbandonare le campagne (si è calcolato che per molti decenni, dalle guerre puniche alla metà del II secolo a.C., l’esercito romano avesse sotto le armi, ogni anno, 100-150.000 soldati, tutti i cittadini liberi, il che equivale al 15% della popolazione maschile adulta). Al ritorno dagli anni di guerra, oltre a trovare le loro poche terre completamente inaridite per il prolungato abbandono, i piccoli contadini si rendevano conto che la tradizionale coltivazione intensiva di cereali non era più redditizia: ormai sul mercato di Roma si trovavano a prezzi più che competitivi, i cereali provenienti dai territori d’oltremare (in particolare dalla Sicilia e dall’Africa) e in ogni caso per loro era impossibile reggere la concorrenza con le grandi proprietà terriere completamente in mano degli aristocratici.
L’unico modo per poter superare questa crisi sarebbe stata la conversione delle coltivazioni in vigneti e uliveti: ma i piccoli proprietari contadini non avevano certo le disponibilità economiche né per attuare questi cambiamenti né per attenderne i frutti (le colture della vite e dell’olivo, infatti, diventano veramente produttive solo dopo molti anni); infatti i loro poderi, abbandonati, per anni e anni non avevano prodotto alcun reddito. L’unica possibilità era quella di vendere la terra ai grandi proprietari, tentando di farsi assumere da costoro come lavoratori salariati. Ma se erano desiderosi di incamerare sempre più terre, i grandi proprietari non avevano alcun interesse a servirsi di lavoratori che non fossero degli schiavi: come vedremo, la manodopera servile era molto più conveniente. Il più delle volte, pertanto, agli ex contadini non restava che riversarsi in città ad alimentare il numero sempre crescente dei disoccupati che, non avendo altro bene che la prole, venivano chiamati proletarii, e che trascorrevano le giornate affollando le vie di Roma alla ricerca di piccoli lavori. Ma il lavoro scarseggiava, e tutto quello che il governo riusciva a fare, per evitare che la situazione degenerasse, era procedere a pubbliche distribuzioni di grano, e a distrarre la folla organizzando feste e giochi nel circo.
Il proletariato urbano formava quindi una potenziale massa di manovra nelle mani di uomini politici o di famiglie aristocratiche, che erano in grado di utilizzarla per influenzare le elezioni e la vita politica cittadina.
In questo stesso periodo si assisté all’ascesa sociale del ceto dei cavalieri (ordine equestre). Mentre i piccoli contadini erano andati in rovina, una moltitudine di persone aveva accumulato enormi capitali. Tra coloro che avevano tratto particolari vantaggi dalla situazione figuravano i cavalieri, vale a dire la prima classe dell’ordinamento centuriato (composta, come sappiamo, da coloro che potevano amarsi per combattare a cavallo). La nuova ricchezza, rappresentata dai bottini di guerra e dai tributi imposti ai territori conquistati, era finita anche nelle loro mani, ed essi avevano così potuto assumere un nuovo ruolo, dedicandosi all’industria, al commercio su larghissima scala, e soprattutto facendosi assegnare dallo Stato una serie di appalti.
Data la vastità del territorio da governare, infatti, lo Stato non era in grado né di eseguire le innumerevoli opere pubbliche che si rendevano continuamente necessarie, né di rifornire di armi e vettovaglie le zone più lontane; soprattutto non era in grado di riscuotere i tributi, dovuti dai diversi popoli dominati. Questi compiti dovevano essere necessariamente affidati a dei privati, e questi privati potevano essere solo i membri del ceto dei cavalieri, gli unici in grado di anticipare il denaro visto anche che ai senatori era stato vietato il commercio da una lex Claudia, del 218 a.C. In questo periodo quindi emergono e fanno fortuna appaltatori, banchieri, commercianti, fornitori dello Stato, speculatori.
Di grandi profitti godevano gli appaltatori delle tasse, cioè coloro che avevano il compito di incassare personalmente i tributi dei vari territori sottomessi a Roma. Essi infatti dovevano versare allo Stato solo una quota fissa e precedentemente pattuita di ciò che incassavano, trattenendo quindi per sé tutto quello che riuscivano a estorcere in più dai provinciali.
Un’altra fonte di ricchezza era costituita dall’appalto delle forniture dello Stato: principalmente di quelle che riguardavano l’esercito (armi, vettovaglie, ecc.), soprattutto se si tiene conto del fatto che il secolo II a.C. è un periodo di grosso impegno militare per Roma.
Anche il commercio, particolarmente quello di merci rare e preziose (sete, profumi, gioielli) che provenivano dall’Oriente e che venivano rivendute a prezzi altissimi a Roma, portava guadagni immensi.
Inoltre venivano compiute forti speculazioni finanziarie da parte di chi si trovava a disporre di grandi quantità di denaro che prestava ad altissimi interessi. Anche se esclusi dalle cariche politiche, riservate all’aristocrazia, i cavalieri pertanto, in veste di publicani (questo era il nome di chi assumeva a pagamento il compito di svolgere attività per lo Stato) divennero un ceto destinato a svolgere, negli anni a venire, un ruolo di primaria importanza. E, forti della loro potenza finanziaria, si prepararono a contendere all’aristocrazia senatoria il ruolo attivo nella gestione del governo dello stato.
