Si fa coincidere convenzionalmente l'età classica con il periodo che va dalla battaglia di Maratona (490 a.C.) alla morte di Alessandro Magno (323 a.C.). Per tre volte vittoriosa sui Persiani - a Maratona, a Salamina, a Platea - Atene poteva a buon diritto sostenere di essere statua il baluardo della Grecia, e nessuno d'altronde glielo contestava. Dalla metà del V secolo a.C. si affermò come la città economicamente più prospera e politicamente più influente del mondo greco. All'egemonia politica si unì quella culturale. Atene si dimostrò capace di assimilare le esperienze dei centri confluiti nella nuova compagine (molti furono gli artisti ionici che, minacciati dai persiani, si rifugiarono ad Atene), per quali la cultura fu il principale elemento di coesione.
Paradossalmente le distruzioni arrecate dall'invasione persiana furono per l'arte ateniese un vantaggio. Nel 480 e 479 i persiani avevano devastato le campagne e ridotto in macerie gli edifici pubblici e privati dell'agorà e quelli sacri dell'Acropoli. Ma la città raccolse le forze per reagire. Perché restasse memoria perenne dell'invasione persiana, fu fatto divieto di ricostruire gli edifici sacri abbattuti, ma la proibizione fu revocata dopo la pace di Kallias del 449 a.C., che poneva fine alle guerre persiane sancendo la supremazia ateniese sul mare e in Asia, e si assisté a un vero boom edilizio. Chi esamini un elenco degli edifici costruiti in Atene e in Attica tra il 480 e il 430 a.C., rimane sorpreso del loro numero e della loro importanza. Se però si isolano quelli compresi tra il 450 e il 430, si resta sbalorditi non solo per l'imponenza e il numero, ma per la qualità della realizzazione. Le maestranze che, tra il 480 e il 450, avevano acquisito nuove e più approfondite tecnologie, tra il 450 e il 430 lavorano per squadre sottomettendosi a piani precisi e organici (come accade anche per il Partenone), così da articolarsi in un modo di produzione non solo impeccabile per quanto concerne i risultati, ma estremamente rapido, sostanzialmente poco costoso.
Tutto questo è, come afferma Plutarco, voluto da Pericle, l'abile stratega e il grande uomo politico sotto la cui guida Atene visse il momento di massima potenza e splendore della sua storia. Pericle iniziò con la ricostruzione degli edifici sacri dell'Acropoli, affidando la carica di epìscopos, potremmo dire di "sovrintendente", a Fidia (seconda metà del V secolo a.C.), che doveva dunque dirigere, coordinare i lavori degli architetti, degli scultori, dei pittori cui venivano commissionate le varie opere.
È difficile sapere quanto di ciò che è stato costruito spetti ai singoli autori e quanto invece alle idee di Fidia. È comunque molto probabile che egli abbia redatto ciò che oggi chiameremmo il piano regolatore generale.
La ricostruzione ebbe inizio con il Partenone (realizzato tra il 447 e il 438; 454), il tempio dedicato alla dea Atena Parthènos ("Atena vergine"), protettrice della città. Il Partenone è la sintesi delle esperienze architettoniche fin qui compiute: vi si realizza completamente l'ideale greco di equilibrata misura. é un tempio dorico, octastilo, 8 colonne per ciascuna fronte e 17 sui lati, periptero, ma, con mentalità attica, si attenua la pesantezza propria di quest'ordine, snellendo le colonne e diminuendo l'entasi. Si stabilisce un rapporto, che sarà caratteristico del periodo classico, fra il numero delle colonne frontonali e il numero delle laterali: queste il doppio più una rispetto a quelle. Il Partenone, trae il suo nome da una sala retrostante la cella detta il partenone, perché durante le feste panatenee, vi stavano le vergini (parthenoi) ateniesi incaricate di servire la dea. Questo ambiente aveva colonne ioniche. é uno dei primi esempi dell'unione dei due ordini: il dorico nelle parti più maestose, lo ionico in quelle più intime.
La cella aveva invece colonne doriche, ma un fregio continuo tipicamente ionico. Era divisa in tre navate (immensa quella centrale) e al centro sorgeva la statua di Atena, inquadrata da colonne sui lati e dai cassettoni del soffitto. Dietro l'opistodomos era un ambiente breve, coperto da un soffitto a cassettoni sostenuto da quattro colonne ioniche (secondo alcuni corinzie), destinato a contenere il tesoro della dea.
Tutte le misure su cui il progetto è stato eseguito sono impostate su calcoli raffinatissimi e su un sistema di proporzioni nuovo che conferisce al Partenone un aspetto non solo radicalmente diverso rispetto ai templi arcaici, ma anche una diversa maestà e dignità. Il rapporto di 9 a 4 regola le proporzioni dei lati maggiore e minore sul basamento, di altezza e larghezza fino al cornicione, di lunghezza e larghezza della cella: è un rapporto molto vicino alla cosiddetta sezione aurea che sarebbe appunto la relazione proporzionale ideale che regola le misure dell'altezza, della larghezza e della lunghezza.
Si è parlato a lungo, per quanto concerne il tempio, delle cosiddette "correzioni ottiche". Per "correzioni ottiche" si intendono quegli accorgimenti intesi a dare, otticamente, l'impressione di una assoluta perfezione geometrica di un edificio. Le colonne, ad esempio, sono dotate a circa un terzo dell'altezza totale di un rigonfiamento impercettibile, chiamato entasis, che serve appunto a correggere una delle cosiddette "aberrazioni marginali" dello sguardo. L'occhio tende infatti a leggere un'infilata di colonne perfettamente cilindriche come leggermente concave verso l'interno. L'entasis impedisce questo errore automatico dell'occhio, e le colonne vengono lette come cilindri appena rastremati, cioè più sottili, come sono, nella parte alta. Per un principio simile, sono corretti leggermente anche i fianchi e l'architravatura del tempio, che, pur essendo visualizzata come perfettamente diritta, è in realtà leggermente bombata. Si tratta di differenze di pochi centimetri su molti metri di lunghezza (lo stilobate misura 30,88 per 69,60 m), e la cosa interessante è che la loro mancanza verrebbe forse avvertita, mentre la loro presenza è invece assolutamente impercettibile.
