Attorno alla metà del IV millennio a.C. si verifica, nella bassa Mesopotamia, quella che, con una celebre espressione di Gordon Childe, si definisce «rivoluzione urbana», ovvero la nascita della città.
Benché assai differenziate e divergenti siano le teorie che oggi cercano di individuare i fattori di tale sviluppo, c’è un elemento costante nelle interpretazioni moderne: l’urbanizzazione è il risultato di un processo di cambiamento che nel tempo ha i caratteri della lunga durata e nello spazio quelli di una forte variabilità.
E comunque abbiano influito una serie di fattori quali l’incremento demografico delle comunità, l’accrescimento degli scambi tra aree distanti e l’insorgere di conflitti regionali, è indubbio che fondamentale e primaria importanza hanno avuto nel processo l’accumulo delle eccedenze alimentari ottenuto attraverso un'agricoltura intensiva a base irrigua integrata dalla pastorizia e dalla pesca.
La città come esteso agglomerato di case è nata probabilmente dal sinecismo di villaggi vicini che si sono amalgamati materialmente per dar vita ad un centro più grande, una città appunto. Ma la differenza tra città e villaggio non è semplicemente quantitativa, ma essenzialmente qualitativa e strutturale: in altre parole, una città non è tale solo perché contiene un maggior numero di abitanti rispetto al villaggio.
Infatti prima ancora che un fatto demografico ed urbanistico la «rivoluzione urbana» è un fatto economico, è la concretizzazione – avvenuta attraverso processi secolari – di un nuovo tipo di organizzazione della produzione basata sulla divisione specialistica del lavoro. Nell'organizzazione pre-urbana, che definiamo per semplicità «di villaggio», ogni unità produttiva («casa», cioè azienda familiare) deve non solo eseguire il lavoro fondamentale di produzione del cibo (mediante tecniche agricole e/o pastorali), ma anche apprestarsi, nei ritagli di tempo, ad esempio a realizzare gli strumenti di lavoro, oppure a realizzare e a mantenere la propria abitazione: in altre parole dev'essere autosufficiente. Il «salto» organizzativo, l'innovazione che permette di passare dall'organizzazione di villaggio a quella di città avviene quando ci si rende conto che i lavori specialistici (cioè quelli di non produzione del cibo) saranno eseguiti più efficacemente e più economicamente se affidati ad artigiani e fornitori di servizio a tempo pieno, i quali ovviamente non essendo diretti produttori di cibo dovranno essere mantenuti da tutti coloro che continuano a dedicarsi alla produzione di cibo e che sono avvantaggiati dall'opera dello specialista. Per schematizzare: invece di avere 100 famiglie contadine che dedicano una quota del loro tempo a fabbricare zappe, si avranno 99 famiglie di contadini e una di fabbricanti di zappe, quest'ultima alimentata dalle quote dei raccolti delle altre 99, le quali però trarranno vantaggio dall'opera della famiglia specialistica. Il vantaggio è duplice: in primo luogo il tempo di lavoro è ridotto, cioè lo specialista esegue il suo compito in un tempo che è inferiore alla somma delle quote-tempo che avrebbero dovuto dedicarvi le famiglie non specialistiche (vantaggio economico); in secondo luogo lo specialista acquisterà una maggiore padronanza della tecnica in questione, e sarà anzi in grado di farla progredire con innovazioni nei procedimenti e con la sperimentazione di nuovi materiali (vantaggio tecnologico).
Così, dai produttori di cibo va agli specialisti un flusso di eccedenza alimentare (che prima abbiamo indicato come determinante per il passaggio dal villaggio alla città) che permette agli specialisti di sopravvivere pur non producendo cibo. E dagli specialisti va verso i produttori di cibo un flusso di prodotti specializzati e di servizi. Il meccanismo è per principio bidirezionale, e tale da avvantaggiare la comunità integrata nel suo complesso; ma i rapporti interni si sbilanciano a tutto vantaggio degli specialisti. Costoro sono innanzi tutto depositari di tecniche e conoscenze più rare e avanzate, hanno dunque un prestigio sociale e culturale ben superiore ai produttori di cibo che svolgono incombenze tecnologicamente banali e diffuse (si pensi che essi rappresentano l’80% o più della popolazione).