Tuttavia anche l’aristocrazia senatoria, aveva tratto beneficio dalle guerre e in quegli anni aveva visto crescere, in primo luogo, il suo potere politico, per vari motivi. Innanzitutto le assemblee popolari, grazie al gioco delle clientele, erano da essa controllate. Molti disoccupati riversatisi in città, infatti, avevano trovato modo di sopravvivere chiedendo la protezione delle grandi famiglie, di cui si erano fatti clientes. Seguendo le indicazioni di voto dei loro protettori nelle assemblee, costoro erano diventati una massa di manovra politica, grazie al cui operato le assemblee non esprimevano piú la volontà popolare ma quella delle grandi famiglie aristocratiche, contribuendo alla formazione di una sorta di oligarchia. In secondo luogo, poiché il senato era composto da ex magistrati, questi non avevano alcun interesse ad agire in contrasto con l’assemblea di cui stavano per entrare a far parte. Inoltre la durata vitalizia della carica permise ai senatori di dispiegare la loro politica con continuità d’azione e quindi di decidere per l’intera durata di questo periodo la politica romana. E questa politica, non poteva che essere ispirata a desideri imperialistici sia per le ragioni che abbiamo appena descritto sia anche per ragioni di tipo economico che ora vediamo.
La lunga sequenza di guerre, infatti, aveva contribuito ad aumentare enormemente le proprietà terriere dell’aristocrazia senatoria che, non potendo per legge esercitare il commercio (lex Claudia del 218 a.C.), tendeva ad investire i propri capitali in terreni. Da un canto, come abbiamo visto, la crisi della piccola proprietà aveva consentito ai senatori di acquistare a prezzi irrisori i piccoli poderi; dall’altro, i terreni conquistati, anche se teoricamente pubblici, erano di fatto nelle loro mani. Infine, il gran numero di schiavi di cui essi disponevano (molti dei quali, inutile a dirsi, erano prigionieri di guerra), e le misere condizioni di vita in cui li tenevano, consentiva loro di coltivare enormi appezzamenti di terreno a costi molto bassi, accentuando così la crisi dei piccoli proprietari terrieri.
Si affermò così il latifondo e le aziende agricole divennero enormi. Il proprietario terriero era generalmente un aristocratico, le cui proprietà terriere erano affidate a dei fattori (vilici), di condizione servile, che dimoravano nei campi, dirigevano i lavori di schiavi-operai e di schiavi-agricoltori e rendevano poi conto dell’amministrazione ai loro proprietari, secondo il sistema della villa rustica. Un sistema che costituì un modello di produzione nuovo nella storia dell’economia romana, se non altro per l’estensione che raggiunse. La villa popolata di schiavi era un’azienda agricola finalizzata non più alla produzione per il consumo domestico (come era avvenuto precedentemente), bensì alla produzione su vasta scala di prodotti alimentari destinati alla vendita e al commercio. Diventò conveniente abbandonare la coltivazione intensiva del grano in cambio di prodotti più redditizi: soprattutto olio e vino, che richiedevano grandi estensioni di terra per uno sfruttamento efficace, ma che potevano essere venduti lucrosamente e con ampi profitti anche in Oriente, dove i vini italiani erano particolarmente apprezzati. Sui latifondi vennero anche impiantati grandi allevamenti di bestiame, affidato a schiavi e lasciato in stato di semilibertà selvatica.
Tutti questi mutamenti socio-economici che abbiamo appena descritto, ebbero anche la conseguenza di portare alla formazione, all’interno della nobilitas, di due schieramenti: quello degli optimates o aristocratico, legato agli antichi ordinamenti e stretto attorno al senato e quello dei populares o democratico, che esprime gli interessi dell’ordine cavalleresco ma che tenta, spesso con successo, di assicurarsi l’appoggio delle classi popolari (plebes).
Nei primi secoli di vita della città, quando il loro numero era limitato, gli schiavi erano perfettamente inseriti nel sistema patriarcale. Le condizioni della produzione erano tali che a rendere diversa la posizione di figli e schiavi era essenzialmente lo stato giuridico e sociale (e non il ruolo nella famiglia). Il lavoro nei campi, infatti, era svolto dallo stesso pater, aiutato sia dai figli che dagli schiavi. Gli schiavi erano considerati dunque persone di famiglia, trattate umanamente e generalmente legate ai padroni da buoni rapporti.
Sul finire del secolo II a.C. il numero della popolazione servile era talmente aumentato da alterare completamente i rapporti tra schiavo e padrone e da apportare numerose implicazioni sociali ed economiche che in parte abbiamo già visto. Basterà pensare ai 50.000 Cartaginesi venduti da Scipione Emiliano, o ai 150.000 offerti all’asta dopo il saccheggio dell'Epiro da parte di Paolo Emilio. Anticipando quel che accadrà piú avanti, possiamo osservare che queste cifre rappresentano solo l’inizio di un fenomeno destinato ad assumere vastissime proporzioni: dopo le conquiste di Pompeo in Oriente, infatti vennero portati in Italia piú di due milioni di schiavi.
Il mercato degli schiavi dunque (alimentato anche dalla pirateria) era ormai diventato una delle attività commerciali piú produttive del Mediterraneo. Il piú grande mercato degli schiavi venne organizzato nell'isola di Delo (l'antica isola sacra ad Apollo): lí il numero degli schiavi che venivano comprati e venduti, toccava, in certi periodi, i diecimila al giorno. I ricchi proprietari terrieri, ovunque si trovassero, avevano continuamente bisogno di una crescente manodopera.
A parte lo spaventoso destino personale di quanti venivano strappati alle loro famiglie e alla loro terra per essere impiegati come «macchine» da lavoro, e la desolazione delle regioni da cui essi provenivano, che erano spogliate dei loro giovani migliori, l'estendersi dell'ecommia schiavistica ebbe, come abbiamo visto, conseguenze negative anche per la popolazione italica.