Il Partenone, stando alle fonti, è opera degli architetti Ictino e Kallikrates, ma sembra che essi abbiano dovuto tenere in gran conto i consigli di Fidia, non solo in quanto direttore dei lavori, ma anche perché la decorazione scultorea, di cui egli è considerato l'"autore", assumeva una rilevanza notevole.
Di Fidia sappiamo con sicurezza che fu autore delle statue di Zeus nel Tempio di Olimpia, di Athena Promachos e di Athena Lemnia sull'acropoli di Atene, di Athena Parthenos nella cella del Partenone.
Forse però la prima opera ateniese di Fidia fu una statua votiva ad Apollo parnopios (per avere evitato un'invasione di cavallette), posta sull'Acropoli attorno al 460 a.C. Di essa si conserva una copia romana nel Museo di Kassel (f 41). La theopania del dio, dalle spalle immense, è immediata e perentoria. La sua potenza, convince il flagello ad allontanarsi con il solo apparire. Gli occhi profondi, le labbra pesanti, il mento potente manifestano un'espressione di riserbo, ma anche una fredda determinazione. L'originale era in bronzo.
L'Athena Lemnia (f 39, 40) fu creata da Fidia nel 450 per i coloni ateniesi a Lemno. Alta circa due metri, le fonti la ricordano per la sua bellezza e il commovente senso di riservatezza. “La più bella statua di Fidia”, così veniva definita dal generale spartano Pausania. Della statua abbiamo una copia romana, ricostruita dal Furtwaengler, che congiunse la testa Palagi del Museo di Bologna con un torso del Museo di Dresda. La dea, stante, teneva l'elmo nella destra ed era poggiata sulla lancia con la sinistra. I capelli, pesanti, raccolti sulla nuca, erano trattenuti da una benda. Dalla testa Palagi, copia di rara bellezza, possiamo apprezzarne il profondo senso di umanità che Fidia aveva trasferito alla dea. La testa è ripiegata profondamente sulla spalla destra: Atena è pensierosa, ha rinunciato al suo scudo, alla sua indole di guerriera ed è ormai assolutamente umana (ricostruzione completa).
Ma la fama di Fidia era affidata soprattutto alla statua di Zeus, che gli antichi ritenevano una delle sette meraviglie del mondo, e all'Athena Parthenos: entrambe crisoelefantine, ossia d'oro nelle vesti e d'avorio nelle parti nude. Dello Zeus le uniche documentazioni esistenti consistono in monete romane e gemme incise; dell'Athena Parthenos possediamo invece molte copie in marmo di diverse dimensioni (458) e delle piccole riproduzioni su gemme e monete oltre ai rilievi marmorei con particolari dello scudo. Di quest'ultima statua è stato quindi possibile realizzare una ricostruzione abbastanza attendibile (f 46). La dea era rappresentata in piedi, in atto di riposo, vestita con il peplo, il petto coperto dall'egida con il gorgoneion. Sulla mano destra, sostenuta da una colonnetta, teneva una Vittoria alata, discendente verso gli uomini. La lancia era appoggiata alla spalla sinistra, mentre la mano corrispondente teneva lo scudo posato in terra, dal cui interno spuntava il serpente (simbolo di Erittonio). La base, i sandali, la veste, lo scudo (decorato, come risulta dai rilievi marmorei, con episodi dell'Amazzonomachia), l'elmo, erano tutti riccamente ornati. La statua originale doveva essere alta circa 9 m.
Mediante queste sculture e le descrizioni degli antichi scrittori, è possibile ricostruire quello che fu lo stile di Fidia: gesti composti, espressione serena e una certa maestosità di concezione ne sono le principali caratteristiche, cui si deve aggiungere, a quanto pare, la precisione tecnica.
Ma per giudicare la personalità di Fidia, più direttamente da vicino, possiamo analizzare le sculture del Partenone (gli unici originali), che possiamo attribuire a lui (pur senza testimonianze dirette) perché episcopos dell'Acropoli e particolarmente del Partenone, perché autore della statua della dea all'interno del tempio, per l'unità concettuale e la consequenzialità logica che lega le sculture al complesso architettonico e per il loro altissimo valore artistico.
Quando si dice che Fidia è autore della decorazione partenonica non dobbiamo però intendere che egli abbia personalmente eseguito ogni statua, ogni rilievo, ogni particolare. Anzi un attento esame rivela l'intervento di molti marmorari, ciascuno con differenti caratteristiche esecutive. Ma tutti questi interventi sono coordinati, tutti esprimono un disegno unitario che non può essere stato pensato che da una sola mente.
Per rendersene conto è necessario analizzare i temi trattati nel Partenone e i loro significati concettuali e stilistici.
Il ciclo di sculture del Partenone costituisce il maggior complesso di età classica. L'edificio era decorato da 92 metope, da un fregio lungo 160 metri che girava attorno alla cella, da due frontoni che contenevano figure colossali.
Questo immenso patrimonio fu danneggiato in epoche diverse. Il primo danno si ebbe quando l'edificio fu trasformato in chiesa dedicata alla Vergine. Ma il danno maggiore si ebbe nel 1678: il tempio, trasformato in polveriera dai turchi, fu fatto saltare dai bombardamenti dell'esercito veneziano guidato dal doge Francesco Morosini. La spoliazione culminò quando Lord Elgin, dal 1801, asportò quanto possibile delle sculture e dei frammenti architettonici (non solo del Partenone ma di tutti gli edifici dell'Acropoli).