Per questo la suddivisione specialistica del lavoro è accompagnata da fenomeni di grande rilievo. Innanzitutto il processo di gerarchizzazione: alcuni lavori, a causa della loro importanza per il funzionamento della comunità oppure a causa della preparazione tecnica necessaria per eseguirli erano ritenuti più importanti di altri e quindi anche meglio remunerati. Dunque le ricchezze si distribuirono in maniera ineguale creando delle marcate differenziazioni sociali. E questo fenomeno, a sua volta, portò alla formazione di un gruppo di potere che controllava tutto il resto della comunità: alcuni individui infatti grazie alle loro fortune economiche, ma, probabilmente, grazie anche alle loro capacità personali, riuscirono a ritagliarsi posizioni di prestigio e quindi anche ad assumere potere decisionale sugli altri. La centralizzazione del potere sembra, non solo logico, ma anche necessario sviluppo della divisione del lavoro: solo accentrando nelle mani di una o poche persone la capacità decisionale, si può coordinare meglio una comunità dove ognuno dipende dal lavoro dell'altro (scompare l'autosufficienza) e quindi far passare innanzi l'interesse collettivo all'interesse del singolo (in anarchia ognuno «tira l'acqua al suo mulino»). Nacquero quindi le due principali sedi del potere che caratterizzeranno tutta la storia del Vicino Oriente: il tempio (prima) e il palazzo (poi). Cioè, per spiegarsi meglio, dobbiamo dire che la questione poggia su basi prettamente archeologiche. Ovvero sull'idea che, all'interno di una società antica l'esistenza di una differenziazione sociale e quindi di una centralizzazione del potere, può essere documentata dall'architettura: ossia quando nello scavo si trova una casa che si distingue nettamente dalle altre per le sue dimensioni, per la sua organizzazione e per il materiale che essa contiene, si può giustamente pensare che essa sia la manifestazione di un potere esercitato da uno o più uomini sulla comunità.
Tra tempio e palazzo la differenza è notevole, perché il tempio è innanzi tutto la sede delle attività cultuali, la «casa del dio» ove la comunità presta al suo capo simbolico il culto giornaliero e periodico (feste) attraverso l'intermediazione dei sacerdoti; il palazzo è invece innanzi tutto la residenza del capo umano, il re con la sua cerchia più stretta (famiglia reale, corte). Ma altrettanto importanti sono le affinità: palazzo e tempio sono entrambi la sede delle attività amministrative e decisionali, e la sede dell’accumulo delle eccedenze sul quale è fondato l’intero meccanismo redistributivo testimoniatoci dalla presenza di numerosi magazzini. Nel palazzo e nel tempio affluiscono le eccedenze alimentari che vengono inviate dalle comunità contadine poste sotto il loro controllo e che sono destinate agli individui – dediti a lavori specialistici – che lavorano al servizio di queste «grandi organizzazioni» (Oppenheim). Quindi, oltre che residenza reale o rispettivamente divina, oltre che sede delle manifestazioni pubbliche di carattere politico o rispettivamente religioso, palazzo e tempio sono anche la sede di botteghe artigiane, di magazzini, di uffici scribali e di archivi.
Rispetto alla «grande organizzazione», che si identifica con quello che noi definiremmo lo Stato, la popolazione si dispone in un rapporto molto nettamente bipartito. Gli specialisti non avendo mezzi di produzione propri, sono costretti a lavorare alle dipendenze del palazzo, che li mantiene attraverso la distribuzione di razioni alimentari. Gli specialisti sono dunque l’élite socio-economica e politica dello Stato, ma sono giuridicamente ed economicamente «servi» del re (o del dio), e fanno parte dello Stato in quanto mantenuti da esso. Invece il resto della popolazione, costituito dalle famiglie di produttori di cibo, è «libero» nel senso che detiene i propri mezzi di produzione (terre, bestiame) e lavora per il proprio sostentamento; ma è tributario dello Stato cui deve cedere le proprie eccedenze alimentari, ed è dunque parte del meccanismo redistributivo piuttosto nel momento del prelievo che non in quello del ritorno, momento quest'ultimo che assume spesso carattere puramente ideologico (culto religioso, propaganda politica), con modesta ricaduta nelle campagne della produzione specialistica e persino del servizio essenziale della difesa. Il momento di più evidente ed efficace ricaduta dell'organizzazione centrale sulle campagne è dato dallo scavo di canali, essenziale infrastruttura agricola che può essere realizzata solo con un coordinamento di lavoro e risorse che la «grande organizzazione» è in grado di assicurare.