L'economia schiavistica non era un'invenzione di Roma. La manodopera servile era infatti già impiegata nelle antiche società orientali e in Grecia. Tuttavia la schiavitù diffusa nell'Italia repubblicana dei secoli II-I a.C. fu di natura differente. Prima di tutto essa venne praticata su larga scala assai piú di quanto avveniva all'interno di una pòlis greca o di un regno ellenistico; in secondo luogo, essa era volta essenzialmente allo sfruttamento dell'agricoltura. Gli schiavi, diventati strumenti di produzione, venivano dunque sfruttati al massimo: avviati al lavoro sin dalla piú tenera età, per tutta la vita venivano sottoalimentati e sottoposti a fatiche fisiche estenuanti, senza altra preoccupazione se non quella di non danneggiare troppo rapidamente il loro rendimento. Infine, quando l'età, gli stenti o le malattie li rendevano improduttivi (dato che ben difficilmente il padrone trovava qualcuno disposto a comprarli), la sorte che piú probabilmente li aspettava era quella di essere abbandonati a se stessi e lasciati lentamente morire. « Il padrone, – scrisse Catone nel De agricultura – deve eliminare un arnese rotto, uno schiavo vecchio e uno schiavo malato.
Non tutti gli schiavi si trovavano nelle stesse condizioni. Accanto aquelli trattati nel modo piú disumano (la grande maggioranza) esistevano categorie privilegiate. Erano in situazione favorevole gli schiavi destinati al servizio domestico, che erano spesso trattati come dei familiari; erano poi privilegiati quelli che aiutavano il padrone nelle attività commerciali, ottenendo in cambio una certa disponibilità economica e una libertà che arrivava al punto di poter avere una casa propria.
Esistevano, infine, gli schiavi intellettuali, in genere Greci, che venivano utilizzati come pedagoghi (o anche come medici) e che godevano non solo di un buon trattamento ma anche di un certo rispetto (e che non di rado dopo alcuni anni venivano liberati, in segno di riconoscenza) . Ma si trattava di eccezioni, soprattutto dal punto di vista numerico.
In condizioni particolarmente difficili, invece, si trovavano gli schiavi pubblici (appartenenti allo Stato), costretti a lavorare duramente nelle miniere, nelle cave e alla costruzione delle strade e delle opere pubbliche.
La presenza di grandi masse di schiavi poneva naturalmente problemi di ordine pubblico; alcuni cercavano di fuggire e si davano al brigantaggio nelle campagne; altri (gli schiavi-pastori siciliani, ad esempio) assumevano il controllo di grande parte del territorio impaurendo e taglieggiando gli abitanti, sicuri dell'impunità, perché appartenevano al patrimonio di potenti famiglie romane.
Infine, le masse servili erano una minaccia incombente per i grandi proprietari terrieri; vi furono infatti diverse sollevazioni di schiavi di cui la più grave fu quella che scoppiò in Sicilia nel 136 a.C., alla quale accanto agli schiavi, parteciparono non solo i piccoli proprietari privati di poderi, ma anche un gran numero di pastori e braccianti.
Una serie di circostanze aveva contribuito ad alterare profondamente la vita politica. Molti disoccupati riversatisi in città, infatti, avevano trovato modo di sopravvivere chiedendo la protezione delle grandi famiglie, di cui si erano fatti clientes. Seguendo le indicazioni di voto dei loro protettori nelle assemblee, costoro erano diventati una massa di manovra politica, grazie al cui operato le assemblee non esprimevano piú la volontà popolare. Ormai erano le grandi famiglie aristocratiche a dettar legge. Contemporaneamente le magistrature si erano corrotte: chi intraprendeva la carriera politica lo faceva con l'unico desiderio di diventare al piú presto console, per sfruttare le possibilità di guadagno offerte dal comando militare e dal governo delle province, che venivano sfruttate in modo sempre piú vistoso.
La politica era diventata esclusivamente un mezzo per perseguire gli interessi privati, e le magistrature si erano trasformate in una sorta di retaggio familiare.
Infine, il ceto dei cavalieri non aveva alcun interesse a cambiare un sistema che dopo averli arricchiti, continuava a offrire la possibilità di migliorare la loro posizione. Essi ambivano ad avere maggior peso nella vita politica, ma non avevano alcun motivo per desiderare che il sistema cambiasse.
Tra gli alleati italici serpeggiava uno scontento sempre piú forte. Legati a Roma da trattati che riconoscevano loro la posizione di socii, essi si erano sempre sentiti uniti a Roma da un rapporto molto stretto, che. dava loro la possibilità di non considerarsi estranei alla civitas romana (vedi 18.4), Alle guerre a fianco di Roma avevano partecipato con entusiasmo, offrendo contributi determinanti; al momento dell’invasione annibalica la loro fedeltà era stata determinante. Ma Roma non li aveva ammessi alla distribuzione delle terre conquistate, li sottoponeva a pesanti imposizioni fiscali, non concedeva loro il diritto di voto. In poche parole, non solo non li trattava come cittadini (come essi avrebbero voluto), ma neppure come socii (come sarebbe stato loro diritto). Di fatto, li considerava come dei sudditi. Ma i socii italici non erano i soli ad avere motivo di lamentela.
Infatti gli abitanti dei territori situati al di fuori della penisola e organizzati come province avevano motivi di scontento ancora maggiori. L'organizzazione provinciale era stata creata lentamente, a partire dalla fine della prima guerra punica: via via nel tempo erano state sottoposte al governo militare di Roma, diventando province, dapprima le isole, poi la Gallia transpadana, e, dopo la seconda guerra punica, la Gallia Narbonense, il territorio attorno a Cartagine, la Spagna, la Macedonia, la Grecia e vaste zone dell'Oriente. Nei confronti di nemici particolarmente potenti, quali erano tutti questi, Roma non aveva ritenuto prudente adottare la soluzione del trattato (equo o iniquo che fosse) e aveva preferito lasciare intatta la struttura del paese, attribuendosene la sovranità: in altre parole, il popolo romano si era sostituito ai precedenti sovrani e aveva delegato l'esercizio del potere ai suoi magistrati.