Le sculture del Partenone furono eseguite tutte in marmo pentelico. Esse erano arricchite da bronzo, probabilmente dorato; erano certamente dipinte. Tracce di colore, rosso e blu, sono state notate in diversi punti. Si può affermare che il fondo delle metope era campito di rosso e di blu, che il fondo del fregio era blu.
Le metope (455) sono 14 sui lati brevi, 32 su quelli lunghi, approssimativamente quadrate. In tutte un destino implacabile di guerra: esse formano un ciclo che si articola in quattro avvenimenti (uno per ciascuno dei lati).
Sul lato occidentale una amazzonomachia: probabilmente nel mito, gli Ateniesi riconoscevano le imprese contro i Persiani. Non a caso il ciclo è il primo che appariva a chi, valicati i Propilei, si trovava sull'Acropoli.
Sul lato settentrionale è invece rappresentato il ciclo dell'Ilioupersis, ovvero la guerra tra greci e troiani, fra Occidente e Oriente: e anche in essa forse si adombra la recente lotta con i persiani. Da un lato la civiltà (i greci in generale e Atene in particolare), dall'altro lato la barbarie (i troiani prima, i persiani ora): gli dei assistevano alla lotta. Di questo ciclo solo la trentaduesima metopa (32 Nord) è in buono stato di conservazione. La scena, probabilmente Iris ed Hera, fu interpretata come un'annunciazione quando l'edificio fu trasformato in chiesa. Interessanti i drappeggi delle due figure femminili, i più vari e vividi mai stati inventati: drappeggi più rigidi e metallici nella figura stante, drappeggi che cadono in cascate di pieghe nella donna seduta.
Sul lato orientale una gigantomachia, la lotta dei giganti che, presumendo di essere superiori agli dei, tentarono di sostituirsi ad essi, dando la scalata dell'Olimpo e restando inesorabilmente sconfitti. Le sculture sono in un pessimo stato di conservazione.
Sul lato meridionale è invece una centauromachia, la lotta tra i Centauri (i mitici esseri per metà uomini e per metà cavalli) e i Lapiti, dei quali essi tentarono di rapire le donne, rimanendo sconfitti per l'intervento di Apollo, con il significato della lotta fra la ragione e l'istinto, fra l'uomo e la bestia e il ribaltamento dell'ordine e della giustizia secondo la volontà degli dei. Le metope di questo ciclo sono conservate meglio di quanto non lo siano le altre. I lapiti sono giovani, nudi o vestiti della sola clamide; solo in due casi si difendono con scudi. I centauri sono adulti, nudi o coperti da un mantello. Per quattro volte i centauri sono raffigurati mentre rapiscono le lapitesse. Il corpo a corpo è senza risparmio, l'esito sempre incerto. Quando la vittoria sembra essere completa, essa è dei lapiti. La metopa Sud 2 ci offre un drammatico esempio di concentrazione. Le due figure sono sovrapposte, il centauro abbattuto sotto il duro ginocchio del lapita, il gruppo impostato a triangolo con la punta in alto e impostato sul tema dello schiacciamento. Nella Sud 27 al contrario tutto è impostato su un movimento più ampio (reso tale anche dal largo mantello del lapita), con il centauro afferrato per i capelli.
Le 92 metope costituiscono il fregio tradizionale dell'ordine dorico. Nel Partenone c'è pero un altro fregio, continuo e quindi di origine ionica. Esso avvolge completamente la cella dell'edificio come un immenso rotolo figurato: è alto un metro e lungo 160. Vi è raffigurata la processione delle feste panatenee, durante la quale tutti i cittadini salivano in corteo all'Acropoli recando alla dea offerte sacrificali e il peplo tessuto dalle fanciulle ateniesi: il ringraziamento della città ad Athena.
L'inizio delle scene è nell'angolo sud-occidentale. Il fregio occidentale è composto da 30 figure: un uomo sembra dirigere e ordinare un corteo di cavalieri. Questi si preparano per il corteo muovendo verso il lato settentrionale (f 123). I giovani, coperti da un mantello, più raramente dalla veste o dall'armatura, il capo nudo o coperto dall'elmo, già cavalcano, o si apprestano a cavalcare o frenano i cavalli impetuosi.
La cavalcata si fa più densa nel lato settentrionale, diretta verso est. I cavalieri sono preceduti da carri. Seguono gli anziani, i musici che suonano cetre e flauti, i portatori di hydriai (456 a), coloro che recano i vassoi con le offerte, coloro che guidano le pecore e i vitelli al sacrificio (f 124).
Sul fregio meridionale, 128 figure muovono verso est. I cavalieri occupano le prime lastre (456 b). I carri quelle successive. Seguono gli anziani, i portatori di vassoi, coloro che guidano i vitelli al sacrificio.
Le processioni confluivano nel fregio orientale, dove sono raffigurate in gran parte figure di dei che assistono alla processione. Alcuni di questi si rivolgevano alla processione proveniente da nord (456 c), altri a quella proveniente da sud (f 122).
Pur nell'affollarsi di molte centinaia di figure le iconografie sono sempre varie, la complementarietà dei protagonisti assoluta: tutte queste figure si relazionano fra loro, l'una dopo l'altra, ciascuna compiuta (come un vocabolo che ha un suo contenuto espressivo), ma al tempo stesso inscindibile dalla vicina e questa dalla successiva (come una proposizione), tenendo sempre presente l'unità dell'intera composizione (coma un discorso unico).
I 160 metri della narrazione sono sicuramente stati lavorati da maestranze diverse, da decine di scultori. Ma tutto il complesso obbedisce a un disegno unitario, a un ordine logico ben preciso: quindi un solo maestro, quello stesso delle metope, ha ideato l'intero fregio: Fidia.