Dunque nascita della «grande organizzazione» significa nascita dello Stato non tanto nel senso della funzione politico-decisionale, già presente in qualche forma nelle comunità pre-urbane, ma nel senso di organizzazione che controlla stabilmente ed organizza e coordina lo sfruttamento differenziato delle risorse al fine di salvaguardare e di sviluppare la sopravvivenza della popolazione.
Abbiamo analizzato il sorgere della città sotto il profilo dello sviluppo socio-economico, ora analizziamo questo stesso processo dal punto di vista dell'archeologia che ha permesso, in parte, la ricostruzione del primo.
Nella bassa Mesopotamia attorno al 5000 (quindi contemporaneamente allo sviluppo delle grandi culture ceramiche della media e alta Mesopotamia; vedi cap. prec.) sorge quasi d'improvviso la cultura di Eridu (5100-4800): una cultura che per raffinatezza della produzione ceramica deve aver avuto un processo formativo, che però o resta sepolto sotto l'alluvio, oppure è avvenuto altrove (forse nel Khuzistan).
Sviluppo della cultura di Eridu è quella detta di Haggi Muhammad (4800-4500) che si diffonde dal sud (Eridu) fino alla zona di Kish (Ras el-Amiya), e oltre il Tigri fino a Choga Mami (dove va a fronteggiare la cultura tardo-Halaf) e ai centri del Khuzistan. Questa unità culturale (che in termini di successiva geografia storica comprenderebbe le aree di Sumer, Akkad, Elam), rappresenta la base di partenza per la cultura di el-'Ubaid, con la quale il sud mesopotamico prenderà infine la guida dello sviluppo tecnologico e culturale del Vicino Oriente, mentre la cultura di Halaf conoscerà una progressiva crisi di difficile spiegazione. Con l'inizio della cultura di 'Ubaid, comincia la cosiddetta fase calcolitica.
Negli strati 17-15 di Eridu (fase di Eridu, ca. 5000) sono stati rinvenuti dei piccoli edifici che per tipologia e per collocazione sono interpretati come i primi esempi di edifici esclusivamente dedicati al culto. L'inizio è modesto (si tratta di piccole cappelle), ma gravido di sviluppi, anche perché è già significativo il fatto stesso di dedicare a questa funzione degli spazi propri, mentre precedentemente (si ricordi il caso eclatante di Çatal Hüyük) essa era svolta in collocazione familiare. Questo sviluppo diventa caratteristico della successiva fase culturale di 'Ubaid, quando acquista dimensioni considerevoli, e si diffonde dalla bassa all'alta Mesopotamia, non interessando per il momento le zone circostanti.
La fase culturale di 'Ubaid ha una lunga durata, ca. 4500-4000 per la fase «antica» o «classica» e 4000-3500 per la fase «tarda». Inizialmente insiste nella stessa zona in cui si erano sviluppate le culture di Eridu e di Haggi Muhammad, rispetto alle quali gli insediamenti e il tipo della produzione ceramica mostrano una continuità sicura. I centri principali sono Eridu stessa, Ur, e il sito eponimo di 'Ubaid (presso Ur) nel profondo sud; successivamente e più a nord Tell 'Uqair (presso Kuta), Ras el-'Amiya (presso Kish) e Tell Madhur.