Senonché questi magistrati (che, essendo la provincia zona di operazioni militari, erano forniti di imperium) abusavano regolarmente del loro potere, sottoponendo i sudditi provinciali a vessazioni e spoliazioni continue.
Alle difficoltà interne si aggiungevano dunque quelle esterne, in un crescendo di tensioni che la politica senatoriale (sotto questo profilo sostenuta anche dai cavalieri) non faceva assolutamente nulla per diminuire. La situazione sembrava destinata a deteriorarsi progressivamente: nobili, plebei, cavalieri, piccoli proprietari, liberi e schiavi, proletariato urbano ed esercito sembravano ormai avviati a un inevitabile scontro. Una possibilità di sbocco e un primo vero tentativo di affrontate seriamente almeno qualcuno dei problemi piú impellenti si profilarono solo quando, alla ribalta della scena politica, fecero la loro comparsa i fratelli Caio e Tiberio Gracco.
Tiberio Sempronio Gracco apparteneva a una famiglia patrizia imparentata con quella degli Scipioni, particolarmente colta e aperta ai problemi sociali. Egli riteneva intollerabile che una parte cosí consistente della popolazione fosse costretta a vivere in condizioni di incredibile miseria, e si rendeva conto che il protrarsi di una simile situazione sarebbe stata la rovina di Roma. L'esercito, infatti, si era retto sulla massa dei contadini-soldati, arruolata grazie alla divisione dei cittadini in classi di censo. Scomparsa questa classe (trasformata in proletariato urbano che, in quanto tale, non era censito), Roma non aveva piú esercito. Quantomeno non aveva piú un esercito in grado di fronteggiare le numerose situazioni di conflitto e di difendere i confini, tanto lontani quanto estesi.
Per queste ragioni (alle quali si aggiungeva la necessità di evitare che il proletariato urbano, come stava inevitabilmente accadendo, si trasformasse in una massa incontrollabile e socialmente molto pericolosa), egli si convinse che l’unica soluzione era quella di ricostruire la classe dei piccoli coltivatori.
Al fine di raggiungere questo obiettivo, nel 133 a.C. Tiberio si fece eleggere tribuno della plebe: in questa veste, infatti, avrebbe potuto proporre ai concili della plebe una legge agraria che, anche se votata dalla sola plebe, avrebbe vincolato tutta la popolazione.
Considerata dalla classe senatoria come un esproprio, questa legge in realtà non era tale, dato che i senatori si erano appropriati di fatto di terreni pubblici, Tiberio si era limitato a riaffermare una vecchia regola, secondo la quale nessuno poteva possedere piú di 500 iugeri (125 ettari) di questo terreno. La legge agraria, dunque, non avrebbe certo ridotto in miseria i senatori: tra l'altro, essa prevedeva che chi aveva un figlio potesse tenere per sé fino a 750 iugeri, e che chi ne aveva piú d'uno potesse arrivare a 1000. Nello stesso tempo, però, essa consentiva allo Stato di recuperare una buona parte di terreno, che poteva essere suddiviso in piccoli appezzamenti (forse 30 iugeri) e affittato ai contadini impoveriti.
L'opposizione dei latifondisti fu tale che nel 132 a.C., temendo che la legge, che era stata approvata, non venisse applicata, Tiberio decise di presentate nuovamente la propria candidatura come tribuno. Per i suoi nemici fu facile sostenere che egli aspirava al potere personale. Nei tumulti che seguirono Tiberio Gracco fu ucciso.
Circa dieci anni dopo la morte di Tiberio, l’opera riformatrice venne ripresa da suo fratello Caio, eletto tribuno nel 123 a.C. L'esperienza aveva insegnato a Caio che nessuna riforma era possibile se contro lo strapotere della classe aristocratica non si coalizzavano tutte le forze animate dal desiderio di contrastarla. In altre parole Caio aveva capito che contro i senatori doveva avere l'appoggio anche dei cavalieri, appoggio che si guadagnò con due provvedimenti: assegnò loro la riscossione dei tributi della ricchissima provincia dell'Asia e, con le famose leges Semproniae, stabilí che a giudicare le malversazioni commesse dai governatori delle province non fosse piú solo l’aristocrazia, come era stato sino a quel momento. La novità non era da poco, poiché, come sappiamo, i governatori appartenevano alla classe senatoria. Per la prima volta, quindi, essi veniva giudicati da persone che non appartenevano alla loro classe.
Come si può capire da questo provvedimento, il disegno politico di Caio era piú ampio di quello di suo fratello, e la sua visione della situazione assai piú articolata: il suo obiettivo non era solo quello di ridimensionare il potere dei senatori, ma di opporre loro una nuova classe, dotata di nuovi poteri.
Il progetto era ambizioso, e Caio, che ne era consapevole, fece quanto era in suo potere per ottenere il massimo consenso: introdusse distribuzioni gratuite di grano (frumentationes) a cittadini romani, ripropose la lex agraria del fratello, ridusse i poteri punitivi dei capi militari e alleviò il servizio militare. Costruí nuove strade per migliorare le comunicazioni nella penisola, fondò colonie nelle province, che diventavano cosí nuove terre da sfruttare. Grazie a queste iniziative, nel 122 a.C., giovandosi di una legge da poco approvata, ripropose la sua candidatura al tribunato, riuscí a essere riletto, e decise di estendere la sua politica al di fuori dell’ambito cittadino.
Con una celebre proposta di legge egli chiese che venisse attribuita la cittadinanza romana ai Latini e la cittadinanza di diritto latino agli Italici. Però l’abolizione del privilegio di cui godono i cittadini romani nei confronti dei socii provoca il sollevamento delle masse popolari, che vedono diminuita la loro importanza sociale.