L'esperienza delle officine che avevano prodotto le metope e il fregio confluisce nella realizzazione dei due enormi frontoni, che sono le opere più recenti.
Il primo fu quello orientale (f 48). In onore della dea cui l'edificio era dedicato fu rappresentata la nascita di Athena. Purtroppo l'insieme ebbe molto a soffrire già quando l'edificio fu trasformato in chiesa. Comunque è possibile ricostruire, sia pure a grandi linee, le figure principali.
Nell'angolo a sinistra Helios, trainato dai suoi cavalli, sorge dal profondo del mare; nell'angolo destro Selene e la sua quadriga scendono entro di esso. Gli dei assistono al portento.
Dioniso (f 49 a), nudo, è sdraiato sul proprio mantello e si rivolge verso il sorgere del sole. Seguono, sedute, Kore e Demetra e a loro si avvicina, quasi tempestosa, ad annunciare l'avvenimento, Artemis (f 49 b). Seguivano altre divinità: prima della metà del frontone, stante, Hera. Al centro Zeus seduto, dal capo del quale usciva Athena armata. All'inizio del secondo spiovente forse Efesto, del quale rimane parte del torso, che con la scura apriva la testa di Zeus. Seguivano altre divinità e da ultime Hestia e Dione che raccoglieva in grembo Afrodite sdraiata (f 49 c) che quindi volgeva le spalle all'avvenimento.
Analizzando queste ultime tre figure si nota come Fidia abbia risolto in maniera straordinariamente efficiente la forma triangolare del frontone. Afrodite, semi sdraiata, rivolge i piedi verso l'angolo inferiore, ma il corpo, via via che si sale, tende a volgersi lentamente in avanti e il busto è già di tre quarti. Dalla posizione del gomito, appoggiato sulle ginocchia di Dione che le è seduta accanto, dipende l'obliquità delle gambe di questa, il torso della quale è tuttavia ancor più tendente alla frontalità; cui giunge finalmente la terza dea, Hestia, ma solo nella parte superiore del corpo, perché la gamba sinistra riprende la direzione appena lasciata dall'altra statua, mentre la gamba destra si divarica e, col ginocchio sporgente, tende a iniziare il moto verso il lato opposto, preparando, presumibilmente, la posa di una quarta divinità. In un movimento lento e continuo si passa dunque, senza scarti, senza forzature, dalla posa di profilo a quella di prospetto. Anche la linea che contorna superiormente le tre figure, e che le faceva risaltare sul piano di fondo, sale progressivamente, ma variatamente, quasi ad ondate successive. Tutto ciò permette, per il movimento continuo dei piani, una straordinaria ricchezza di tonalità luministiche. Per questo anche i panneggi ricadono in molteplici pieghe (non monotamente parallele), così da creare zone d'ombra, di penombra e di luce. Ciò che abbiamo detto per queste tre dee, potremmo ripeterlo per le altre statue dei frontoni, non perché queste siano uguali a quelle, anzi proprio nel senso della varietà nell'unità.
L'alternanza di figure in movimento e stanti, la scelta dell'attesa del prodigio cui partecipano tanti protagonisti, è uno degli spunti più felici del frontone orientale.
Ancora più complessa - e più completa - è la realizzazione del frontone occidentale. Il mito è quello della gara tra Athena e Poseidon per il possesso dell'Attica: la gara sarebbe stata vinta da chi avesse prodotto la cosa più utile all'umanità. Poseidon donò il cavallo e con un colpo di tridente fece scaturire una fontana; Atena diede l'ulivo. Ad essa fu concessa la vittoria. All'avvenimento partecipano divinità, ma soprattutto gli eroi antichi della città e della regione. Da sinistra un eroe sdraiato. Seguono (dopo un intervallo) Kekrops seduto, vestito solo nella parte inferiore del corpo, magro e adusto, al quale si appoggiava teneramente la figli. Seguivano gli altri figli di Kekrops. Nike attende la vittoria della dea prediletta. Hermes serve da auriga mentre Athene scesa da una biga (i cavalli si inalberano) dono l'olivo ad Atene. Poseidon, sceso da cavallo, fa scaturire una sorgente d'acqua salmastra col tridente. Iris accorre verso di lui, quasi a frenare il suo destriero, a dimostrare la presenza delle forze della natura. Seguono Amphitrite, su un mostro marino, e altri eroi attici tra cui Erechtheus.
I frontoni ripropongono i problemi delle metope e del fregio. Essi debbono essere attribuiti al genio prepotente di un'unica personalità, che a volte, come nel caso del torso di Iris, doveva intervenire direttamente.
È possibile che Fidia, ricevuto l'incarico da Pericle, abbia presentato un progetto di massima e poi un esecutivo per tutte le sculture. Probabilmente egli eseguì in scala minore i bozzetti di tutta la partitura decorativa dell'edificio. Ma accanto ai bozzetti, in scala ridotta, egli dové presentare modelli al vero di qualcuna delle metope, di parte del fregio, di qualche figura dei frontoni. Una volta approvati i bozzetti e i modelli egli si preoccupò della loro realizzazione. Le officine di scultori di Atene furono, in gran parte, assorbite dall'ordinativo per il Partenone. Con ogni probabilità esse si trasferirono nella stessa Acropoli e Fidia, forniti i bozzetti e alcuni modelli, si sarà preoccupato di seguire, momento per momento, l'esecuzione dei lavori. Se all'inizio, nel realizzare le metope, le officine hanno avuto ancora quel margine di libertà che veniva dal rifarsi alla propria tradizione di bottega, ben presto lo spirito delle botteghe si amalgamò in modo tale da permettere la realizzazione di opere caratterizzate da stesse esigenze formali. Nel fregio l'unità di tutte le botteghe è pienamente realizzata. Dunque la personalità di Fidia è la prima di un artista da interpretare in senso moderno. La sua cretività obbliga a flettere alle proprie esigenze intere botteghe artigiane. Attraverso questa operazione egli lasciò una impronta non solo in tutte le botteghe di scultori della sua epoca, ma su tutto il futuro di Atene. Questo può spiegare perché, quando le botteghe, alla fine dei lavori del Partenone, riprenderanno a lavorare sia per commissioni pubbliche che private, lo stile fidiaco avrà permeato la produzione ateniese così da renderla sostanzialmente uniforme almeno sino alla fine del secolo.