L'architettura domestica, inizialmente piuttosto povera, con capanne di canne e di argilla, acquista poi maggiore solidità costruttiva e complessità di pianta (si veda l'esempio di Tell Madhur). Importante è il fatto che al centro dell'insediamento troneggia il tempio: ma dopo i tempietti embrionali della fase di Eridu, i templi della fase 'Ubaid classica (strati 11-8) sono assai più cospicui e hanno cella centrale allungata affiancata da ambienti minori sporgenti, per culminare già nello strato 8 e poi coi templi della fase 'Ubaid tarda (7-6) in edifici tripartiti (cella allungata centrale, con due file di stanze ai lati), con muri esterni a sporgenze e rientranze (un tipo architettonico che resterà tipico dei templi mesopotamici per tre millenni), con accesso laterale preceduto da una scalinata che supera il dislivello della piattaforma. L'imponenza di questi edifici (circa 20 metri per 12) rispetto a tutto quanto noto fino ad allora, mostra che l'enucleazione della funzione cultuale portò subito l'organizzazione del potere economico e politico nella direzione della centralizzazione grazie probabilmente all'afflusso di offerte, al culto come attività comunitaria, alla mobilitazione di forze lavorative per l'edificazione stessa, e ad un probabile sacerdozio professionale). Di questa tendenza alla centralizzazione e anche alla stratificazione, che come si é visto nel paragrafo precedente procedono di pari passo, si hanno altri indizi, per ora non troppo vistosi ma interpretabili alla luce degli sviluppi successivi.
Un primo indizio sta nell'accresciuta presenza di prodotti artigianali di intrinseco pregio (per gli standard dell'epoca) frutto di attività specialistiche, anche se non ancora necessariamente a tempo pieno.
Un secondo indizio sta in manifestazioni di ricchezza in contesti non strettamente funzionali alla sopravvivenza. Oltre alle offerte templari crescono i corredi funerari; specchio evidentemente di crescenti differenze nella disponibilità economica da parte dei defunti e quindi di una società che comincia a stratificarsi funzionalmente ed economicamente.
Un terzo indizio sta nell'inizio di produzioni «in serie», che comportano da un lato artigiani a tempo pieno, e dall'altro l'esistenza di una qualche «agenzia» politica di dirigenza e committenza delle attività economiche della comunità. Un esempio è costituito dalle falci di terracotta che mostrano una massificazione dello strumentario. Ma ancor meglio documentabile è il caso della ceramica. La ceramica di 'Ubaid «classica» è una ceramica fatta a mano, molto pregevole sia sul piano tecnico (tipo di impasto, grado di cottura, pareti sottili a guscio d'uovo) sia su quello estetico (decorazione dipinta che sviluppa quella dei periodi precedenti aggiungendo nuovi motivi anche animalistici). Tuttavia già nella fase 'Ubaid tarda si assiste ad una decadenza tecnica per produzione più affrettata, in serie su grandi quantitativi: introduzione del tornio lento, cottura irregolare, minor cura per la decorazione. Il processo culminerà nel successivo periodo (antico-Uruk) con l'affermarsi di una lavorazione completamente al tornio di vasellame di serie.
La cultura di 'Ubaid si diffonde nella Mesopotamia settentrionale assumendo un aspetto tipico del nord, con centri principali a Tepe Gawra, Ninive, Arpachiya, Nuzi, Telul-eth-Thalathat, Tell Brak, Tell Mefesh; 'Ubaid inoltre influenza aree a cultura autonoma generandovi aspetti «simili ad 'Ubaid» (Anatolia sud-orientale, Siria settentrionale, aree di Sialk e di Hissar in Iran, penisola di Oman).
Al periodo tardo-'Ubaid segue nell'alluvio di bassa Mesopotamia la successiva fase detta di Uruk (antico-Uruk: 3500-3200, tardo-Uruk 3200-3000) durante la quale si porta a compimento il processo di urbanizzazione. Non c'è rottura tra tardo-'Ubaid e antico-Uruk, lo sviluppo tecnologico e organizzativo prosegue la stessa direttrice; ma una periodizzazione è consigliata sia dal mutamento del tipo ceramico distintivo (alla ceramica dipinta tardo-'Ubaid succedono tipi lustrati, sia grigi, sia rossi, tipici della fase Uruk), sia dagli ulteriori e importanti di un'economia e una direzione politica che vanno verso la centralizzazione come la comparsa di grandiosi complessi templari monumentali.
Il sito guida di questo periodo è ovviamento Uruk non solo perché è la località meglio nota archeologicamente, ma anche perché dovette essere realmente il sito egemone, a giudicare dalla sua estensione e dall'imponenza del suo quartiere cerimoniale e amministrativo. Uruk è uno dei più antichi centri urbani finora conosciuti nel Vicino Oriente e ci ha fornito la maggior parte delle nostre conoscenze sull'inizio della cultura urbana in Mesopotamia. Ad Uruk stata messa in luce la struttura socio-economica e politica di una città protosumerica e l'assetto del territorio intorno ad essa: le strutture templari monumentali contornate da edifici amministrativi è nello stesso tempo il risultato e la testimonianza di una grande potenza economica accompagnata da un'efficiente organizzazione amministrativa la cui complessità ha portato all'introduzione della scrittura, attestata dal ritrovamento delle più antiche tavolette iscritte conosciute, contenenti testi amministrativi.