L’oligarchia senatoria, i cui privilegi venivano profondamente minati da questi provvedimenti, approfittò dei disordini per contrastarli e si servì nuovamente di un altro tribuno Marco Livio Druso. Approfittando dell’assenza di Caio, partito per l’Africa con Fulvio Flacco quale membro della commissione per la deduzione della colonia presso Cartagine, Druso fece proposte di inusitata larghezza (come la fondazione di ben dodici colonie).
Al suo ritorno a Roma, nel luglio del 122 a.C., Caio si rese conto che la situazione politica era profondamente mutata e la sua popolarità in grave declino. Candidatosi ancora al tribunato per il 121, non venne rieletto.
Per abbattere ogni suo residuo prestigio, alla fondazione della colonia cartaginese furono collegati presagi funesti e si propose che la deduzione dovesse essere revocata (121 a.C.). Caio Gracco e Fulvio Flacco tentarono di opporsi alla votazione del provvedimento, ma scoppiarono gravi disordini, in conseguenza dei quali il senato fece ricorso alla procedura del senatus consultum ultimum, con cui veniva sospesa ogni garanzia istituzionale e affidato ai consoli il compito di tutelare la sicurezza dello Stato con i mezzi che ritenessero necessari. Forte di tale provvedimento, il console Lucio Opimio ordinò il massacro dei sostenitori di Gracco che avessero osato resistere: Fulvio Flacco perì negli scontri, Caio Gracco si fece uccidere da un suo schiavo.
Poiché le riforme dei Gracchi rispondevano a problemi reali, gli ottimati non osarono abolirle, ma ne ridussero gli effetti, soprattutto quegli della legge agraria.
I lotti attribuiti furono dichiarati inalienabili, sicché riprese la loro migrazione nelle mani dei più ricchi. Venne posto fine alle operazioni di recupero e di riassegnazione delle terre, lasciando i possessi legittimamente occupati dagli attuali detentori, prima in concessione poi in proprietà.
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Morto Caio, il potere era tornato nelle mani della clasw senatori&, che aveva ripreso la politica di sempre: senza concedere nulla a nessu
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A coloro che sostenevano questa politica (gli O~tiP-tes) i opponevano però i poputares, nelle cui file militavano i cavalieri, i plebei e gli Italici che avevano raggiunto un certo benessere, e persino qualche nobile particolarmente iNuminato. A volte , in queste file si ritrovava anche il proletariato whano, che peraltro si divideva tra i due partiti senza una coscienza e un progetto pol itico veramente precisi, ma solo sulla base dei vantaggi che l'alleanza dei momento poteva garantire nell'immediato futuro.
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La politica estera di questo periodo fu caratterizzata da due avvenimenti: la guerra contro Giugurta e quella contro i Cimbri e i Teutoni.
Scipione Emiliano aveva regolato le questioni africane, dopo la terza guerra punica, tramite la costituzione di una piccola ma ricca provincia (la provincia romana d’Africa) e rapporti di buon vicinato con le città libere e con i figli di Massinissa, il re di Numidia tradizionale alleato dei Romani. Tra essi si era progressivamente imposto Micipsa che, morti i fratelli, era divenuto unico re di Numidia. La politica filoromana sua e di suo padre aveva attirato in Africa commercianti ed uomini d’affari romani e italici, allettati dalle grandi potenzialità economiche della regione e dalla sua grande produttività soprattutto in grano e olio.
Morto nel 118 a.C. Micipsa, il regno numidico venne conteso tra i suoi tre eredi principali (a cui Micipsa l’aveva lasciato indiviso). Il più spregiudicato dei tre Giugurta si sbarazzò di uno di essi assassinandolo. L’altro fu costretto a fuggire a Roma e a chiedere l’arbitrato del senato che optò per la divisione della Numidia tra i due superstiti: a Giugurta la parte occidentale, più vasta, all’altro, Aderbale, quella orientale, più ricca. Ma nel 112 a.C. Giugurta volle impadronirsi della porzione di regno assegnata ad Aderbale e nel assediò la capitale, importante centro del commercio granario e base operativa di molti mercanti romani e italici. Presa la città, Giugurta fece trucidare non solo il rivale ma anche i Romani e gli Italici che vi svolgevano la loro attività. Sotto l’impulso dei cavalieri, che vedevano compromessi i loro lauti proventi africani e che li accusavano di essersi fatti comprare dall’oro di Giugurta, i senatori furono costretti a dichiarare guerra nel 111 a.C.
All’inizio la guerra mostrò drammaticamente il livello al quale Roma si era ridotta: mentre i generali si facevano corrompere, i soldati vendevano le armi al nemico. Essendo il Senato caduto nel discredito nel 107 a.C. i cavalieri e i populares riuscirono a fare eleggere console Caio Mario, homo novus, vale a dire appartenente a a famiglia non nobile, e primo, all'interno di questa, a ricoprire una carica pubblica.
I problemi militari che si ponevano a Mario erano due: da un canto la lunga guerra in Numidia e dall’altro il pericolo rappresentato dai Cimbri e dai Teutoni, due popolazioni di stirpe germanica, che avevano invaso la Gallia e minacciavano di penetrare in Italia. Per affrontare questi problemi (e al tempo stesso, come vedremo, per dare maggior forza ai populares), Mario compì una mossa di grande importanza strategica, riformando l’esercito, e rendendolo volontario. Già al tempo delle interminabili e sanguinose campagne militari spagnole si erano riscontrate gravi difficoltà nel reclutamento legionario, che era limitato ai soli cittadini iscritti nelle cinque classi censitarie. Per ovviare al problema si era via via diminuito il censo minimo per l’attribuzione dei cittadini alla quinta classe fino a cifre pressoché irrisorie, sì che molti degli appartenenti agli strati più poveri della popolazione potessero essere coscritti, naturalmente armati ed equipaggiati a spese dello Stato. Mario bisognoso di nuove truppe per far fronte ai vari impegni militari, aprì l’arruolamento volontario ai capite censi, cioè a coloro che erano iscritti sui registri del censo per la loro sola persona, senza il minimo bene patrimoniale, dunque nullatenenti. Il metodo utilizzato da Mario divenne poi una pratica regolare.