Un altro importante scultore della stessa epoca di Fidia, fu Policleto di Argo che, sebbene abile realizzatore di simulacri, tra cui quello crisoelefantino di Era per il tempio della sua città, era soprattutto scultore di statue di atleti. Purtroppo non possediamo nessuna sua opera. Abbiamo solo molte copie a dimostrazione della grande notorietà di cui ha sempre goduto. Ma l'opera d'arte è irriproducibile, in quanto espressione di un certo momento creativo non più ripetibile, come non lo é nessun momento della nostra vita. Lo stesso artista, se volesse copiare se stesso, non vi riuscirebbe, o meglio farebbe un'opera simile per atteggiamento alla prima, non uguale. La copia può indicarci soltanto i problemi che l'autore ha affrontato, può farci conoscere la composizione nei suoi elementi essenziali, non può restituirci il valore artistico. Certo, quando manca l'originale, è utile anche la copia, per accostarci, almeno superficialmente, all'iconografia dell'opera quale era.
Premesso questo, possiamo dire che attorno al 450 Policleto creò il suo capolavoro: il Doriphoros (= portatore di lancia) di cui si conservano numerose copie, una delle quali è al Museo di Napoli (466).
Il Doriforo di Policleto era stata la creazione statuaria che risolse il problema centrale dell'arte greca, nel passaggio dall'età arcaica a quella classica: quello, cioè, di rappresentare la figura virile ignuda e stante, ben proporzionata, ferma ovvero non impegnata in una azione precisa, ma tale da esprimere la sensazione del movimento. Nel periodo arcaico il kouros (cioè la statua virile ignuda) o la kore (suo omologo femminile) non rappresentavano un determinato personaggio, né una divinità, ma erano semplicemente astratte immagini, creazioni di bellezza, agàlmata, cioè "cose lucenti", belle. Tra la fine del VI e la metà del V secolo a.C. , il problema fu di non uscire da questo tipo di figura, ma di darle la possibilità del movimento. Questa ricerca dura per tre generazioni e trova la soluzione con Policleto, soluzione che rimane, poi, fissa e canonica per tutto lo svolgimento dell'arte antica. E il Doriforo è la manifestazione più eloquente di questa soluzione, tant'è che i contemporanei lo ritenevano talmente emblematico da chiamarlo il Kànon, cioè la più completa dimostrazione visiva di ciò che l'autore aveva scritto in un suo trattato, intitolato appunto Kànon ("canone", "regola") , purtroppo perduto.
La figura, non più rigidamente sostenuta egualmente dalle due gambe, si appoggia su una sola, la destra, detta "portante" o "tesa", mentre la sinistra, detta "flessa" o "libera", leggermente arretrata, bilancia il corpo, posando in terra, senza compiere sforzo, solo le dita del piede. Da questa posizione naturale di riposo nasce una diversa articolazione delle parti superiori del corpo: il bacino è inclinato scendendo verso la gamba flessa; anche la linea delle spalle è inclinata ma in direzione opposta; il braccio destro è libero mentre è portante quello sinistro sorreggendo la lancia; la testa si piega un poco da un lato, e il collo, come conseguenza dell'inclinazione delle spalle, è piegato dall'altro lato. C'è dunque una serie di relazioni, la più evidente delle quali è quella inversa, delle gambe e delle braccia: la gamba destra è portante come il braccio sinistro che teneva la lancia; la gamba sinistra è in riposo come il braccio destro. Questa corrispondenza dà ordine, ma, poiché inversa (detta perciò chiasma o chiasmo, "incrocio" dalla forma della lettera greca c, chi), dà anche varietà.
L'equilibrio raggiunto da Policleto, detto ponderazione, è un equilibrio stabile, ottenuto con un gioco sapiente di rapporti; perciò immutabile: cambiare la posizione, anche di una sola delle parti del corpo, significherebbe cambiare, contemporaneamente, tutte le altre, fino a raggiungere un nuovo equilibrio. Questa statua rappresenta l'ideale greco di coerenza razionale, di rapporto reciproco fra le varie parti e fra queste e il tutto, ossia l'ideale di perfetta proporzionalità.
Cosa significhi questo lo esprime con molta chiarezza il medico Galeno (II secolo d.C.), secondo il quale la bellezza consiste "nell'armonica proporzione delle parti, di un dito rispetto all'altro, di tutte le dita rispetto alla mano, del resto della mano rispetto all'intero braccio, infine di tutte le parti a tutte le altre, come è scritto nel Canone di Policleto".
Questi aveva infatti stabilito quali misure dovesse avere ogni parte in relazione alle altre (f 106). La testa è un ottavo dell'intera altezza; il busto, dal pube al collo, è tre ottavi; tre ottavi è anche la larghezza massima e così via. Possiamo comprendere meglio adesso ciò che dobbiamo intendere per idealizzazione greca. Poiché ogni uomo ha misure diverse da quelle di ogni altro e nessuno può stabilire quale sia quella giusta, per raggiungere l'ideale bisognerà stabilire una media fra le molteplici misure che ogni individuo presenta: ognuno di noi è un "uomo" con tutte le sue caratteristiche precipue, ma ognuno di noi è destinato a trasformarsi continuamente e infine a scomparire, eppure l'"idea" di uomo è eterna, immutabile, perfetta. L'artista greco osserva la realtà come gli appare, ma ne rende non l'apparenza che si presenta davanti ai suoi occhi, bensì l'"essere" eterno.