Al periodo di Uruk segue il periodo di Gemdet Nasr (3000-2900) durante il quale si verifica un fenomeno di grande importanza storica, e cioè l'apparizione dei primi palazzi, il più celebre dei quali è ovviamente quello del sito eponimo di Gemdet Nasr, un edificio imponente e complesso, il cui carattere di centro amministrativo è documentato dalla presenza di archivi economici. L'identificazione dell'edificio in questione come palazzo ha dato luogo alle più fantasiose interpretazioni sui cambiamenti politici avvenuti proprio in questo periodo.
Il problema della gestione del potere nel mondo sumerico va considerato come uno dei temi centrali nello studio del Vicino Oriente Antico in generale e della Mesopotamia in particolare. Del resto le prime unità statali, formatesi in seguito alla nascita delle prime città, sono riscontrabili appunto nella bassa Mesopotamia. Gli studiosi hanno dedicato ampio spazio nelle loro ricerche a questo tema, ipotizzando vari modelli che sono ormai entrati nel bagaglio comune delle nostre conoscenze.
Partendo dai dati forniti dall'archeologia, ci si è convinti che all'inizio (Uruk IV) il potere fosse in mano alla sola classe sacerdotale che aveva la sua sede nel tempio. Solo nel periodo seguente (Uruk III-Gemdet Nasr), con la nascita del palazzo, avvennero degli importanti cambiamenti ai vertici dello Stato: e qui abbiamo essenzialmente due teorie. La prima sostiene che a partire dall'epoca di Gemdet Nasr non fu più il sommo sacerdote (l'en delle tavolette) a coordinare tutta la società bensì un laico, il re (lugal). La seconda teoria, che per il momento è quella maggiormente accettata, afferma invece che il potere temporale rappresentato dal palazzo si sarebbe semplicemente affiancato al potere religioso svolgendo le stesse funzioni di organizzazione e coordinamento e creando così dei conflitti tra queste due istituzioni.
Il meccanismo redistributivo su cui si fondano, come abbiamo visto, tempio e palazzo comporta delle forti esigenze amministrative, in quanto i beni da gestire e le persone da controllare diventano via via sempre più numerosi. E quindi occorre disporre di uno strumento preciso che consenta, in ogni momento, di sapere quanti sono i beni inviati al palazzo dalle comunità contadine e quante razioni alimentari sono state distribuite dai magazzini palatini e templari agli individui impegnati nel servizio dello stato, nonchè di gestire con sicurezza gli scambi commerciali. In altre parole il potere centrale ha bisogno di uno strumento che sia in grado di supplire alle inevitabili lacune della memoria: nasce e si sviluppa così, da queste necessità, la scrittura. Ma procediamo con ordine e cerchiamo di tracciare una storia evolutiva di quei fenomeni che hanno portato alla formazione del linguaggio scritto.
In un’area assai vasta che comprende non solo la Mesopotamia, ma anche l’Anatolia e la Siria Palestina, le ricerche archeologiche hanno messo in luce piccoli oggetti in argilla il cui significato è sfuggito a lungo. Di varia forma, tali oggetti – chiamati «contrassegni» o «gettoni» (in inglese tokens) – riproducono, a volte schematicamente, a volte più fedelmente, derrate alimentari, recipienti e animali (per lo più teste di ovini).
Si è supposto che questi contrassegni siano all’origine della scrittura, in particolare di quella cuneiforme. Si è infatti trovata un’interessante somiglianza tra la forma geometrica di questi tokens e i primi segni cuneiformi stilizzati che non sembrano avere un’origine pittografica (cioè che non rappresentano «fedelmente» l’oggetto a cui si riferiscono). Un esempio eclatante sembra essere quello del segno rotondo con una croce all’interno che, effettivamente, è identico al segno cuneiforme che significa «pecora».