Grazie al nuovo esercito, all’astuzia del giovane ufficiale di nobile famiglia Lucio Cornelio Silla, che riuscì a catturare Giugurta con un inganno, e al valore di Mario, nel 105 a.C. la Numidia fu finalmente domata.
Mario, che fu probabilmente uno dei più grandi tra i generali di Roma, era ormai la guida riconosciuta dei populares contro l’oligarchia. Per ben cinque anni fu rieletto console, e riuscì nell’impresa, costata cara ad alri generali, di sconfiggere i Teutoni ad Aquae Sextiae (attuale Aix-en-Provence) nel 102 a.C. e i Cimbri ai Campi Raudii, presso Vercelli nel 101 a.C. I successi e le vittorie militari di Mario favorirono l’azione dei populares. Il tribuno della plebe Lucio Appuleio Saturnino, amico e alleato di Mario, propose una legge che assegnava ai veterani delle campagne di Mario 25 ettari di terra a testa in Numidia. Contemporaneamente riusciva a far passare una legge fortemente antioligarchica, la legge de maiestate che prevedeva un tribunale permanente per i reati di maiestas (vedi). Una legge frumentaria, ormai strumento insostituibile per conquistarsi il favore della plebe urbana, doveva garantire a Saturnino il controllo dei comizi. Probabilmente nel 101 il pretore Servilio Glaucia riusciva a riportare il tribunale sulle concussioni in mano ai cavalieri, che ne erano stati esclusi da una legge di Servilio Cepione, uno degli sconfitti contro i Teutoni. Nel 100 a.C. un nuovo tribunato di Saturnino cercava di dare il colpo di grazia all’oligarchia: il tribuno riproponeva una legge agraria che prevedeva assegnazioni di terre ai veterani, questa volta in Gallia cisalpina, e faceva seguire la legge da una clausola che imponeva ai senatori il giuramento di non tentare di abrogare la legge stessa; Metello Numidico, avversario di Mario, rifiutandosi di giurare andò in esilio, ma Saturnino non riuscì ugualmente: la violenza da lui scatenata per ottenere l’approvazione della legge diede al senato il pretesto per ricorrere ancora al senatus consultum ultimum. Ad applicarlo venne chiamato il console Caio Mario, che, dopo qualche esitazione, accettò di sottomettersi al senato, e con la forza eliminò Saturnino e Glaucia: ancora una volta il movimento popolare era stato sconfitto dalla reazione oligarchica.
Il decennio successivo fu caratterizzato da forti tensioni politiche e sociali. In questa atmosfera fu eletto tra i tribuni della plebe nel 91 a.C. Marco Livio Druso, figlio dell’omonimo Livio Druso che si era opposto a Caio Gracco. Figura enigmatica di aristocratico, egli tentò di destreggiarsi tra le varie parti con una politica di reciproca compensazione. Da un lato promulgò provvedimenti di evidente contenuto popolare, come una legge agraria volta alla distribuzione di nuovi appezzamenti e alla deduzione di nuove colonie e una legge frumentaria che abbassava ulteriormente il prezzo politico delle distribuzioni granarie. Dall’altro restituì ai senatori i tribunali per le cause di concussione, proponendo però l’ammissione dei cavalieri in senato, che veniva aumentato da trecento a seicento membri. Infine, a coronamento di tante pressioni e di una lunga maturazione del problema, volle proporre la concessione della cittadinanza agli alleati italici. Ancora una volta l’opposizione fu vastissima e fu trovato modo di dichiarare nulle tutte le sue leggi. Quando però Druso venne misteriosamente assassinato, le aspettative e i contatti erano ormai molto avanzati e l’esasperazione e il sentimento di ribellione degli Italici avevano raggiunto un punto da cui non era più possibile tornare indietro.
Come sappiamo, i socii italici chiedevano da tempo la cittadinanza. Questo perchè essi divennero consapevoli di essere esclusi da una condizione, quella di cittadino romano appunto, che era divenuta sempre più vantaggiosa, nonostante avessero contribuito in maniera determinante ai successi militari e quindi alla grandezza di Roma. In altre parole, gli italici si sentivano discriminati. Ad esempio delle distribuzioni granarie (e frumentarie) beneficiavano i soli cittadini romani: gli italici non solo ne erano eslusi, ma vedevano assegnati a cittadini terreni da loro a lungo utilizzati e messi a coltura. Essi partecipavano allo sfruttamento economico delle province, ma sempre in funzione subalterna rispetto ai cittadini e spesso vessati dai magistrati romani. Non avevano parte alcuna nelle decisioni politiche, economiche, militari, che pur vedevano largamente coinvolti anche loro interessi. Perfino nell’esercito tutta la struttura era concepita a favore dei cittadini romani: gli alleati continuavano a pagare l’imposta destinata al soldo delle loro reclute, mentre i cittadini ne erano dispensati; ricevevano una parte meno importante del bottino e punizioni più gravi; non potevano condividere in alcun modo le funzioni di comando.
L’assassinio di Druso fu per gli alleati italici il segnale che non vi era altra possibilità di difendere le proprie rivendicazioni che la rivolta armata (comunemente definita guerra sociale, cioè dei socii, degli alleati italici contro Roma).