Attorno al 430 Policleto crea la sua opera più complessa: il diadoumenos (470), un atleta che si benda le chiome, dopo la vittoria (oppure un Apollo - meno convincente l'identificazione con Paride - che si benda i capelli prima di saettare con l'arco).
Rispetto al doriphoros, molto è cambiato nel diadoumenos: le braccia sono discoste dal corpo, il torso più ampio, il modellato meno tagliente e più ricco di sfumature. E la bella testa inclinata dai riccioli gonfi, la cui massa è posta in valore dalla larga benda serrata intorno al capo, si sviluppa in maniera assai più libera di quanto si abbia nella chioma severamente cesellata del doriphoros.
Secondo la testimonianza di Plinio, diversi artisti, Fidia, Policleto, Kresilas, Kydon e Phradmon parteciparono ad una gara per la rappresentazione di un'amazzone ferita destinata all'Artemision di Efeso; gli scultori stessi dovevano decretare a quale delle loro opera si doveva assegnare la palma della vittoria, palma che toccò alla statua che "ciascun artista giudicò essere seconda soltanto alla propria", cioè a quella di Policleto. La statua di Fidia fu la seconda, quella di Kresilas la terza, quella di Kydon la quarta e quella di Phradmon la quinta.
Circa l'attribuzione delle copie esistenti ai diversi artisti sono sorte vivaci discussioni: l'assegnazione a fidia dell'amazzone riaffiorata dagli scavi di Villa Adriana (461), è resta verosimile dalla stretta corrispondenza con una gemma sulla quale è incisa un'amazzone che serra una lancia con entrambe le mani, di cui destra sollevata al di sopra del capo, e dalla testimonianza di Luciano (Immagini 4): "- Quale delle opere di Fidia apprezzi maggiormente? - Quella dell'amazzone che si appoggia alla lancia". Potrebbe invece rifarsi all'amazzone policletea la copia del Museo di Berlino (462), per la sua composta armonia e la sua impostazione simile a quella del doriforo. L'esemplare capitolino (463) è riconducibile all'amazzone di Kresilas, che Plinio definì particolarmente come "volneratam", poiché in questo tipo di amazzone, la ferita sembra essere la nota dominante. Il quarto e il quinto tipo, rispettivamente rappresentati dalle copie di Villa Doria Pamphily (464) e di Efeso (465), potrebbero riferirsi alle statue di Phradmon e di Kydon.
A Policleto, a Mirone, ad Alkamènes, a Onatas, a Fidia sono state attribuite le due statue, dette i Bronzi di Riace. Ma le attribuzioni, non suffragate ancora da studi approfonditi condotti con cura scientifica, sono state suggerite, probabilmente, dall'alto valore artistico delle figure, due fra i pochi bronzi greci pervenuti all'età moderna
Sono due guerrieri (contraddistinti dalle lettere A e B; f 37,) nudi e stanti, bilanciati e ponderati come il doriforo di Policleto, ambedue poggiati sulla gamba destra, il braccio sinistro sollevato a sostenere lo scudo (oggi scomparso), gli altri arti in riposo con disposizione chiastica. Mentre il doriforo accenna a un lieve movimento in avanti sollevando la parte posteriore del piede sinistro, qui i due piedi sono egualmente posati al suolo e conferiscono saldezza all'intera figura. E, soprattutto, rispetto al doriforo c'è un maggiore stacco delle masse muscolari e dei tendini, una maggiore vivezza, una maggiore vigoria, che denunciano chiaramente la grande differenza di livello artistico che intercorre fra un originale greco e una copia marmorea di età romana.
I passaggi sono netti, così che le strutture si definiscono, come se fossero contornate da una nitida linea. Questa linea ideale, accentuata dallo stacco cromatico del bronzo, analogamente a quella delle coeve ceramografie basate sulla contrapposizione del rosso e del nero, le distingue dall'ambiente circostante, le individua, dà loro un senso di idealità perfetta, pur nella cura con cui sono resi gli elementi reali del corpo umano. Anzi, per una maggiore somiglianza ai colori naturali, le labbra e i capezzoli sono di rame, i denti della statua A e le ciglia di entrambe sono d'argento, gli occhi d'avorio e di paste vitree. Ma basta il bronzo a togliere ogni apparenza di verismo. L'arte greca non astrae mai dalla realtà, ma da essa cerca di risalire all'idea unica.
Cronologicamente, i bronzi sembrano appartenere all'ultimo stile severo, e forse precedono il doriforo. Il fatto che in essi vi siano elementi caratteristici di Policleto (la ponderazione e il chiasma) non toglie nulla all'importanza di quest'ultimo. Questi elementi si erano venuti formando e maturando nel corso dello "stile severo", come si è visto; si deve a Policleto il merito di averli studiati, canonizzati e trasmessi agli altri.
Resta aperto l'interrogativo sulla paternità dei due guerrieri; allo stato attuale è impossibile dare una risposta: meglio, come in altri casi, chiamare provvisoriamente questo grande scultore del V secolo come Maestro dei Bronzi di Riace.
Nato a Creta, a Kydonia, attorno al 480, forse da famiglia originaria di Egina, si trasferì probabilmente ad Argo attorno al 460. Attorno al 450, ricco delle esperienze fatte nel Peloponneso e a Delfi, si trasferì ad Atene; nella città erano le sue opere migliori. Doveva essere scultore ben noto se alcune sue creazioni erano sull'Acropoli. Fu, almeno prevalentemente, bronzista.