Il processo di formazione della scrittura a partire da questi contrassegni viene ricostruito come segue. In un primo tempo, dovendosi effettuare scambi commerciali, in particolare tra comunità diverse, l’incaricato veniva munito dei simboli, eseguiti in argilla, della quantità e del tipo di merce da scambiare (tanti recipienti di derrate alimentari, tanti ovini, ecc…). I contrassegni dovevano servire verosimilmente per ricordare gli scambi da eseguire, ma anche, forse, come garanzia che gli scambi si svolgessero correttamente.
L’uso dei contrassegni sembra essere rimasto immutato per lunghissimo tempo (tra il IX millennio il 5000 a.C. circa). Poi, nell’ultima parte del IV millennio a.C., si ideò il sistema di chiudere gli oggettini in un involucro, una sorta di «busta» in argilla e di rappresentarne il contenuto sulla superficie, mediante impressione: l’immagine cioè dei contrassegni stessi. Divenne così possibile controllare il contenuto della «busta» senza bisogno di aprirla.
Le raffigurazioni sulle «buste» fornirono l’idea di sostituire al contrassegno la sua immagine. Le «buste» d’altra parte, fornirono il modello per il supporto scrittorio che prevalse in seguito, la tavoletta d’argilla. Ben presto, infatti, non troviamo più né contrassegni né «buste», ma l’immagine dei contrassegni viene stampigliata su tavolette in argilla accompagnata da un numero.
Ci si trova, quindi, di fronte ad una vera e propria scrittura, nella quale i segni, che chiamiamo pittogrammi, potevano però rappresentare solamente oggetti concreti, quindi furono adottati diversi espedienti per indicare concetti astratti.
Si usò, a questo scopo la combinazione di due raffigurazioni: ad esempio il segno per «bocca», accanto al segno per «cibo» indicava il verbo «mangiare». Il segno per «donna» unito a quello per il «paese straniero» indicava la «schiava» (una prigioniera di guerra). Un pittogramma serviva anche per indicare un’azione compiuta mediante un determinato oggetto (rappresentato appunto nel pittogramma), come ad esempio il segno «piede» indicava il verbo «andare, stare».
Tuttavia per esprimere tutte le possibilità lessicali e grammaticali della lingua occorsero sviluppi della rappresentazione in chiave prettamente fonetica. È infatti evidente che, con questi sistemi, non si potevano riprodurre i nomi propri, i nomi degli dei, di luogo e di corsi d’acqua oltre appunto agli elementi grammaticali ed astratti. In altre parole non si potevano rappresentare tutte le pronunce. In questo nuovo stadio della scrittura, si introducono nuovi segni e alcuni pittogrammi, in certi casi, vennero staccati dall’immagine riprodotta e usati per come si pronunciavano.
Si determina a questo punto una nuova categoria di segni: accanto a quelli che indicano una parola, essendone originariamente la raffigurazione o il simbolo (gli ideogrammi o logogrammi o pittogrammi) si aggiungono quelli che indicano un suono, corrispondente ad una sillaba (sillabogrammi). Questi ultimi vengono in genere usati per indicare elementi grammaticali, come suffissi o prefissi.e uniti insieme per formare una parola.
L’impiego di un procedimento di questo tipo è forse già testimoniato dai più antichi documenti noti che provengono soprattutto dallo strato IV di Warka, l’antica Uruk. Esso è comunque riconoscibile nei testi dello strato III della stessa Warka e del sito di Gemdet Nasr, che sono in lingua sumerica.
Uno stesso segno può essere adoperato per parole di diverso significato ma di suono uguale (dette omofoni) e può avere sia funzione logografica sia funzione sillabografica. È il caso, ad esempio, del segno che si legge «an», che può essere impiegato o come logogramma, con i valori di dingir «dio», an «cielo», An «il dio del cielo» oppure con valore sillabico «an».
Possiamo dire quindi che fu attuato applicando un principio simile a quello dei rebus: è come se, in italiano la raffigurazione di un «re» valesse per indicare un sovrano, ma anche la nota musicale «re»; per comporre le parole «re-mo» o «re-mora» (che potrebbe essere, sempre come in un rebus, rappresentata dalla rappresentazione del «re» e di una «mora»; infine per esprimere il prefisso iterativo «re-» (ad esempio in «re-legare», «re-spingere»).