Le ostilità si aprirono nel 91 a.C., ad Ascoli Piceno dove vennero uccisi un pretore e i suoi legati che si erano recati nella città per tenerla sotto controllo. Intorno ai due nuclei principali, i marsi e i sanniti, si strinsero le altre popolazioni etnicamente e culturalmente affini, formando una vera e propria federazione italica che si diede strutture simili a quelle dei romani: un esercito condotto da due comandanti (come i consoli), un’assemblea simile al senato nel numero e nelle funzioni; scelse una capitale Corfinio, ribattezzata Corfinio italica; e soprattutto valorizzò anche gli aspetti culturali della tradizione italica: le sue monete ebbero il simbolo del toro e del vitello e la dicitura Viteliu e Italia, santuari come quello di Pietrabbondante rappresentarono centri religiosi «nazionali» assai vitali.
Gli italici dimostrarono di essersi preparati da tempo e, avendo imparato a combattere negli eserciti romani, si dimostrarono nemici tenaci ed agguerriti. I romani impiegarono i migliori generali del tempo, da Mario, che combatté nella Marsica con successo, a Silla, che impegnò battaglia in Campania, a Pompeo Strabone, che combatté fino ad espugnare Ascoli nell’89 a.C. Oltre che con le operazioni militari, lente e durissime, i romani cercarono di togliere spazio all’insurrezione con alcune leggi: nel 90 a.C., su proposta del console Lucio Giulio Cesare venne approvata una legge (lex Iulia de civitate) che concedeva la cittadinanza romana agli italici che erano rimasti fedeli a Roma (tra questi, per esempio, gli etruschi); nell’89 a.C. la lex Plautia Papiria estendeva la cittadinanza a quanti degli italici avessero deposto le armi entro sessanta giorni. Così, mentre resistevano alcuni focolai nel Sannio, in Campania e intorno ad Ascoli, la guerra perdeva ragione d’essere poiché i romani avevano ceduto in pochi mesi ciò che avevano negato per decenni.
Con la concessione della cittadinanza si inaugurava sia un processo di unificazione politica dell’Italia sia una nuova fase nella storia delle istituzioni di Roma, con ripercussioni importanti nella costituzione del corpo civico e nella vita stessa della città. Le aristocrazie italiche erano riuscite a fondare i presupposti per un loro accesso alle magistrature e un successivo ingresso in senato. Per esercitare i loro diritti i neocittadini dovevano assolutamente recarsi a Roma per parrtecipare personalmente alle assemblee. Non tutti avrebbero potuto farlo, ma gli interessi di molti cominciarono a convergere verso la città: ed essa, moltiplicando anche per questo la sua forza d’attrazione, si avviò ad assumere sempre più i caratteri di una grande metropoli cosmopolita.
Nell’88 a.C. venne eletto console Lucio Cornelio Silla, che si era distinto nelle azioni militari durante la guerra sociale, il quale da subito dimostrò di essere dalla parte degli optimates
Mentre romani ed italici si affrontavano nella guerra sociale, una situazione sempre più allarmante era venuta a determinarsi in Oriente, a partire dalle coste meridionali del Mar Nero. Roma, installatasi sul territorio degli Attalidi con la costituzione della provincia d’Asia, aveva favorito nella provincia anatolica la coesistenza di molti piccoli stati dinastici, limitandosi a vegliare che nessuno ne realizzasse l’unità. Ma, divenuto re del Ponto, Mitridate VI iniziò subito una politica espansionistica volta alla conquista dei territori limitrofi (Cappadocia, Bitinia) che mise in serio pericolo i domini di Roma non solo d’Asia ma anche di Grecia. Egli infatti condusse un’efficacissima opera di propaganda rivolta al mondo greco, presso il quale egli fu abile a presentarsi come sovrano filoelleno ed evergete (cioè “benefattore”), sollecito al bene ed alla libertà di tutti, e vendicatore dei soprusi, che dovunque ripristinava autonomie locali e concedeva l’immunità da tributi, sfruttando il malcontento verso i romani che serpeggiava in Oriente, nutrito dell’odio nei confronti di affaristi, esattori e governatori di Roma. Così quasi tutte le comunità greche (esclusa la sola Rodi) aderirono all’esercito mitridatico e la guerra acquistò carattere di una vera e propria sollevazione del mondo greco contro il dominio di Roma.
Quando nell’88 a.C Mitridate si abbandonò ad eccidi di cittadini romani che abitavano le zone da lui controllate, Roma decise di intervenire militarmente e il senato assegnò il comando delle operazioni al console Lucio Cornelio Silla, esponente degli optimates.
Questi, tuttavia, ancora impegnato nella guerra sociale, attardò la sua partenza per l’Oriente. Di ciò ne approfittò il tribuno della plebe Sulpicio Rufo, passato ai popolari, il quale propose che il comando della guerra decisa dal senato in Oriente contro Mitridate fosse affidato non a Silla, ma a Mario. Sulpicio aveva ricostituito (a vantaggio di Mario) la vecchia alleanza tra cavalieri, popolari e italici, che egli si era ingraziato proponendo l’iscrizione dei nuovi cittadini in tutte e trentacinque le tribù (e non in solo otto), dando così agli italici maggior peso nelle assemblee. L’oligarchia senatoria infatti, sapendo che il numero dei nuovi cittadini era tale che, se fossero stati ripartiti tra tutte e trentacinque le tribù e si fossero recati in massa a Roma per votare, sarebbero stati in maggioranza in ciascuna tribù, aveva ricorso all’espediente di immetterli in un numero limitato di tribù. In questo modo, poiché nei comizi tributi i cittadini votavano entro la tribù, e si contava un voto per ogni tribù, conforme alla maggioranza in essa espressa, i neocittadini avrebbero potuto influire soltanto sul voto di poche tribù, mentre i vecchi cittadini avrebbero continuato a mantenere la prevalenza complessiva dell’organismo.