Probabilmente la prima creazione nota rappresentava un guerriero ferito durante la spedizione ateniese in Egitto (identificato in un protagonista del mito: il primo greco caduto nella guerra di Troia, Protesilaos; 480).
La figura è conservata attraverso repliche. Essa mostra un guerriero, il capo coperto da un elmo rialzato sulla fronte, una clamide sulla spalla sinistra, in atto di scagliarsi contro il nemico. Presenta proporzioni allungate, vivacissimo movimento. 450 a.C.
Vicino il ritratto di Pericle (473): l'elmo sollevato sulla fronte, il ritmo raffinato del volto.440-430 a.C.
Ci sono giunte, in copie romane, molte opere notevoli di cui non è possibile una attribuzione specifica; tuttavia alcune di queste sono confrontabili a coppia e quindi attribuibili ad uno stesso maestro.
Tra queste abbiamo la statua di Hermes (478) e la statua di Ares (479), entrambe provenienti da Villa Adriana. L'impostazione delle statue è sostanzialmente analoga, così come lo è la resa dei peli del pube. Tuttavia il nudo di Hermes è più largo e quieto, mentre quello di Ares è più stretto e più teso. Si potrebbe anche dire che Ares non solo è più atletico, ma più giovane del compagno. Giovinezza che si avverte anche nel volto innocente dai grandi occhi ombreggiati da spesse palpebre. 450 a.C.
Agli inizi del V secolo, di fronte al grande pericolo persiano, le città greche avevano trovato un momento di coesione, riuscendo vincitrici contro un nemico numericamente superiore. Dalle guerre persiane Atene uscì dominatrice di tutta la Grecia sul piano politico e culturale.
Ma la fede nella superiorità ateniese si rivelò presto un'utopia. Nel 431 a.C. ebbe inizio la guerra del Peloponneso che vide opposte Sparta e Atene e che, con qualche pausa, durerà quasi trent'anni, fino al 404, concludendosi con la sconfitta di Atene. Nel 429 Pericle, i suoi figli e molti cittadini ateniesi muorirono a causa della peste che colpì la città, entro le cui mura erano ammassati, per sfuggire alla guerra, gli abitanti dell'Attica. Nel 403, terminato il conflitto, trenta aristocratici, noti col nome di Trenta Tiranni, si impadronirono del governo ateniese, cercando di sopprimere la democrazia, con repressioni feroci, di cui furono prova le 3000 condanne a morte pronunciate da essi nei soli tre mesi del loro dominio. Nel secolo successivo la Grecia continuò a essere dilaniata da guerre fratricide finché, nel 338, con la totale disfatta a Cheronèa degli ateniesi e dei loro alleati tebani, Filippo, re di Macedonia, impose ai greci un'alleanza, la "lega di Corinto", che è, in realtà, non tanto un'unione di greci, quanto la fine della loro libertà e l'inizio della loro sottomissione alla Macedonia.
Fu dunque un lungo periodo di drammatica decadenza. Fu un periodo che vide brutalmente contraddetti i valori nei quali si era creduto.
Per tutto il VI secolo e nella prima metà del V, l'arte greca fu tesa alla ricerca dell'assoluto, dell'uomo ideale nella perfezione delle sue proporzioni, fino a che Fidia, nell'età di Pericle, trovò il punto d'incontro tra umano e divino, esprimendo nella misura il significato della superiorità della ragione. IV secolo l'attenzione dell'artista si spostò piuttosto sull'uomo e sul suo ambiente, dopo che già nel V il sofista Protagora aveva sostenuto l'impossibilità di parlare degli dei e dell'Essere: l'uomo, in quanto tale, non può conoscere che se stesso. Per questa ragione gli scultori del IV secolo disposero liberamene la figura nello spazio, quello spazio che è luogo indispensabile per la vita: non più l'immobilità, espressione del divino, ma la mobilità, espressione dell'umano.
Skopas (prima metà del IV secolo a.C.), originario dell'isola di Paro, attivo nel Peloponneso, in Asia Minore e, soprattutto in Attica, risente, come gli altri artisti, del momento di crisi del mondo greco e quindi interpreta il dramma dell'uomo. Poco ci è giunto di lui. Sappiamo che operò in marmo, salvo l'eccezione di una statua in bronzo, e, raffigurando dei, scelse quelli più vicini aisentimenti umani: Afrodite, la dea dell'amore, Dioniso, il dio dell'ebbrezza, dello slancio vitale.
Fra le opere giovanili conosciamo alcuni frammenti dei frontoni del tempio di Atena a Tegea in Arcadia che, distrutto da un incendio nel 395, fu, secondo Pausania, ricostruito e decorato da Skopas.
Malgrado i danni, è possibile nelle teste dei guerrieri (488), riconoscere i caratteri fondamentali della sua arte: la fronte convessa, alla quale si oppone la profondità dell'orbita con il grande occhio spalancato ad osservare la realtà, le guance e la bocca tese. Ne consegue un drammatico contrasto fra le parti aggettanti, luminose, e quelle rientranti, in ombra. Secondo quarto del IV secolo.
Attribuito a Skopas è il cosiddetto Herakles Lansdowe (489). La figura rappresenta l'eroe giovane, nudo, fermo sulla gamba sinistra con la clava e la leontè. Il torso ha struttura ampia, la superficie è morbida. Il volto ha occhi incavati e riccioli mossi. 360 a.C.
Forse attorno al 330 è databile la menade «danzante» (f 131). Il corpo, perso l'equilibrio ponderato, si articola in due direttrici divergenti: l'obliqua salente dalla gamba alla vita e quella del busto e della testa. Questa, anzi, si volge violentemente, accentuando la motilità della figura. Il movimento è improvviso: attraverso la violenza del moto, attraverso la velocità dello scatto, l'uomo conquista il suo ambiente. Qui Skopas anticipa temi ellenistici.