Appresa la notizia della sua sostituzione, Silla compì un gesto senza precedenti: con l’esercito marciò su Roma. Erano così divenuti palesi i primi esiti della riforma mariana dell’esercito: la truppa, anche per il miraggio della preda in Oriente, si sentiva ormai più legata al proprio comandante, con cui condivideva campagne e bottini, che ad uno stato che reputava dominato da una fazione ostile. Impadronitosi di Roma, Silla scatenò una guerra civile e cacciò i popolari: Sulpicio, la cui legislazione venne immediatamente abrogata, fu subito eliminato, Mario riuscì a stento a fuggire in Africa.
Prima di recarsi in Oriente, Silla fece approvare alcune norme, che anticipavano la sua opera riformatrice degli anni 81-79 a.C.: ogni proposta di legge avrebbe dovuto essere approvata dal senato prima di essere sottoposta al voto popolare; i comizi centuriati dovevano divenire la sola assemblea legislativa legittima. Ciò ottenuto, partì alla volta dell’Oriente. Non era riuscito tuttavia ad impedire che per l’87 a.C. vennissero eletti consoli a lui non favorevoli.
Sbarcato in Epiro nell’87 a.C. e, attraversata la Beozia, Silla cinse d’assedio Atene (87 a.C.), che venne presa e saccheggiata.
Nel frattempo a Roma, il console Lucio Cornelio Cinna, fautore di Mario, richiamò questi a Roma e scatenò una violenta repressione contro i sostenitori di Silla. La città venne presa con la forza e Silla fu dichiarato nemico pubblico. In questo clima Mario fu eletto console (per la settima volta) insieme a Cinna per l’anno 86 a.C.; morì pochi giorni dopo essere entrato in carica.
Cinna fu rieletto console di anno in anno fino all’84 a.C. promuovendo un’ampia opera legislativa: ad esempio fu definitivamente risolta la questione della cittadinanza con l’immissione dei neocittadini in tutte le 35 tribù. Nell’84 a.C. Cinna venne ucciso durante una rivolta militare.
Nel frattempo, in Oriente, Silla batteva a Cheronea (86 a.C.) e a Orcomeno (85 a.C.) le truppe di Mitridate. La posizione del re pontico si fece così sempre più precaria: molti dei suoi alleati defezionarono. Silla d’altronde, attento all’evolversi degli eventi in Roma, aveva fretta di chiudere le ostilità. Si giunse così a trattative di pace, che fu stipulata a Dardano (85 a.C.) a condizioni relativamente miti. Mitridate conservava il proprio, ma doveva evacuare il resto dell’Asia; era obbligato a versare una forte indennità di guerra e consegnare la propria flotta.
Silla rientrò in Italia nell’83 a.C., riaccendendo con il suo arrivo la violenza della guerra civile; nonostante Mario e Cinna siano ormai scomparsi, i mariani che godono dell’appoggio delle popolazioni italiche, sono ancora forti. Grazie all’appoggio di Cneo Pompeo Silla ottenne vari successi, e con l’aiuto di Marco Licinio Crasso, il futuro triumviro, vinse la battaglia decisiva di Porta Collina (82 a.C.).
Per eliminare ogni resistenza Silla fa affiggere nel Foro le liste di proscrizione contro i mariani: elenchi di persone che poteva essere uccise da chiunque volesse farlo, i cui beni venivano confiscati e venduti all’asta e i cui figli e discendenti venivano esclusi da ogni carica. Molte comunità italiche (tra cui in particolare i Sanniti) subirono confische territoriali che furono utilizzate per dedurre colonie a favore dei veterani di Silla. Fino al 79 a.C., anno in cui lasciò volontariamente la vita pubblica, Silla assunse la carica di dittatore a tempo indeterminato (la carica dovrebbe essere assegnata solo in tempo di guerra e con durata di sei mesi) e condusse un’ampia opera riformatrice volta alla restaurazione dell’autorità del senato. Vediamo alcuni dei principali provvedimenti.
Quinto Sertorio si era distinto, nelle file mariane, contro i Cimbri e i Teutoni e, di nuovo, nella guerra sociale. Nell’82 a.C., dopo le prime vittorie di Silla, aveva raggiunto il suo posto di governatore della Spagna Citeriore. Là aveva creato una sorta di stato mariano in esilio, con istituzioni di tipo romano, coagulando altri esuli della sua fazione, romani e italici residenti in Spagna e perfino gran parte delle popolazioni indigene, arrivando così a controllare quasi tutta la penisola iberica. Alcuni tentativi di abbattere questo stato furono intrapresi quando Silla era vivo, ma risultarono vani. Quando però a Roma corsero voci di alleanze di Sertorio con Mitridate e i pirati per ampliare la sua sfera d’influenza e per attaccare l’Urbe, il senato decise di inviare un esercito sotto il comando di Cneo Pompeo. Dopo una lunga e difficile guerra il comandante romano riportò la Spagna sotto l’autorità di Roma nel 71 a.C.
Nel 73 a.C. scoppiò a Capua in una scuola di gladiatori un’insurrezione di schiavi. A capo dei rivoltosi si pose un trace di nome Spartaco, che riuscì ad organizzare, in breve tempo, un forte esercito. I romani, sottovalutando la pericolosità della situazione, videro sconfitti due consoli e un pretore; intervenne allora un corpo di spedizione formato da sei legioni, agli ordini di Marco Licinio Crasso, già collaboratore di Silla. Spartaco riuscì a tenere testa all’esercito per due anni e a scorrazzare per tutta la penisola, finché venne sconfitto e uccisio sul fiume Sele, nella Lucania settentrionale (71 a.C.). Seimila prigionieri vennero crocifissi lungo la Via Appia, e cinquemila gladiatori che tentano la fuga verso nord furono sopraffatti in Etruria dall’esercito di Pompeo, che stava rientrando a Roma dalla Spagna.