Diversa è la concezione dell'ateniese Prassitele (attivo prima e dopo la metà del IV secolo a.C.). Anch'egli, come Skopas, sceglie per le sue statue gli dei più vicini ai nostri sentimenti e li rappresenta in un atteggiamento umano, inserendoli nello spazio. Ma l'inserimento avviene dolcemente, gradualmente.
Nel gruppo con Hermes e Dioniso bambino (metà del IV secolo; 491) la scelta tematica è coerente con la concezione del IV secolo; Prassitele rappresenta un dio, ma un dio nell'atteggiamento umano di un padre, o di un fratello maggiore, che gioca scherzosamente con un bambino. Per sostenere il piccolo col braccio sinistro, rompendo la tradizionale ponderazione policletea, si sbilancia su un lato, appoggiandosi, per recuperare l'equilibrio, su un tronco e assumendo una posa ondulata, mediante la quale si muove entro lo spazio; anzi "vive" entro lo spazio che, a sua volta, è parte integrante e inalienabile della composizione. Se poi consideriamo che con la mano destra teneva un grappolo d'uva verso il quale il piccolo Dioniso tende il braccio, ci rendiamo conto di un'altra novità: anche anteriormente lo spazio, compreso fra il petto e le braccia sporte in avanti, partecipa alla vita della struttura scultorea. La superficie marmorea, coerentemente con il dolce movimento di tutto il corpo, è trattata con delicate sfumature, con tenui trapassi chiaroscurali. La tenera levigatezza del nudo risalta ancora più evidente con le ampie pieghe panneggiate della clamide, gettata con negligenza sul tronco.
Ed è, questa, una caratteristica prassitelica, come dimostra l'analoga soluzione dell'Afrodite di Cnido (490), così come è caratteristico dell'epoca l'uso dell'appoggio laterale per ristabilire l'equilibrio. Nell'Afrodite (350 a.C.), la dea sta per entrare in acqua, lascia la vesta su un hydria di bronzo, copre appena il pube con un riserbo che accresce lo splendore del gran corpo femminile. La flessuosità del nudo, la pensosità del volto, il guardare trasognato, fanno di questa scultura il capolavoro di Prassitele.
Lisippo (circa 370-300 a.C.), di Sicione nel Peloponneso, è il terzo dei grandi scultori del IV secolo. La sua attività coincide con il dominio macedone sulla Grecia: anzi egli è stato lo scultore di Alessandro Magno che volle essere ritratto in scultura solo da lui. Con Lisippo si chiude l'età classica e si pongono le premesse indispensabili per lo sviluppo della successiva età ellenistica.
A differenza di Prassitele, predilige il corpo maschile, che dispone in movimento, e preferisce il bronzo al marmo. Delle 1500 statue che avrebbe creato nel corso della sua lunga vita, nessun originale ci è pervenuto.
Fra le sue opere più celebri era l'Apoxyomenos ("colui che si deterge"; 550). Rappresenta un atleta mentre, al termine della gara, si deterge con lo strigile. Gli atleti greci infatti si cospargevano il corpo di olio per rendere più elastici i muscoli; al termine della gara dovevano togliersi lo strato di unto, reso sporco dalla polvere e dal sudore, con un raschiatoio (lo strigile), uno strumento apposito, metallico, ricurvo e fornito di manico. Lisippo non sceglie dunque il momento della vittoria, ma quello, comune al vincitore e al vinto, della pulizia. Nella rappresentazione classica dell'atleta lo scultore greco non ha mai reso il senso dello sforzo, della sofferenza, o peggio, dell'unto, della polvere, del sudore che ricopriva i corpi dei concorrenti al termine della loro fatica: l'atleta era rappresentato idealmente nella sua perfezione. Così ce lo mostra anche Lisippo che, tuttavia, è indifferente alla vittoria o alla sconfitta; rappresenta piuttosto l'uomo in uno qualsiasi dei suoi momenti.
Nel realizzare questa figura, nuda e stante come un kouros arcaico, egli non dimentica la legge ponderale policletea. Ma la rinnova. Policleto raggiungeva l'equilibrio stabile, e quindi l'immobilità. Lisippo tende invece al movimento e quindi all'equilibrio instabile. La gamba flessa si allontana lateralmente e posteriormente da quella portante, mentre il piede si solleva solo leggermente da terra con il tallone. Il bilanciamento del peso sulle due gambe è momentaneo, perché segue il movimento in avanti (e successivamente indietro) del braccio sinistro che, con lo strigile, sta raschiando il destro. Per conseguenza tutto il corpo si sposta continuamente, mutando la distribuzione dei pesi. Da ciò risulta anche la sinuosità della linea verticale. La veduta posteriore è, per intendere meglio il significato di questo movimento laterale, ancora più interessante: si veda come il corpo è diviso in due settori dalla linea curveggiante della spina dorsale e quale intensa vitalità esprimano le masse muscolari.
La posizione dell'atleta è tale da rompere qualsiasi costrizione entro una cornice ideale ed entro il parallelismo dei piani anteriore e posteriore: il braccio, che di protende in avanti, conquista con decisione lo spazio affermando inequivocabilmente la tridimensionalità e quindi l'esistenza concreta dell'uomo. Per conseguenza anche il contorno, eludendo la linea retta, si muove in curve e controcurve.
Per evitare qualsiasi appesantimento fisico, che sarebbe incoerente con le caratteristiche di movimento pacato ma continuo, le proporzioni del corpo si rinnovano rispetto al canone di Policleto: tutto è più snello, più sottile, più nervoso.
Lisippo realizza le idee del IV secolo: rinunciando al tentativo di cogliere l'assoluto, accantonando la ricerca del divino perché inconoscibile, si rivolge all'umano, all'accidentale.